« indietro Sohrāb Sepehri di Nahid Norozi Cenni biografici1Sohrāb Sepehri, poeta, scrittore e pittore iraniano, nasce a Kāshān nel 1928 in una famiglia versata nelle arti e nelle lettere, che avrà un ruolo determinante sulla sua formazione intellettuale e artistica. All’età di appena sette anni, Sohrāb perde il padre. La sua infanzia trascorre in un grande giardino a Kāshān, città dell’Iran centrale. Sin da piccolo dimostra il suo interesse per la pittura e la calligrafia. Studia a Kāsh n fino alla prima adolescenza, in seguito, nel 1943, si trasferisce a Teheran per proseguire negli studi superiori. La raccolta Presso il prato (Kenār-e chaman) è la sua prima pubblicazione avvenuta nel 1947. Nel 1948 si diploma e prosegue gli studi alla Facoltà delle Belle Arti di Teheran, dove fa la sua prima conoscenza con la poesia di Nimā Yushij2. Da questi trarrà ispirazione per sperimentare nuovi schemi compositivi, lontani dal perdurante classicismo della poesia persiana coeva e dal repertorio delle immagini poetiche stilizzate. Pubblica in seguito qualche poesia in alcune riviste. A Teheran frequenta i circoli letterari, dove conosce di persona diversi famosi poeti e pittori dell’epoca. Nel 1951 e nel 1953 pubblica rispettivamente La morte del colore (Marg-e rang) e La vita dei sogni (Zendegi-ye khāb-hā), oltre a vari articoli su riviste importanti. Sepehri in quegli anni si dedica anche alla pittura esponendo i suoi quadri in mostre collettive e e individuali. Nel 1957, si reca in Europa a Parigi, dove frequenta un corso di litografia in una scuola di Belle Arti. Nel 1961 pubblica la raccolta Le macerie del sole Āvār-eāftāb) che comprende tre quaderni: L’Oriente della nostalgia (Sharq-e anduh), Le ma- cerie del sole Āvār-eāftāb) e La vita dei sogni (Zendegi-ye khāb-hā). Gli anni sessanta rappresentano il culmine della sua attività artistica: nel 1965 pubblica Il suono dei passi d’acqua (Sedāye pā-yeāb), nel 1966 Il viaggiatore (Mosāfer) e nel 1967 Il volume verde (Hajm-e sabz); mentre nel 1977 esce Noi nulla, noi sguardo (M hich, m neg h), tutte opere che ebbero una vasta risonanza e suscitarono un ampio dibattito. Nel 1961 compie un viaggio in India, esperienza che avrà una notevole influenza sulla sua spiritualità. È in quest’anno che Sohrāb rinuncia ai suoi impieghi statali, riprende a viaggiare visitando vari paesi fino al 1974. Nel 1977 gli otto libri di poesia usciti sino ad allora vengono riuniti in un unico volume e pubblicati col titolo Otto libri (Hasht ketāb), edizione cui facciamo riferimento per i brani qui tradotti. Nonostante il suo amore per il viaggio, Sohrāb fu sempre molto legato alla terra natale, affetto percepibile sia nella sua poesia sia nella pittura. Gli ultimi anni della vita li trascorse infatti a Kāshān e nei villaggi circo- stanti. Ammalatosi di leucemia, dopo un tentativo di cura in Inghilterra, muore a Teheran nel 1980 e viene sepolto nelle vicinanze di Kāshān. Carattere introspettivo e solitario, Sohrāb non si sposò mai, si tenne sempre alla larga dalle vicende politiche che impegnarono gli intellettuali dell’epoca, specie Shāmlou3, corifeo della poesia d’intonazione sociale e politica. Egli cercò piuttosto rifugio nella natura, nel cui specchio si scrutava, s’identificava, si annientava. La sua opera poetica è strettamente connessa a quella pittorica. I temi ricorrenti della sua poesia sono: natura e Dio, vita e morte, viaggio e solitudine, luce e ombra, e infine l’amore che nella seconda fase della sua vita prende però un marcato aspetto mistico e cosmico. Lo stile di Sepehri, carico di risonanze mistiche e mitologiche, risulta ermetico, ma a tratti anche infantilmente semplice, comunque mai banale. Della sua opera sono state pubblicate antologie nelle principali lingue europee. Le stagioni della poesia di SepehriLa morte del coloreLa morte del colore è la prima significativa raccolta poetica di Le composizioni di questo quaderno, sovente formate da una successione di quartine, per il modo in cui la metrica e la rima vengono impiegate si avvicinano parecchio allo stile di Nimā, la cui orma è percepibile anche nella minuziosa descrizione orizzontale e quasi narrante dei dettagli, con la differenza che lo stile e lo sguardo di Sepehri sono forse più semplici. Dal punto di vista contenutistico non presenta i temi sociali o i tratti filosofici tipici della poesia di Nimā .Il quaderno La morte del colore alla sua pubblicazione non suscitò molto interesse, forse perché nel clima politico e culturale dell’epoca, il pubblico richiedeva una poesia capace di esprimere i comuni dolori, il travaglio di una società in trasformazione, mentre i dolori espressi nella poesia di Sohrāb erano di carattere più intimo e individuale. Per coloro che pure apprezzavano una poesia intimistica, questo quaderno, tranne qualche componimento, non risultava particolarmente raffinato: nella società letteraria dell’epoca l’‘antitradizionalismo’ di Sohrāb non era ancora pienamente accettato. È famoso l’aneddoto in cui il poeta, incontrando nei giorni caldi della rivoluzione iraniana del ’79 un giovane con in mano un fucile, gli dice che dovrebbe avere in mano piuttosto un mazzo di fiori, dovrebbe innamorarsi invece di guerreggiare. Questo carattere pacifista di Sepehri in seguito ispirerà ampiamente il regista iraniano Makhmalbāf (Teheran 1957-) nel film Pane e fiore (1996). Questa sua propensione alla non violenza, fa di Sepehri uno dei più amati poeti dei giovani iraniani degli ultimi anni. La vita dei sogniNel quaderno La vita dei sogni, Sohrāb tende a comporre poesie più lunghe, sempre trascurando la metrica Si può intendere questa raccolta come un percorso introspettivo e spirituale verso la conoscenza del ‘sé’, in cui è del tutto assente la realtà fisica, rappresentata quale ‘freddo cadavere’. Tale esperienza non è da considerarsi come un viaggio spirituale e mistico specificamente islamico, di cui incontriamo una vasta esemplificazione nella letteratura persiana classica; benché non siano assenti echi di tale sostrato, il suo si presenta come un viaggio introspettivo che ogni singolo individuo è potenzialmente capace di compiere, consciamente o inconsciamente. Un viaggio di sapore gnostico, come possiamo constatare nella prima poesia Sogno amaro di questa raccolta in cui si parla dell’«agonizzare dell’Occidente» e del «pullulare dell’Oriente», quasi un manifesto o quantomeno un preludio alle raccolte seguenti che sono nettamente impregnate di gnosi orientale di tipo taoista.
L’esplorazione del sé inizia dal momento in cui il poeta non trova giustificazione per la propria esistenza, si vede come una possibilità gocciolata per caso come «una rugiada sulle erbe»4. Anche nelle sue ultime poesie il pensiero dell’accidentalità o possibilità cosmica sarà presente, ma non sarà percepito più come una pena, bensì con serena accettazione, come «freschezza». Nella raccolta Noi nulla, noi sguardo, in particolare nella poesia Qui sempre deserto (injā hamishe tih) Sohrāb così scrive: «la cicogna / come un candido evento / era al margine dello stagno», oppure in Il viaggiatore egli parla dell’«evento» della sua «esistenza» presso l’«albero» e, ancora, definisce la vita come «la colorata negligenza di un attimo di Eva». Invece nella raccolta La vita dei sogni, Sohrāb soffre di questa insensata esistenza, poiché essa non gli appare solo una possibilità, ma può essere anche un errore: «Io sono una stella gocciolata / sono gocciolato dagli occhi celati dell’errore…»5. Il poeta associa questo errore alla veglia, da cui fugge perché essa lo incalza con questa domanda: «Ho contemplato tutta la mia esistenza nel chiarore di questa veglia / non ero forse l’ombra perduta di un errore?»6. Oppure: «ero io forse che giunsi in questo giardino? / o era il giardino che aveva tutto colmato intorno a me?»8. E il giardino di cui il poeta parla è «un giardino nella voce» in cui non vi sono piante o alberi, ma solo il poeta o una parte di lui, il quale in tutta la raccolta La vita dei sogni ha una presenza per così dire sonnecchiante. Come s’è detto più sopra, non solo della realtà fisica del poeta in questa raccolta non v’è traccia, ma si percepisce anche un’assenza di coesione e unità della sua realtà spirituale, come se egli fosse diviso in due parti, una parte che guarda l’altra: «guardai me stesso faccia a faccia». Si potrebbe dunque considerare questo periodo del poeta come una fase iniziale e tutta sperimentale di autoconoscenza. La vita dei sogni è un’opera abbastanza insolita nel panorama della poesia contemporanea persiana. L’unico paragone possibile è con il famoso romanzo di Sādeq Hedāyat10 La civetta cieca in cui ritroviamo una simile atmosfera di sogno e il tema dell’autoconoscenza. Come nel romanzo di Hedāyat, anche qui abbondano sogni e visioni oniriche che sovente hanno un inizio improvviso o inaspettato, in uno stato in cui il corpo e le attività fisico-vitali sono come sospesi o ridotti al minimo. Il poeta nello stesso istante in cui «la palude della stanza» diventa opaca sente «il mormorio del sangue» nelle sue vene, e preparandosi a dormire o sognare, gli pare quasi di contemplarsi meglio nelle tenebre e nella palude, ossia nell’immobilità fisica ovvero nel distacco dal mondo esterno: «La palude della mia stanza s’intorbidì / e io sentivo il mormorio del sangue nelle mie vene / la mia vita scorreva nella profonda tenebra/ una tenebra che illuminava il disegno del mio essere»11. Il poeta è in cerca di quello stato di perfetta incoscienza che solo i sogni garantiscono; lo stato in cui le visioni oniriche richiamano e suscitano la poesia da cui il poeta attende di essere rapito. In La vita dei sogni notiamo una sorta di ‘unità centripeta’, composta dalle singole poesie che raccontano frammenti di esperienze vissute nei sogni, tra loro non necessariamente coesi: «Nell’oscurità senza inizio e senza fine / una porta nel chiarore della mia attesa crebbe»12. Il tempo di La vita dei sogni non è lineare e gli oggetti sono spogli di realtà corporea, quindi sono penetrabili; lo spirito del poeta, infatti, attraversa la loro ‘diafanità’ e fluttua in un mondo non imposto dall’esterno, bensì tutto intimo. La vita dei sogni è molto ‘nimaiano’, non da un punto di vista formale, bensì concettuale; nel senso che mostra di avere assimilato il messaggio di Nimā, secondo cui il poeta deve essere innanzitutto un esploratore della natura. Gli elementi della natura non appaiono più nella veste di concetti ipotizzati o convenzionali, ma vengono come spogliati e contemplati con occhi diversi con visioni nuove. Nelle poesie di Nimā la natura diviene tema centrale dell’esperienza diretta: il poeta diviene uno scopritore e questo, secondo Nimā, può avvenire soltanto uscendo dallo schema preconfezionato della tradizione letteraria classica, dove gli elementi naturali avevano perso la loro autonomia per trasformarsi in topoi o in personificazioni stilizzate. Questo ruolo di scopritore nelle poesie di Sepehri tuttavia si fa ricettivo, quasi passivo, perché il poeta non intende essere un inventore o un costruttore. Le macerie del sole e L’Oriente della nostalgiaLa natura non è il tema dell’esperienza poetica né in La vita dei sogni né in Le macerie del sole o in L’Oriente della nostalgia. Gli interrogativi relativi all’autoconoscenza che Sohrāb si poneva in La vita dei sogni in queste due nuove raccolte non ci sono, come se il poeta avesse trovato ormai le sue risposte fuori dalla poesia: egli non sembra guardare più a sé e alla strada che ha Si constata piuttosto una nuova esperienza, l’abbandono nelle mani del presente. Il titolo della poesia seguente, Veda (Vid), riflette la nuova Stimmung del suo pensiero. Sepehri vuole parlarci qui di un mondo in cui le parole non hanno accesso, e di cose che non accettano nomi, come ad esempio: «il non-dove (bi su-yi, alla lettera: ‘il senza-direzione’)», «essere incolore» (bi rang-i), e l’uso ridotto dei verbi in queste poesie ha una funzione semantica sottrattiva e marca l’assenza del tempo.
Il poeta toglie o riduce la materialità o fisicità degli oggetti, ma questa volta ciò avviene con intenzioni diverse, in un’atmosfera diversa. La struttura nella poesia si basa sulla reciprocità e sulla complementarietà delle immagini; nei due versi iniziali, si osserva una marcata assenza di specificazione: il poeta non parla di determinate canne o uccelli con i relativi nomi, non intende mettere in risalto una loro caratteristica. Da quegli uccelli non sentiamo che un sussurro. La porta è aperta, non si dice altro. Lo sguardo, che si potrebbe immaginare mirato a qualche punto, in quello spazio verso cui introduce l’apertura della porta, è invece perso. Il messaggio, che si può pensare destinato a un interlocutore, è diretto verso una direzione indefinita della pianura; e quest’ultima, esattamente di fronte alla stanza in cui il poeta contempla tutto, rievoca l’infinità. Abbiamo a che fare con una poesia aperta e fuori dagli schemi rigidi della tradizione, schemi che dettavano regole e limitavano in qualche modo l’orizzonte della visione poetica che implicitamente chiederebbe la libertà di fluttuare. Diversamente da La vita dei sogni, in cui il dettato aveva un percorso temporale e inoltre il tempo perfetto conferiva alle poesie un carattere narrativo, nelle altre due raccolte il tempo si dilegua; la percezione di Sepehri è più spaziale; le poesie appaiono come fotografie che, si direbbe, solidificano gli istanti.
In questa poesia si tematizza l’assenza del tempo come «il grande momento»: questo momento è un istante nel presente, di cui avremo percezione solo quando avremo abbandonato il tempo, o come dice il poeta quando «dai pressi del tempo» ci saremo alzati. Quando vengono cancellate le dimensioni del tempo, il poeta si trova nella posizione del contemplante, e quel che si apre alla sua visione, malgrado la sua dimensione ordinaria, è un «grande panorama», poiché non v’è il passaggio di tempo che sparga un velo di consuetudine sulle cose. L’assoluta assenza del tempo naturalmente è impossibile, ma v’è aspirazione, tensione a raggiungerla, e non solo quella del tempo ma anche quella dello spazio. «Ogni dove: un confine, ogni dove: un nome / fa’ d’informità un filo: / fallo passare / dalle perle del tempo e dello spazio / si possan ricongiungere tutte le cose / e non resti confine, né nome»11. Dove è presente il tempo, si tratta di un tempo interiore e la poesia è un percorso tutto spirituale del poeta, oppure come nel mito è un tempo ripetibile. Il contenuto di questa poesia, che apparentemente racconta un evento e pertanto ha esteriormente un suo corso temporale, è sempre la cancellazione del tempo. Il messaggio che il fremito delle ali di uccello evoca a noi e al poeta è che il tempo non è costante o lineare ma ripetizione e questa ripetizione ci porta a negligenza; quindi dovremmo attendere gli istanti che arrivano all’improvviso, che ci sorprendono e passano ineffabilmente, e contemplare e registrare gli elementi dello spazio che a differenza di quelli temporali sono lineari. La poesia di Sohrāb si allontana definitivamente dal naturalismo di Nimā ; degli elementi della natura vediamo solo le ombre, non i dettagli, ne vediamo semmai i volumi. Così come nella pittura sepehriana, in cui le ombre sono molto vistose, altrettanto avviene nella sua poesia. La natura è disegnata su uno sfondo vuoto, senza visibilità esplicita, come se volesse invitarci a vedere oltre. La sua sensibilità spaziale è verticale, il senso più forte è quello della vista. Il volume verdeIn Il volume verde e Il suono dei passi d’acqua il poeta, che nei lavori precedenti era un contemplatore e guardava se stesso avvolto nell’involucro dell’oggettività oppure guardava un mondo per metà sensibile per metà sovrasensibile, si scuote dall’immobilismo contemplativo, si mette tutto in movimento, e con lui si muove anche la natura. A questo punto il poeta diventa un viaggiatore e i suoi interlocutori sono tutti gli individui. Le sue poesie che prima a tratti erano narrative, ora diventano più evocative: prendono sopravvento i richiami, gli inviti, gli avvertimenti: «Non infanghiamo l’acqua!»12b, «bisogna costruire una barca» (v. infra), «Ascolta! Il più lontano uccello del mondo canta»13. Il suo interlocutore, che prima era un essere quasi spirituale, prende ora sembianze umane. Mentre prima viveva in viaggi interiori e spirituali, ora il suo viaggio si tinge del colore terreno (come si può verificare nelle due raccolte menzionate, ma anche in quelle che verranno), è immerso nel corso della storia umana. Mentre prima, la sua fuga era ‘verso’ un luogo, ora la stessa diventa sia ‘da’ qualche luogo sia ‘verso’ qualche luogo. Mentre prima quel ‘verso’ era ignoto, ora si tinge di tensione gnostica, la città verso cui il poeta vorrebbe partire rievoca la città ideale di Platone.
In queste ultime raccolte l’attenzione di Sohrāb verso la natura è cambiata. Mentre prima la natura non aveva una propria autonomia (gli elementi naturali erano segni evocativi o presenti soltanto coi nomi generici), Il suono dei passi d’acqua invece ci mostra un elenco di nomi specifici di fiori, di alberi, di luoghi che sotto la luce del sole brillano di vitalità; uno dei termini più ricorrenti è infatti proprio «vita». La varietà terminologica, lessicale, in questa fase della poesia di Sepehri, è forse la più ricca che sia dato trovare in tutta la letteratura persiana contemporanea. A differenza di altre raccolte che avevano un linguaggio marcatamente astratto, in queste ultime, specie in Il volume verde, si riscontra una forte tendenza al sensibile, al reale. Il poeta non è più solo il contemplatore di una parte del mondo e per giunta un mondo sovrannaturale, egli non è più un narratore delle proprie esperienze interiori, ma vuole percepire, sentire il mondo con tutti i suoi sensi naturali. Ma il suo non è uno sguardo neutro sul mondo, quanto piuttosto uno sguardo misticamente anche se limitatamente partecipe alla dinamica del mondo col fine ideale di raggiungere l’annientamento in esso: «Ho veduto una poetessa / così annientata nella contemplazione dello spazio che nei suoi occhi / il cielo deponeva l’uovo»14. 2.5. Il viaggiatore e Noi nulla, noi sguardoIl viaggiatore e Noi nulla, noi sguardo, le due ultime raccolte poetiche di Sepehri, sono un proseguimento della fase precedente. Abbiamo fino ad ora constatato un certo movimento o evoluzione nel suo percorso artistico e nella sua visione del mondo, una certa maturazione progressiva, un percorso che iniziava dalle domande, dai dubbi, a cui, nelle fasi successive, venivano date risposte. In quest’ultima fase il poeta passa da un percorso intimo-personale a uno di più ampio respiro che guarda a tutta l’umanità. Se in precedenza il poeta in persona, un pittore di Kāshān, era il fulcro del dettato poetico, e quando si occupava del destino umano, ciò avveniva attraverso la storia di questo personaggio, ora il poeta diventa il viaggiatore di una via con più ampi orizzonti. Il poeta non si narra più in prima persona, ma è il mondo, la geografia, la storia che vengono visti con gli occhi di uno che ha il nome di Viaggiatore. I nomi specifici sono rari o stranianti e alludono ai tempi più remoti, a territori antichi e cose arcaiche; aumenta l’uso di termini composti e sovente poco noti, di conseguenza anche il messaggio talvolta non ha la chiarezza e la immediatezza riscontrabile nelle due raccolte precedenti. Il volume verde e Il suono dei passi d’acqua sono raccolte capaci di estasiare il lettore per la loro istantanea,limpida percepibilità sensoriale come per esempio in questo verso: «Dall’assalto del lucore i vetri della porta vibravano»15; in queste due raccolte invece gli elementi sono sì naturali, ma come già avveniva in buona parte di L’Oriente di nostalgia, privi di emotività, come se il poeta volesse – con espressioni del tipo: «presenza stanca delle cose»16, «il volume del tempo»17, «ambiguo senso di percezione della morte»18 e «margini puri della vita18» – dirci qualcosa del mondo che con le parole semplici di Il volume verde ad esempio non era stato capace di trasmettere. Proprio per l’insistenza su questa scelta, secondo alcuni critici, Sohrāb in questa fase perde l’incisività di prima, anche se la sua poesia acquisisce nuovi aspetti, una dimensione magari più filosofica. Specie in Noi nulla, noi sguardo, che per il linguaggio e il significato è molto simile a Il viaggiatore, l’esperienza astratta, intellettuale, prende il posto della esperienza diretta, concreta del mondo. In queste poesie ogni nome può fungere da aggettivo o può avere qualsiasi aggettivo; ogni soggetto è capace di compiere qualsiasi azione verbale. Nella poesia «O salato! O antico!», il poeta sembra voler creare un mondo linguistico a fronte di un mondo reale, in cui la festa possiede dimensioni il cui «salato sparge ombra sul gusto». La poesia procede con questa ‘logica’, ossia sottesa da un'interna illogicità, che è poi la logica delle possibilità linguistiche di cui il poeta si serve senza limiti.
Uno dei motivi principali in queste ultime poesie è la nostalgia del passato infantile, non solo l’infanzia della vita di ogni individuo (quegli «obliqui infantili», «l’appuntamento dell’infanzia e la sabbia»), ma anche l’infanzia intesa come albore dell’umanità con la sua semplicità, con l’assenza del linguaggio declinato; l’invidia dei tempi in cui: «l’uomo era congiunto di un ramo»20, «giorni in cui / la scienza viveva al margine dell’acqua» e «l’uomo / con la pigrizia sottile di un pascolo / era felice con le celesti filosofie»21; l’invidia per «la prateria prima della profusione del linguaggio» in cui «la nostra ultima festa del corpo era in corso»22. Note1 Di Sohrāb Sepehri sono state tradotte finora in italiano venticinque poesie da Riccardo Zipoli e Gianroberto Scarcia nel volume bilingue Un giardino nella voce (bāghī dar sedā ), accompagnate da fotografie del paesaggio iraniano di Riccardo Zipoli (Angelo Pontecorboli Editore, Firenze 1995). Le fonti utilizzate per l’articolo sono le seguenti: Dāriyush Āshuri, Payāmi dar rāh (Un messaggio in arrivo), Teheran 1980; Sohrāb Sepehri, Hasht ketāb (Otto libri), Teheran 1992; Paridokht Sepehri, Sohrāb, morgh-e mohājer (Sohr b, l’uccello migratore), Teheran 1996; Kāmyār ‘ Ābedi, Tapesh-e sā ye-ye dust (Il battito dell’ombra dell’amico), Teheran 1998; Hoseyn Ma‘sumi Hamedāni, «ā nesh-nāme-ye adab-e fā rsi», tomo II, pp. 607-14, Teheran 2001; Mohammad Hoquqi, Sohrāb Sepehri, Teheran 2002; Sirus Shamis, Negāh-i be Sepehri (Uno sguardo a Sepehri), Teheran 2003; Kāmyā r ‘ Ābedi, Az mosāhebat-e āftāb (Dal simposio del sole), Teheran 2007. Torna su ¬ top of page |
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