« indietro Su Pasolini traduttore classico: rilievi sparsi tra fatti e leggende di Federico Condello L'Orestiade del '60: fu vero scandalo?Nel riandare, dopo molti anni, al proprio lungo e polemico dialogo con Pasolini, Fortini si rimproverava con franchezza, e rimproverava al collega-rivale, di «non aver saputo con bastante energia rifiutare la ridicola e non innocente enfiagione dei ruoli che il potere o l'antipotere, che del primo non di rado è complice attribuisce alle corporazioni delle arti e delle lettere»1. Illusione prospettica ben nota, alla quale vanno soggetti i posteri non meno dei contemporanei. Illusione che induce talora a trattare la storia degli intellettuali come storia a sé: a isolarne e ingigantirne casi e protagonisti, al di là di più larghi e complessi contesti. Si prenda il caso dell'Orestiade pasoliniana, celebrata versione da Eschilo che Pasolini frettolosamente realizzò, su impulso di Gassman e Lucignani, per la stagione teatrale siracusana del I9602. Tale versione si assicura da più parti «fece sdegnare i filologi più conservatori», «per i puristi della filologia classica [...] risultò scandalosa»3. E addirittura: «nel 1960 il Teatro Greco di Siracusa verrà ‘profanato' dall'Orestiade di Pasolini [. ] con grande scandalo dei critici e sollevazione di popolo, classicisti in testa»4. L'opinione, in proposito, è unanime. Ma è un'opinione fondata? Difficilmente si dà artista senza leggenda. Ancor più difficilmente - data la leggenda l'artista può rinunciare a un ideale antagonista: Kris e Kurz, su questo punto, hanno detto tutto l'essenziale5. Artista contraddittorio e consapevole quant'altri mai, Pasolini ha sempre lucidamente prefigurato i propri antagonisti ideali: preti o polizia, censura o generico establishment. Gli apologeti postumi hanno fatto il resto: ovviamente banalizzando, e riducendo a forma alquanto triviale quel che fu invece, o fu almeno, una sorta di mauditisme riflesso, sofferto e talora vistosamente autoironico (per raggiungere una qualche «autenticità attraverso l'inautentico», sintetizzava lo stesso Fortini)6. Per quanto concerne le traduzioni dall'antico, l'antagonista obbligato è facilmente prevedibile: esso sarà ovviamente l'Accademia, sarà la Filologia, sarà il mondo ostico e ostile dei Professori, custodi superciliosi di un patrimonio letterario che Pasolini, improvvisato grecista ma poeta per «istinto»7, ebbe l'ardire di rinnovare, rivitalizzare, restituire genialmente contro ogni protesta professorale alla lingua della poesia odierna. Così, appunto, vuole la vulgata, nelle sue mille ma monotone versioni. E il lettore interessato a sorbirne un saggio istruttivo farà bene a vedere, da capo a fondo, il documentario Gassman, Pasolini e i filologi (Italia, 2005), a firma di Monica Centanni e Margherita Rubino8, dove la semplificazione storica è pari solo all'enfasi polemica. Qui, fra le altre cose, si sentirà descrivere un Pasolini osteggiato a priori dagli stessi committenti l'Istituto Nazionale del Dramma Antico e strenuamente difeso dai registi; si sentirà rievocare il «clima teso [.] intorno alla sfida eretica di Gassman», e ritrarre un intero mondo accademico còlto dallo scandalo e dall'indignazione; si sentirà soprattutto riassumere, per sparse ma generose citazioni, l'atto infame di un Professore terribile, Enzo Degani, che nella sua recensione all'Orestiade di Pasolini9 avrebbe sintetizzato il malumore della propria categoria, cioè la «fisiologica irritazione del filologo che vedeva invaso il proprio campo disciplinare da una diversa luce d'intelligenza». È un bello scampolo della leggenda, tale documentario, e come tale lo si cita e consiglia. I fatti sono stupidi, diceva Nietzsche, ma spesso, a sfatare le leggende, bastano e avanzano. E alcuni solidi fatti il caso è buffo si desumono dallo stesso documentario, non parco di documenti d'epoca. Ecco quindi le lettere dell'INDA, che su Pasolini si esprimono con parole compassate ma complimentose, non nascondendo affatto interessi di cassetta10. Ecco la rivelazione franca: per le Coefore si pensò, in un primo tempo, alla versione di Quasimodo (1949); dunque, non certo l'opera di un filologo o professore professo: anzi l'opera di un poeta che contro i professori ingaggiò, retoricamente, una guerra preventiva e in fondo non necessaria11. Ecco ancora i lacerti di stampa coeva che testimoniano, nel complesso, di un'accoglienza decisamente favorevole da parte del pubblico, della critica e soprattutto dell'accademia. Tali lacerti andrebbero letti uno per uno, a ricostruire un quadro ben più articolato di quello che la leggenda tratteggia12. Basti qui ricordare la testimonianza di uno spettatore-filologo contemporaneo, Italo Gallo: «in complesso [...] i giudizi della critica teatrale, soprattutto sulla traduzione, furono positivi»13; e basti rimandare alla rassegna stampa in «Dioniso» XXIV (1960), pp. 189-195, il cui semplice spoglio conferma la sostanziale infondatezza, o quanto meno gli eccessi, di molte ricostruzioni postume14. Quanto al mondo degli odiosi Professori presunta humus di uno scandalo pressoché nazionale non è gran fatica ricorrere agli atti del Convegno INDA che precedette, come d'uso, la prima siracusana: niente di più ufficiale, dunque, e niente di più accademico. Purtroppo, qui non si trovano né grida sdegnate né prove di diffuso sbigottimento. Al più, nell'intervento che talora si indica come particolarmente critico quello di Ettore Paratore si leggono placidi e bonari riconoscimenti all'indirizzo di Pasolini («complessiva vivacità e modernità della resa espressiva, che permette agli attori di affrontare finalmente un testo classico senza quell'impaccio, quel timore reverenziale, quel disagio in cui quasi costantemente li gettavano le versioni precedentemente adottate per la recite siracusane»; «nella versione del Pasolini, pur nella vesta così spigliatamente agile, non si perde quasi nessuno dei rutilanti impasti linguistici e stilistici dell'immaginosa temperie espressiva eschilea»)15. Riconoscimenti che oggi potrebbero apparire addirittura generosi. Altre critiche, altri sfoghi? Nessuno. Eppure, proprio gli Atti congressuali siracusani erano indicati da Gassman come prova dell'ostilità diffusa in ambiente universitario: si leggano, al proposito, le compiaciute rievocazioni dello «scandalo» nella sua Intervista sul teatro («fu una versione splendida [...]. Splendida e coraggiosa [...]. Suscitò perfino un certo scandalo, come chiunque può constatare consultando gli atti del convegno indetto per l'occasione dall'istituto stesso, e pubblicati sulla rivista “Dioniso”»)16. Chiunque può constatarlo, appunto: e constaterà inevitabilmente come lo scandalo sia invenzione in gran parte postuma. L'astuzia celebrativa e pubblicitaria sottesa a una simile leggenda è così banale da non richiedere commenti. Essa può richiedere, semmai, documenti; e ce n'è uno poco noto che merita d'essere ricordato. Si tratta del preventivo auspicio che Gassman e Lucignani hanno consegnato alle pagine di «Sipario», allora, ben più che oggi, rivista influente e militante; nel numero del novembre '59, nel contesto della tavola rotonda Il circo è pronto: fuori i leoni! vi parteciparono, fra gli altri, De Chiara, Gassman, De Feo, Prosperi Lucignani si augura con disarmante onestà: «speriamo che gli spettacoli di Siracusa scandalizzino qualcuno»17. Pochi mesi dopo, recensendo l'Orestiade per lo stesso mensile, Arnaldo Fratelli concludeva: «lo spettacolo ha avuto un successo tale, da poter essere definito un trionfo per Gassman e per i suoi collaboratori»18. Molto trionfo, dunque, e ben poco scandalo, se non invocato e poi ad arte gonfiato per comprensibili e umanissime ragioni. Può dispiacere ammetterlo, ma i Professori non sono sempre perfidi, né stolidi, come le leggende li dipingono. Quanto alla famigerata recensione di Enzo Degani, essa al di là delle distorsioni postume fu voce sostanzialmente isolata entro il coro dell'accademia e della critica italiane: il ripristino di questa elementare verità storica è quanto mai raccomandabile. E, di tale recensione, tre cose almeno andranno rimarcate. Innanzitutto, le critiche puntuali dello studioso anche gli apologeti lo ammettono sono semplicemente indiscutibili: la versione di Pasolini è in parte consistente ‘traduzione di traduzione'19, non senza sviste badiali a partire dalla versione francese di Paul Mazon; e che questo sia un dato testuale trascurabile ai fini dell'esegesi - anche dell'esegesi più simpatetica può pensarlo solo chi, più o meno crocianamente, oppone ancora filologia e poesia (cf. infra, § 2). In secondo luogo, le critiche di Degani non sono affatto esclusivamente - e nemmeno, direi, prioritariamente centrate sul dato linguistico e filologico: basta rileggerle per intero, quelle pagine lucidissime, senza fidarsi di estrapolazioni tendenziose, per appurare come il grecista contestasse severamente l'aspetto ideologico dell'operazione, cioè «la ingenua interpretazione pseudo-marxistica»20 adottata, via George Thomson, da Pasolini e da Gassman-Lucignani21. Chi conosce l'opera critica di Degani sa che un intento profondo l'ha a lungo e in profondità animata; un intento culturalmente cruciale, e tutt'altro che meramente accademico, specie fra anni '60 e '70: strappare gli autori antichi a interpretazioni politicamente ingenue o pseudo-marxistiche, appunto tese a scorgere ispirazione popolaresca laddove l'analisi rivela dottrina ed elitismo. Sarà, per il Degani maturo, il caso di Ipponatte o di certi alessandrini22; ed è già il caso, appunto, dell'Eschilo «elementare» fantasticato da Pasolini23; elementare, ‘civile', e dunque annesso senza scrupoli al campo di un discorso para-marxiano sentimentalmente e strumentalmente marxiano che di Pasolini fu tipico. Su ciò non è il filologo Degani che, motivatamente, si oppone: è semmai lo storico (e marxista) Degani. Infine, un ultimo dettaglio di ordine fattuale merita d'essere evidenziato, perché gli apostoli della leggenda sono inclini più che mai a occultarlo: colui che nel 1961 si scaglia, isolato, contro il poeta Pasolini, non è un arcigno accademico di vecchio corso, né un autorevole rappresentate di supposti baronati filologici; egli è in verità un giovane studioso di appena 28 anni, alla sua terza pubblicazione scientifica. Non certo la figura ideale, dunque, per prestarsi alla parte che la leggenda vorrebbe imporgli: quella del rappresentante di un'Accademia canuta e reazionaria, rabbrividente di indignazione e insorta a una voce contro le intemperanze del poeta ribelle. Quest'ultimo, semmai, era allora quel che si sa, e che Fortini così descriveva, già nel 1959, cioè nell'anno in cui Gassman e Lucignani gli commissionano l'Orestiade: «[Pasolini] è l'unico con Moravia, e forse per questo sono così amici che affronti intrepidamente il mondo dell'industria culturale, della ipocrisia ufficiale, e lo abbia costretto a patteggiare con lui. È una istituzione nazionale, ormai. Odiato e invidiato quanto è necessario alle istituzioni»24. A parte i fatti, i testi: qualche rilievosull’AgamennoneSe si è insistito, in limine, sulla sostanziale infondatezza di una vulgata ancora così florida, non è solo per amore dei fatti: la deleteria semplificazione dei fatti ha ricadute cospicue sull'interpretazione. Una in particolare: l'allarmante tendenza a invocare, contro la filologia, le ragioni di una astratta, astorica «poesia». Un solo esempio fra i molti, attinto ancora al documentario di Centanni e Rubino: «nessuna traduzione, tantomeno quella di Pier Paolo Pasolini, si può analizzare scindendola nelle componenti e atomizzando le parole. Si tratta di un discorso poetico, e come tale va preso, nella sua interezza»25. Curioso postulato, per la poesia di ogni epoca o luogo, e per la critica di ogni ispirazione o scuola. Allo stesso modo, se delle traduzioni pasoliniane si continua a predicare come già si predicò, per voce degli stessi Gassman, Lucignani e Pasolini un generico ‘anticlassicismo', ci si preclude la via alla comprensione autentica del problema, non solo sotto il profilo testuale, ma anche sotto il profilo culturale e ideologico: di che specie d'anticlassicismo si parla, concretamente e storicamente? Ovvero: come è fatta e cosa fa la traduzione pasoliniana di Eschilo? Senza esitazioni, dunque, ‘scindiamo' e ‘atomizziamo', per quanto lo spazio lo concede. Una sola premessa. Si è suggerito, altrove26, che le versioni pasoliniane si tratti di Saffo o di Eschilo, di Virgilio o di Sofocle nascano dal compromesso fra due pulsioni solo in apparenza opposte: per semplicità, e con qualche schematismo, diremo qui una ‘pulsione oggettivante' e una ‘pulsione soggettivante'. La prima orienta tutte quelle metamorfosi dell'ipotesto antico che vanno nella direzione, fortemente astrattiva, di un lessico chiuso e tendenzialmente intellettualizzato; un lessico che elimina varietà e problematicità dell'originale condensandone i valori in un novero ristretto di parole-chiave, quasi parole-slogan, riducibili a campi semantici elementari e, in ultima analisi, a una basilare opposizione fra termini ‘euforici' e ‘disforici'. L'Eschilo binario e banalizzato della Lettera del traduttore non è solo una trovata esegetica, di vaga origine bachofeniana prima ancora che thomsoniana27: esso è premessa e insieme esito di una coerente semplificazione traduttiva, che incide sulle singole componenti o sui singoli ‘atomi' del testo. Di contro, o meglio a complemento di tale pulsione, agisce e opera ovunque una tendenza a incrementare i tratti egoici, soggettivi, sui-referenziali del testo antico: la disseminazione di deittici, di pronomi personali e, più in generale, di marche semantiche della soggettività, produce una netta torsione del testo in senso emotivo o apertamente passionale. Detto altrimenti: se da un lato la tragedia a livello enunciativo assume le forme del testo didascalico o del dramma a tesi, dall'altro lato a livello enunciazionale la mise en relief della ‘voce' o delle ‘voci' narrative guida inequivocabilmente a una spregiudicata lirizzazione dell'originale. Robuste personificazioni simboliche o emblematiche, da una parte; e, dall'altra, personalizzazioni non meno robuste, a maggior risalto di un ‘io' indebitamente rilevato. L'esordio dell'Agamennone è, a questo proposto, un egregio test. Si vedano i seguenti luoghi28. Ag. 1 θεοὺς μὲν αἰτῶ τῶνδ᾽ ἀπαλλαγὴν πόνων,«Dio, fa’ che finisca presto questa pena!». Della resa,non importa tanto la riduzione monoteistica di θεούς,secondo una tendenza osservata fin dai primi recensori della messinscena, e in séguito da molti sottolineata29; importa semmai rilevare la metamorfosi di θεοὺςαἰτῶ in diretta apostrofe (enfatizzata, peraltro, dallaposizione di «Dio» in una sorta di anacrusi, a introduzione di un tornito endecasillabo). È una soluzione chefarà scuola30, e che trova notevoli conferme in tuttoil tessuto dell’Orestiade, dove non di rado si personalizzano in allocuzione le espressioni impersonalidell’originale31. E l’apostrofe – lo ha mostrato J. Cullerin un acuto lavoro sulle apostrofi romantiche – altronon è che una «invocation of invocation»: l’instaurazione di un tu da cui trae evidenza, specularmente, l’iodell’enunciazione32. Si noti inoltre la trasformazione, insenso verbale, di ἀπαλλαγήν («fa’ che finisca»), e, percontro, la riduzione del plurale πόνων a una «pena»che diverrà parola-chiave di tutta la versione33. Ag. 2 s. φρουρᾶς ἐτείας μῆκος, ἣν κοιμώμενος /στέγαις Ἀτρειδῶν ἄγκαθεν, κυνὸς δίκην, κτλ., «daanni e anni sto qui, senza pace, / come un cane, inquesto lettuccio / della casa degli Atridi, ad aspettare». La struttura appositiva φρουρᾶς ἐτείας μῆκος èriformulata in enunciato autonomo («da anni e anni stoqui»), a maggior risalto della voce narrante, e con l’integrazione, affatto arbitraria, «senza pace»34: non c’è personaggio dell’Orestiade la cui affezione dominantenon sia ridotta a inquietudine, intimo cruccio, presentimento tormentoso. Il vezzeggiativo «lettuccio», senzariscontri nell’originale, è ulteriore supplemento semico,in senso affettivo, al tono ben più oggettivo e insiemecrudo del greco35. Omettendo in toto ἄγκαθεν, Pasolini elimina uno dei punti più discussi e problematici del brano36; e, soprattutto, posticipando «come uncane», e accostandolo a «senza pace», il traduttoreforza in senso patetico l’originario κυνὸς δίκην, chenon è elemento di autocommiserazione, ma icasticadescrizione37.Ag. 4-7 ἄστρων κάτοιδα νυκτέρων ὁμήγυριν,/ καὶ τοὺς φέροντας χεῖμα καὶ θέρος βροτοῖς, /λαμπροὺς δυνάστας ἐμπρέποντας αἰθέρι / ἀστέραςκτλ., «conosco ormai tutti i segni delle stelle, / speciedi quelle che ritornano / con l’estate e l’inverno, e incui traspare, / di fuoco, l’altro mondo». L’eliminazionedi ὁμήγυριν sottrae a Eschilo una corposa metafora,e – a cascata – elimina la distinzione fra la ‘folla’ dellestelle e gli astri-guida, i ‘dinasti’, che recano i segnidei mutamenti stagionali. L’astronomia della Sentinella è rivoluzionata; in compenso, i «princes lumineuxdes feux de l’Éther» (Mazon), gli astri che «spiccano»(ἐμπρέποντας) nel cielo, divengono visionarie finestreaperte sul «fuoco» di un imprecisato «altro mondo».La desolata, obbligata, prolungata contemplazionedell’identico, che è il dramma della Sentinella, si fa cosìfarneticante immaginazione dell’aldilà. L’ethos del personaggio eschileo è segnato da una marcata psicologizzazione, non priva di sfumature patologiche.Ag. 8 καὶ νῦν φυλάσσω, «e sono / sempre qui». Lavalenza aspettuale dell’espressione greca non lasciadubbi: si tratta di un perenne sguardo intento a scrutare l’orizzonte. Pasolini ben coglie il dato, ma ampliae, ancora una volta, reca in primissimo piano l’io dellocutore.Ag. 10 s. ὧδε γὰρ κρατεῖ / γυναικὸς ἀνδρόβουλονἐλπίζον κέαρ, «la stessa angoscia che prova una donna / quando cerca l’amore». È questa una tra le piùdiscusse rese di Pasolini, che dell’originale non conserva né la lettera né il senso38. Il greco ἀνδρόβουλον èevidentemente inteso come ‘desideroso del maschio’o simili: la ‘virile volontà’ di Clitemestra cede il passo aun’occhiuta intrusione nella psiche femminile39. L’identificazione fra la Sentinella e Clitemestra elimina totalmente l’incombente presenza della regina: e, di nuovo,privilegia la psicologia rispetto all’oggettiva descrizione dei fatti. L’«angoscia», desunta da ἐλπίζον, sovrimpone all’originale un’altra fra le più tipiche parole-temapasoliniane, «vero Leitmotiv di questa traduzione»40.L’insieme fornisce l’ennesimo esito in equilibrio frasoggettivazione (introspettiva) e oggettivazione (in unvocabolario emotivo tendenzialmente chiuso).Ag. 12 νυκτίπλαγκτον, «che mi tiene, la notte,lontano dai miei». Estenuata espansione dell’originario νυκτίπλαγκτος, un ossimorico «giaciglio che tienesvegli e fa vagare»; per Pasolini, più pateticamente, unletto che condanna alla solitudine la povera Sentinella, tristemente separata dai suoi cari (dei quali Eschilo,purtroppo, nulla ci dice).Ag. 14 φόβος γὰρ ἀνθ᾽ ὕπνου παραστατεῖ, «è lapaura, lei sola – e non il sonno – / che vive». La corposa personificazione del φόβος è in gran parte dell’originale. Ma la resa di Pasolini, con le addizioni «lei sola»e «che vive», intensifica l’oggettivante prosopopea. La«paura» diverrà, di qui in poi, un altro dei Lieblingswörter pasoliniani41.Ag. 18 s. κλαίω τότ᾽ οἴκου τοῦδε συμφορὰνστένων / οὐχ ὡς τὰ πρόσθ᾽ ἄριστα διαπονουμένου,«invece, piango: perché penso al destino / di questacasa, alla sua gioia di un tempo». Più concretamente,la Sentinella rimpiange «le bel ordre d’antan» (Mazon);addizione sintomatica è «penso». Pasolini soggettivizza, e insieme oggettivizza, con una sorprendente«gioia» che introduce un’altra diffusa parola-chiavedell’Orestiade (cf., nel contesto immediato, vv. 21 e28, senza riscontro nell’originale: «segnale di gioia» e«con grida di gioia»).Ag. 25 s. ἰοὺ ἰού. / Ἀγαμέμνονος γυναικὶ σημαίνωτορῶς, «evviva, evviva! / A chiamare, corro, a chiamare Clitennestra». Il caso è comune: molto raramente itraduttori – lo osservava già Fraenkel (op. cit., ad l.) –sanno chiarire l’interna consequenzialità della battuta,ovvero l’esatto rapporto fra il grido ἰοὺ ἰού (v. 25) eil successivo σημαίνω (v. 26): è l’esultante esclamazione della Sentinella a costituire l’avviso lanciato aClitemestra; σημαίνω rappresenta una glossa del locutore alla propria stessa esclamazione (bene Mazon,op. cit.: «iou! iou! je préviens à grands cris la femmed’Agamemnon»). Di qui la puntuale addizione di verbiindicanti movimento, a suggerire un’inesistente e innecessaria azione del personaggio42. Ma Pasolini va oltre:la sua Sentinella, addirittura, «corre», secondo la caratterizzazione spasmodicamente emotiva fin qui perseguita. La reduplicazione «a chiamare […] a chiamare»rincara la dose. Lo specimen, come si vede, è significativo, benché limitato al solo esordio della trilogia. E ilséguito non fa eccezione. Di lì a breve – nella parodo –il Coro narrerà di un Priamo che «ha fatto esperienzadi una coppia / spietata di nemici» (vv. 40-42); ma diquesta intima e vissuta «esperienza», nell’originale,non c’è traccia. Tali nemici hanno raggiunto Troia «conmille navi, il cuore / ossesso, avidi di guerra» (vv. 45-47): anche l’‘ossessione’ è aggiunta pasoliniana (il greco ha solo ἐκ θυμοῦ), ed essa sarà un termine-refraindell’intera trilogia. I discussi avvoltoi μέτοικοι (ambiguaimmagine che designa, al v. 57, Agamennone e Menelao)43 diventano per Pasolini, con estenuato patetismo,«umili / ospiti del cielo». Inutile proseguire: ovunque,tra addizioni, omissioni e manomissioni, il traduttoresentimentalizza e, contemporaneamente, semplificae schematizza. Quel che ne risulta non è un generico Eschilo ‘anti-classico’, giacché la definizione puramente negativa non potrà accontentare nessuno; quelche ne risulta è, più precisamente, un Eschilo forzatoa divenire, da una parte, lyrical drama, o dramma dellapsiche; e, dall’altra, didascalico sistema di parole-chiave – quasi ‘reti ossessive’ à la Mauron – non di radostrutturate secondo ferrei sistemi di polarità (la «gioia»e l’«angoscia», la «purezza» e l’«impurità», etc.). Pulsione ‘oggettivante’ e pulsione ‘soggettivante’, qui, nonsi elidono: esse piuttosto convergono, poiché l’interovocabolario psicologico pasoliniano – così spesso sovrimposto al testo eschileo – dà luogo a ricorrenze terminologiche regolarissime, in cui trovano espressione,e talora personificazione, gli elementari concetti chemeglio rispondono all’interpretazione generale dellatrilogia fornita da Pasolini: è il binarismo psicologico,e politico insieme, già ampiamente riscontrato dallacritica44, non a caso vistoso in luoghi chiave del testo,e specie nei pronunciamenti corali. Per estrarre un coniglio dal cappello – amava ripetere Lacan – occorreprima avercelo messo. Per scoprire un Eschilo schematicamente binario, sospeso fra ‘preistoria’ e ‘storia’,fra ‘matriarcato’ e ‘patriarcato’, fra «sentimenti primordiali» e «ragione»45, occorre prima averlo mascherato,o sfigurato, per via traduttiva. Un Eschilo indubbiamente univoco, e ‘facile’, quello di Pasolini. Una resa,la sua, che rientra appieno nella tipologia interpretativache Cambiano, di recente, ha definito «cosmetica deiclassici»46. Non sarà questo l’ultimo motivo – al di là della celebrata efficacia teatrale – per cui l’Orestea ècosì spesso riproposta, sulle nostre scene, proprio•• nella traduzione pasoliniana47. Traduzione ‘scandalosa’? Può darsi. Certo, uno scandalo che solletica; eche piace. Altri appunti, e minime conclusioniQuel che vale per l'Orestiade vale, almeno tendenzialmente, per tutte le traduzioni pasoliniane. Una delle più impegnative il Miles di Plauto è stata oggetto di una puntuale analisi che esime qui da osservazioni di dettaglio48. Genere comico e resa dialettale suggeriscono, naturalmente, distinguo e cautele: ma è significativo che, proprio sull'innocente e burlesco Vantone, Pasolini abbia dovuto ingaggiare una polemica giornalistica ospitata dalle colonne de «L'Unità» nel novembre del '63 con Aggeo Savioli; una polemica la cui posta in gioco era la legittimità dell'assimilazione dei classici a tematiche e problematiche lato sensu marxiane. Pasolini gioca qui la parte di chi sostiene l'irriducibile alterità dei testi antichi; ma sottolinea, allo stesso tempo, e a propria difesa, tutte le scelte traduttive utili a far emergere l'antimilitarismo e l'antischiavismo di Plauto49. Strano ma significativo tentennamento: è pur sempre l'assimilazione la «traduzione totalitaria», direbbe Torop50 che in Pasolini prevale. Quanto all'Eneide versione limitata a I 1-301 e sostanzialmente coeva all'Orestiade un esame minuto e acuto del testo si deve a una giovane studiosa dell'Ateneo di Bologna, Giulia Bernardelli, che a breve pubblicherà i risultati della sua ricerca51. In attesa di tale contributo che coprirà una lacuna obiettiva degli studi pasoliniani, e più in generale dei classical reception studies in Italia: obiettiva e tardivamente avvertita, rispetto all'edizione Siti del 200352 ci si accontenterà qui di alcune osservazioni marginali. Si vedano almeno i seguenti luoghi, entro i primi sei versi della resa, che bastano alla bisogna: V. 1. arma virumque cano, «canto la lotta di un uomo». Superfluo sottolineare quel che si perde, in termini di allusività intertestuale (arma virumque) o convenzioni incipitarie. Più interessante, per quanto siamo venuti dicendo, rilevare la puntuale soggettivazione traduttiva gli obiettivi e allusivi arma divengono vissuta «lotta», l'«eroe» diviene «un uomo»53 che fa tutt'uno, però, con un processo di marcata oggettivazione: ecco dunque l'antonomastica «lotta», parola prediletta dal Pasolini poeta, ma anche refrain come si è accennato sopra della versione eschilea. Da una parte, dunque, il traduttore «interiorizza la vicenda epica» (Bernardelli, op. cit., p. 34); dall'altra, egli imposta fin dall'incipit il consueto metodo di traduzione per parole-slogan, con programmatica e sistematica riduzione dell'ipotesto a repertorio lessicale (o semantico) chiuso. Circa l'incipitario «canto», è usuale da parte dei commentatori virgiliani - rimarcare il carattere soggettivo di cano rispetto ai «canta» o «narra» degli attacchi omerici; rilievo ovvio e indiscutibile, benché la tradizione epica greca specie l'innografia arcaica conosca ad abundantiam simili esordi in Ich-Stil. Certo è che Pasolini, con il perentorio «canto» in prima sede, produce qualcosa di più che un ripristino dell'ordo verborum atteso nella lingua d'arrivo: egli evidenzia, ancora una volta, la soggettività della voce enunciante; l'invocazione allo «spirito» in luogo della Musa (v. 8 Musa, mihi causas memora, «tu, spirito, esponi le intime cause»: e si noti l'addizione «intime») farà un passo ancor più in là. Vv. 2 s. Italiam fato ... Laviniaque venit / litora, «la storia spinse per primo alle sponde del Lazio». Anche in questo caso sorvolando su semplificazioni e omissioni tese a una deliberata desublimazione del testo - merita riguardo la scelta di «storia»: sbalorditiva resa di fatum non tanto per la vistosa deformazione semantica, quanto per il carattere subitaneamente personificato del lessema; un oneroso ‘attante' certo umanizzato, rispetto all'originale, ma insieme spaventosamente sovrumano è introdotto a determinare fin da subito una didascalica leggibilità del testo. A riprova, si veda la resa del vv. 17s. hoc regnum dea gentibus esse, / si qua fata sinant, «là [Giunone] intendeva che la storia collocasse il regno / di ogni gente», dove è notevole l'elevazione di «storia» a soggetto indiscusso della subordinata, di contro alla sintassi originaria. Apparente metamorfosi ‘laicizzante' del «fato» antico54, la «storia» pasoliniana non cela affatto i propri caratteri di impersonale, ingombrante astrazione. Non meno religiosa, a suo modo, d'ogni epica fatalità. Non stupisce apprendere - dobbiamo il prezioso riscontro a Giulia Bernardelli, op. cit., pp. 35s. che l'originaria stesura manoscritta non esitava marcare anche graficamente la prosopopea: «proprio una “Storia” [...] maiuscolizzata e potentemente personificata si ritrova [...] nel primissimo tentativo di traduzione dell'incipit (“Canto la lotta di un uomo, che spinto dalla Storia, / fuggì da Troia, e venne per primo alle sponde del Lazio”)»55. V 4 vi superum, saevae memorem lunonis ob iram, «la violenza celeste, il rancore di una dea nemica». Si noti, ancora una volta oltre all'impulso generalizzante che tramuta il teonimo luno in un'anonima «dea»56 la consueta, spontanea concomitanza di oggettivazione e soggettivazione: da una parte, il vocabolario psicologico della rabbia, in séguito imperante, che trasforma agenti e moventi mai meno che cosmici in meri empiti di umanizzata passione (cf. vv. 8 s. quo numine laeso / quidve dolens, «per quale offesa, / o per quale dolore»; v. 11 tantaene animis caelestibus irae?, «miseria di passioni nei cuori celesti!»; v. 23 id metuens, «in ansia per questo»; v. 25 causae irarum saevique dolores, «le cause della rabbia, e il suo bruciore»; v. 35 aeternum servans sub pectore volnus, «ossessionata dalla sua interna ferita», etc.); dall'altra parte, la netta stereotipizzazione di tale vocabolario, che riduce il campo semantico delle emozioni a un novero assai ristretto di lessemi: gli ormai ben noti «rabbia», «ansia», «ossessione», etc. Tutto il campionario, insomma, esibito dall' Orestiade. Vv. 5 s. dum conderet urbem / inferretque deos Latio, «prima di fondare la sua città / e di portare nel Lazio la sua religione». Come si vede, se «gli dèi», cioè i Penati, diventano astratta e impersonale «religione» (come, più oltre, ‘religiosità' diverrà la pietas di Enea: v. 10 insignem pietate virum, «quell'uomo / così religioso»), l'interiorizzazione del dato oggettivo è ampiamente garantita dall'addizione di «sua»; «sua», del resto, è anche la «città»: Lavinio, come vuole la tradizione liviana (Liv. I 1), ma con una determinazione antonomastica che non può non far pensare e così pensava già Servio all'Urbs per eccellenza. Il pasoliniano «sua» è qui una personalizzazione particolarmente audace. Il quadro è chiaro, pur nella cursorietà del sondaggio: non c'è passo del testo antico dove non agiscano pulsioni complementari e convergenti le medesime tendenze a incrementare il dato soggettivo, e a incrementare in pari grado l'enfasi oggettiva. Un sistema razionalmente organizzato di παθήματα o, se si preferisce, un'esplosione di soggettività che si coagula immediatamente e retoricamente in un preciso diagramma di astrazioni e prosopopee. Un'ultima verifica, se necessaria: questa volta, sull'ancora inesplorata versione dell'Antigone sofoclea, altra notevole inachevée pasoliniana, resa disponibile anch'essa dagli opera omnia di Siti57. Il periodo è lo stesso: il 1960, probabilmente all'inizio dell'inverno58. Come traduce, Pasolini, quel primo verso che George Steiner ebbe a giudicare «intraducibile»? (E che come tale, beninteso, conosce traduzioni a migliaia). Pasolini rendeva così: «dolce capo fraterno, mia Ismene», a fronte dell'originale ὦ κοινὸν αὐτάδελφον Ἰσμήνης κάρα. Tutto, qui, è patetizzato e personalizzato: non solo grazie alla resa letterale della perifrasi Ἰσμήνης κάρα, che è notorio aulicismo, e che Pasolini riproduce in una iper-affettiva sineddoche; ma anche, e soprattutto, grazie alla trasformazione di tutti i pleonasmi dell'originale (κοινὸν, αὐτ-) altrettante sinistre allusioni al tema dell'incesto59 in marche meramente affettive: «dolce», «mia». Se qui agisce, più che mai, l'impulso alla soggettivazione, è interessante osservare come il traduttore si comporti dinanzi ai vv. 4 s. (οὐδὲν γὰρ οὔτ᾽ ἀλγεινὸν οὔτ᾽ ἄτης ἄτερ / οὔτ᾽ αἰσχρὸν οὔτ᾽ ἄτιμον), straordinario regesto di parole-chiave afferenti ai campi semantici del dolore, della perdizione, della vergogna60. Sono qui le varianti della traduzione registrate da Siti a illuminarci sui metodi della più tipica ‘oggettivazione' pasoliniana: «umiliazione», «vergogna», «disonore», «infamità», parrebbero le scelte definitive del traduttore; ma con «umiliazione» (ἀλγεινόν) concorre «rabbia», e con «infamità» (ἄτιμον) «empietà»61. Si può immaginare un più malleabile sistema di equivalenze? Si aggiunga che né «umiliazione» né «rabbia» quadrano con ἀλγεινόν, come «vergogna» non quadra con ἄτη né «empietà» con ἄτιμον. Esitazioni e oscillazioni di una versione in fieri? Senz'altro. Ma anche una rivelatoria testimonianza della disinvoltura con cui Pasolini sembra scegliere, per progressiva approssimazione, le parole-chiave così platealmente didascaliche delle proprie traduzioni. Si riconosce benissimo, qui, il lessico selettivo che sostanzia, nell 'Orestiade come nell'Eneide, il vocabolario della psicologia pasoliniana. Se ne apprezza, in più, la deliberata indifferenza ai valori veicolati dall'ipotesto. Quel che importa pare è che il testo d'arrivo esprima passioni tanto calorose quanto astratte e stereotipate63. In conclusione. Per quanto i prelievi qui operati siano parziali, e superficiali le analisi che ne derivano si farà meglio altrove: e si spera che lo scrutinio puntuale dei testi prevalga, d'ora in poi, sui generici omaggi ai diritti eterni della ‘poesia' una conclusione almeno sembra inevitabile. Il Pasolini traduttore classico traduttore di testi alquanto diversi per genere ed epoca, da Eschilo a Plauto, da Sofocle a Virgilio pare obbedire a regole alquanto ferree. Regole che impongono, in generale, una drastica assimilazione e semplificazione culturale del testo di partenza, quale che esso sia: perché ogni testo, a quanto risulta dai fatti, è destinato a divenire parte integrante di un sistema, verifica di un presupposto, dimostrazione di una teoria. Ecco dunque - per tornare a Fortini «un Pasolini che ‘può far di tutto' (un dramma in versi, una traduzione dell'Eneide, una collana di sonetti o un romanzo epistolare)», intendendo con ciò che «egli può darci una sola cosa, un solo sentimento fondamentale dell'esistenza, quello dell'ubiquità nella duplicità polare»63. La «duplicità polare», appunto: e ciò guida a una conclusione più di dettaglio. Pulsione ‘oggettivante' e pulsione ‘soggettivante', come si è visto, determinano le scelte traduttive fino ai più minuti dettagli: selezione del lessico, strutturazione sintattica e retorica, evidenza dell'enunciazione e degli enunciatori. Tutto, nel Pasolini traduttore, mira a un ideale equilibrio fra due diverse ma non divergenti esigenze: ricavare, dal testo di partenza, un'intensità emotiva che ne sottolinei l'autenticità o genuinità immediata; ricavarne, al contempo, un sistema di valori astratti e astorici, che ne garantiscano la permanente valenza esemplare. La presunta ‘primitività' dei classici specie greci è un pregiudizio tardo-romantico che facilita, quantomeno per Eschilo, l'audace operazione: alla prova dell'Orestiade, Pasolini si rivela senz'altro ha scritto Sanguineti - l'«eterno poeta all'eterna ricerca del Buon Selvaggio»64. Un Buon Selvaggio che parla per parole irrazionali e allo stesso tempo razionalissime; elementari e, allo stesso tempo, artatamente riflesse.Sotto questa luce, le versioni classiche risultano una straordinaria verifica delle ambiguità sottese all'intero mondo ideologico pasoliniano, notoriamente indeciso fra nostalgia di una primitività edenica e progressismo (o razionalismo) di maniera. «La preistoria [...] è stata la stessa dappertutto», ha affermato Pasolini65: il che ben si capisce, se «preistorico» è per lui tutto ciò che sfugge per anteriorità o per marginalità al movimento storico della borghesia industriale; di qui, ovviamente, l'irrazionalistica idealizzazione dei Greci e della loro ‘mitologia'; di qui la netta resistenza alla storicizzazione della cultura greca o antica in genere, che induce il traduttore ad assimilare - assimilare tra loro, e assimilare a noi tutti i testi via via volgarizzati. Di qui, infine, il tentativo mirabilmente contraddittorio di trovare nei ‘classici' un paradigma di razionalità assoluta e, insieme, di liberatoria irrazionalità. Non a caso Fortini per chiudere come si è iniziato ebbe a diagnosticare, per il sodale-rivale, una spiccata tendenza alla «regressione interminabile (come si parla di ‘analisi interminabile')»66. Del resto, si dà contraddizione più tipica in Pasolini di quella che le versioni classiche documentano nel corpo stesso dei testi? La contraddizione, si intende, fra sistema e passione: fra vocazione universalistica e ineliminabile, esibito soggettivismo. Note 1 Fortini, Introduzione, in Id., Attraverso Pasolini, Torino, 1993, p. X.▴ ¬ top of page |
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