« indietro L’Antico parla oggi: sopravvivenze, traduzioni e riadattamenti della poesia classica e medievale di Maria Arpaia Floris Dal 22 al 29 novembre 2010 Napoli è stata porto ospitale di lingue e linguaggi, porta di osmosi culturale tra il testo e il suo traduttore. Nell'ambito del progetto di cooperazione internazionale EST - Europe as a Space of Translation, finanziato con i fondi dell'Unione Europea e inserito nell'agenda del Programma Cultura 2007-2013, la città partenopea ha declinato l'idea di traduzione in otto giorni di eventi culturali in cui l'alterità è stata posta al centro di una riflessione approfondita e eterogenea. Dopo Parigi (giugno 2009 - Università Paris VIII), Vienna (novembre 2009 - Universitat Wien), e Francoforte (ottobre 2010 - Fiera internazionale del Libro), Napoli è stata l'ultima tappa di un progetto biennale che guarda all'Europa come fucina di lingue e identità, bacino generatore di una cultura di sintesi in cui le diversità, indipendentemente dalle esigenze delle cosiddette ‘maggioranze dominanti', emergono nella loro peculiarità. Con il patrocinio dell'Università degli Studi di Napoli ‘L'Orientale' e grazie all'infaticabile lavoro del project manager Camilla Miglio, la città stessa si è tramutata in un suggestivo salotto culturale, in cui scrittori, poeti, traduttori e intellettuali si sono confrontati sull'idea della traduzione come ‘metamorfosi', dando vita a un vero Festival della Traduzione: Tradurre (in) Europa. Musica, teatro, arti figurative, cinema, fumetto, lingue nazionali e dialetti, idiomi più diffusi e minoritari, letteratura colta e popolare: dieci percorsi tematici L'indagine sulla traduzione promossa dal Festival non si è mossa solo a livello sincronico, comparando linguaggi e media dei più disparati e contaminando generi differenti, ma si è incamminata anche verso una direzione diacronica, indagando i rapporti tra le moderne traduzioni e le lingue antiche. L'attività traduttiva va intesa come strumento conoscitivo privilegiato per attingere alla conoscenza di culture lontane nel tempo e cogliere con la lucidità necessaria gli influssi e i retaggi presenti nel nostro secolo. La voce dell'antico parla ancora oggi, più chiara e feconda che mai, duttile strumento espressivo per coloro che se ne fanno interpreti. Il Centro di Studi ‘I Deug-Su' dell'Università di Siena ad Arezzo e questa rivista di Letterature Comparate hanno partecipato all'organizzazione scientifica del percorso che, all'interno del Festival napoletano, si è occupato di rintracciare le radici storiche della prolificazione delle lingue nazionali e di stabilire il nesso profondo tra l'antico e il suo bisogno di essere tradotto, per riviverlo, nei tempi moderni. Il primo incontro è stato dedicato alle lingue della lirica medievale, una selva di simboli e temi spesso resi inaccessibili dalla mancanza di traduzioni. La poesia tardo-antica, erede naturale di quella classica, occupa un ruolo nodale nel veicolare miti e figure nella modernità. Una tavola rotonda, moderata da Corrado Bologna, ha dato voce alle lingue germaniche, latine, bizantine, persiane, quasi riproducendo la rappresentazione medievale del mondo conosciuto, che procede dall'Asia centrale alla Lusitania, disegnata ad opera dei cartografi arabo-siciliani. Da est a ovest, seguendo il percorso solare, hanno risuonato, in traduzione italiana, i versi potenti della poesia norrena; la raffinata complessità della scrittura bizantina; il fascino ermetico della poesia celtica (esposto da Melita Cataldi, che non ha potuto consegnare la versione scritta), il polimorfismo della poesia mediolatina; la lingua, neutra per natura e priva di genere grammaticale, della lirica d'amore persiana. La necessità della pubblicazione di testi con versione italiana a fronte, che conferisca nuova vita alla poesia tardo antica e consenta interazioni culturali sincroniche e diacroniche, ha motivato la nascita della nuova collana Scrittori latini dell’Europa medievale della Pacini Editore, la cui presentazione, ad opera di Paolo Garbini, ha suggellato l'incontro e riassunto le esigenze della diffusione della lirica medievale. Mai come in questo caso la traduzione deve essere considerata uno strumento conoscitivo irrinunciabile, chiave primaria di accesso ad un mondo troppo spesso celato dietro le difficoltà di comprensione linguistica e di resa traduttiva. d'impasse di produrre testi italiani eccessivamente raffinati e poco fruibili, a causa della fitta rete di rimandi intertestuali, sembra superata dalla collana Scrittori Latini dell'Europa Medievale di Pacini, che ha il merito di affrancare i testi medievali dalla circolazione esclusiva degli specialisti e di consegnarli, in una veste linguistica rigenerata, ad un pubblico nuovo e più ampio. La riflessione sulla traduzione come re-interpretazione e ri-scrittura è stata approfondita e declinata nei suoi risvolti più simbolici e quasi iconografici durante la tavola rotonda sul rapporto tra la lingua classica e il genio di Pier Paolo Pasolini. In una cornice di eccezione, quale la mostra allestita per l'occasione in collaborazione con la Fondazione Morra e il Gabinetto G. P. Vieusseux, Centro Studi - Archivio P P Pasolini, si è analizzata l'attività traduttoria del noto intellettuale, partendo dall'analisi filologica delle scelte lessicali per rintracciarne poi le basi ideologiche. Tra disegni, dipinti, ritagli di giornale, filmati e le tren- tatre tavole/fumetto che raccontano la sceneggiatura del mediometraggio La terra vista dalla Luna, la vita, la morte e il sacro irrimediabilmente perduto nella modernità - temi pasoliniani per eccellenza - hanno fatto da presupposto ideologico alla discussione e alla rilettura delle traduzioni, moderata da Massimo Fusillo, che coniuga nell'eterogeneità dei suoi interessi culturali una formazione classicista e la passione per le sue riscritture moderne. La frequentazione con i testi più potenti della classicità diventa in Pasolini supremo sforzo linguistico per riportare in vita la sacralità del mondo antico, come atto supremo di rivoluzione e di ribellione. Pasolini si appropria visceralmente di un testo e può farlo solo traducendolo, in una sorta di assimilazione: nel tradurlo, «un testo si divora, come un cane l'osso»1. Il rapporto diventa così fisico, di ingestione e digestione delle strutture lessicali e sintattiche delle lingue antiche. Nella continua consonanza tra testo e movenze dell'anima, lo scrittore piega l'opera del passato alle esigenze del presente e alle urgenze del suo spirito. Ampliando le marche soggettive dell'espressività, la lingua del passato si fa strumento delle categorie culturali del presente e al tempo stesso espressione di manie ed ossessioni. Durante il percorso napoletano sulla traduzione dall’antico, non poteva mancare una riflessione sulla tra-duzione dell’antico nella modernità, un momento di confronto sulla permanenza del classico negli interessi dei lettori contemporanei. La presentazione dell'Almanacco BUR La resistenza del classico, curato da Roberto Andreotti, ha fornito l'occasione per attivare un vivace dibattito sulla divulgazione della cultura e della letteratura antica, anche grazie alle sollecitazioni di Giancarlo Abbamonte che ha recensito, in sede di discussione, il volume. Dalla ristretta cerchia di specialisti alla banalizzazione degli stereotipi di cui è spesso vittima il passato classico, l'approccio con il mondo antico manca di una soluzione mediana, che risulti accessibile alla platea dei non iniziati ma al tempo stesso presenti contenuti approfonditi e argomentazioni fondate. Il testo di Andreotti, una vera miscellanea di saggi suddivisi in sezioni, che affrontano questioni letterarie dell'antichità ancora prolifiche per i generi moderni, intende colmare questa lacuna, offrendo un prodotto di alta qualità e dal linguaggio accessibile. Il giornalista, di formazione antichista, ha a cuore la sostanziale alterità del mondo antico, che va preservata come occasione di educazione al diverso, in palese opposizione ad ogni tentativo di banale appiattimento del passato sul presente, al solo scopo di renderlo più familiare ai lettori coevi. Contro ogni tipo di stereotipo, il passato deve ‘resistere' alla tendenza semplificante dei cliché ormai insiti nella memoria collettiva e affermare, invece, l'effetto straniante della sua cultura e dei codici letterari. Il fine non è solo quello di dar vita ad un ambizioso progetto di corretta divulgazione dell'antico, ma di promuovere una vera e propria educazione alla cultura classica. Nell'analisi del rapporto tra testo di partenza e traduzione non poteva mancare la voce dei poeti-traduttori, che fanno risuonare i versi di un'altra lingua all'unisono con la propria vena letteraria. Tradurre poesia con la poesia è un'operazione che segna una compartecipazione profonda di suggestioni e di influenze tra una cultura e l'altra, presenti entrambe nello spazio liminale dell'opera letteraria. E al centro di questa riflessione nessun altro poeta se non Dante poteva interro- gare gli studiosi sulle modalità di traduzione/riscrittura di un classico in una diversa civiltà e misurare, in una concretezza quasi corporale, la distanza/vicinanza tra due lingue, culture, memorie. ‘Read on Dante': il titolo della sezione rivela l'intento di organizzare una lettura dantesca dei maggiori traduttori del poeta toscano. Ma è diventato anche ‘Redone Dante', perché un testo come quello dantesco si riscrive, anzi si sovrascrive, compensando il piano della scrittura e adattando i valori che veicola alla tradizione culturale di destinazione. Il risultato è stato quello di ‘Ridondante': nelle varie scritture il ritmo, il suono, il timbro della lingua fiorentina si misurano con la fonetica di lingue lontane. Nella cornice moderna del PAN - Palazzo delle Arti di Napoli, suggestivo contrasto con i versi medievali che vi hanno risuonato, traduzioni plurilinguistiche dantesche si sono confrontate in tutta la forza espressiva. Un unico, saldo punto di ancoraggio nella babele linguistica: il testo dantesco, vivo come non mai, generatore ed emanatore di poesia quasi per induzione, tanto da fecondarne le versioni del polacco, spagnolo, inglese e persiano, ciascuna poesia a sua volta. Simone Marchesi, dantista dall'Università di Princeton, ha moderato la tavola rotonda che ha visto riunite personalità di spicco del panorama poetico e culturale europeo. La nota dominante del discorrere è stata l'esigenza di rispettare il carattere poetico del testo italiano, senza tradirlo nella riscrittura traduttiva, ma riproducendo quanto più possibile gli effetti sonori e le figure stilistiche. Anche se, in una lingua straniera, la terzina può arrivare ad essere un suono molesto dal ritmo martellante ed incisivo, così come la ricerca ostinata di rime perfette o di una struttura endecasillaba rischia di forzare l'espressività e la scelta lessicale, il poeta-traduttore ha il compito di preservare l'effetto dell'opera sull'uditorio, magari adottando un sistema di assonanze e consonanze più idoneo alla lingua in cui scrive, nel tentativo di riprodurre la musica della poesia originaria. Ed anche se la traduzione può rivelarsi addirittura un'impresa disperata, a causa della ricchezza lessicale di Dante, della complessità della struttura dei rimandi interni, del ritmo imprevedibile, interrotto da soste inattese e da accelerazioni brutali, appare indispensabile riprodurre la freschezza di una lingua che cresce su se stessa, superando i limiti linguistici per esprimere una realtà rappresentabile oltre i confini umani. L'importante in una traduzione è la veridicità. Nel tradurre si diventa ricreatori del testo, poeti occulti, ri-elaboratori di suoni: l'unico elemento che del testo originale si riesce a veicolare senza dover necessariamente mutare è il messaggio, che va preservato nella sua essenza. Per questo il traduttore è sì un poeta, ma non un autore ex novo del testo. Dante stesso, in un noto passo del Convivio2, sembra essere categorico: la poesia è intraducibile. Si può rendere il senso, farlo ‘trasmutar in varie loquele', ma pagando un costo molto alto, perdendo irrimediabilmente dolcezza del verso e armonia del suono. Eppure, argomenta Simone Marchesi al termine della discussione, paradossale risulta questa posizione ideologica. Il messaggio universale della Commedia, per sua stessa natura e finalità, si sarebbe dovuto aprire alla massima traducibilità, per ampliare i confini di diffusione dell'opera e del suo messaggio religioso. Nessuno più di Dante avrebbe gradito tutta la fortuna traduttiva di cui ha poi goduto il poema fino ai giorni nostri, garanzia di vera immortalità letteraria. La pluralità di approcci e l'approfondimento dei contenuti delle giornate napoletane, di cui si è cercato qui di riportare lo spirito, hanno contribuito a gettare nuova luce sul tema della traduzione come punto di raccordo tra l'antico e il moderno. Il testo tradotto non è solo un elemento imprescindibile per facilitare l'accesso ai testi classici, ma un'identità autonoma, espressione del contesto culturale in cui è prodotto, cartina di tornasole da cui è possibile cogliere il riflesso dell'originale e le rifrazioni della riscrittura moderna. Poter godere dell'interazione reciproca di alcuni dei più autorevoli studiosi di ciascun argomento trattato, tutti riuniti al medesimo tavolo di lavoro, è sembrata un'occasione così unica e privilegiata da indurre gli organizzatori a diffondere e a rendere pubblici questi contributi, scegliendo di distribuirli in due sezioni: la prima dedicata alle sopravvivenze del classico greco e latino, la seconda alla riviviscenze della letteratura medievale, che rinasce all'attenzione del lettore proprio grazie all'opera di traduzione. Note1 P.P. Pasolini, Lettera del Traduttore, Torino 1960, prefazione al lavoro di traduzione dell’Orestiade di Eschilo, realizzata per il XVI ciclo di rappresentazioni classiche nel Teatro greco di Siracusa: «Ma cosa potevo fare, se avevo davanti a me, per la traduzione, solo pochi mesi, e per di più con sacrileghi abbinamenti a due tre sceneggiature consecutive? Allora non mi è restato che seguire il mio profondo, avido, vorace istinto, contro il quale, come il solito, stavo cominciando pazientemente a combattere […]. Mi sono gettato sul testo, a divorarmelo come una belva, in pace: un cane sull’osso, uno stupendo osso carico di carne magra, stretto tra le zampe, a proteggerlo, contro un infimo campo visivo».▴ ¬ top of page |
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