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A colloquio con Franco Castellani,

per una giusta interpretazione di Niente mai

 

 

 

 

 

Questa lettura interpretativa di Niente mai scaturisce da un dialogo epistolare. Come apparirà chiaro la mia indagine non avrebbe altrimenti potuto penetrare entro le ragioni della raccolta senza il generoso intervento con cui l’autore mi ha chiarito i moventi della sua scrittura, permettendomi di discendere nel sottosuolo dell’opera. Di tanta disponibilità sono oltremodo grata al poeta. Di una recensione essa non tiene dunque l’aspetto; per questo si intitola ‘colloquio’ e di due voci – la mia procedente con la guida dell’altra – si sostanzia.

 

 

 

Cinque le sezioni della raccolta poetica, Niente mai, che Franco Castellani ha pubblicato per Marco Saya Edizioni, 2015 – Autismi, Preghiere, L’uomo di Febbraio, Accensioni, Niente mai –, l’ultima delle quali marca l’opera col proprio titolo (chiara riduzione dell’explicit sereniano di Intervista a un suicida), nel segno di una teologia negativa dell’immanenza, da cui può esserci riscatto. Tersa la percezione dell’ostacolo a dire, con cui il poeta si fa scudo e per la quale nel contempo sferza la propria noluntas a proferire il «vero» che «troppo duole», fin da Carenze, lirica proemiale, dove colui che scrive ci palesa gli strumenti in propria dotazione, quelle «parole di neve per annegare il cuore» (v. 9), che rappresentano l’unico modo attraverso il quale sciogliere ciò che sta a monte dell’atto compositivo: «parole magre» combuste al primo incanto.

Della prima sezione della raccolta, Autismi, Franco Castellani mi offre la chiave di lettura per comprendere la dura materia che pare sottrarsi a ogni sforzo di resa narrativa e che ha nel lessico e nella sintassi scarnificata di queste liriche la sua unica possibile forma di esistenza verbale: «Gli Autismi sono nati sotto l’egida della “tristezza” e al contenuto esistenziale ha corrisposto uno stile rotto, secco. Il termine “autismo” non indica la sindrome clinica, ma la condizione che s’instaura durante le perturbazioni psicologiche e che provoca assorbimento e ritiro in sé. Le perturbazioni sono il frutto della propria “organizzazione di personalità”, la quale genera “errori cognitivi” e “false credenze” che vanno – o andrebbero – smantellate. Rimando alla moderna psichiatria per una piena comprensione. Non avevo consapevolezza alcuna quando mi dibattevo tra lo scacco matto degli Autismi e la luce di una via d’uscita. La dialettica tra “autismo” e “pervietà” non è solo il motore della sezione ma lo è, per certi versi, anche dell’intero libro. Gli Autismi, anche in senso stilistico, sono segnati da chiusura e oltranza formale, a cui per liberazione e superamento ho tentato di rispondere con sezioni di ‘facile’ cantabilità esibita».

Consapevole della più «aspra» e refrattaria maniera che impronta la prima parte e che induce forse il lettore a trovare sintonie maggiori nel più ‘dolce stile’ della seconda, il poeta ribadisce la necessità di questo passaggio: «Per quanto poco amichevole e dissonante, Autismi è una sezione imprescindibile del libretto e una vicenda centrale per la mia storia. Una stagione livida. Lo testimonia anche la frequenza del termine “sonno” che indica quasi sempre insonnia»[1].

Giova riportare per intero il consapevole e illuminante esercizio esegetico, condotto secondo un’accorta pratica di auto-commento, che Castellani mi invia a proposito di Questo cuore che non ha primavere (dalla sezione Nolendo), una delle più rappresentative liriche della prima parte, confessione dell’arto cammino all’auto-svelamento:

 

Questo cuore che non ha primavere

ma solo nevi e autismi

solo dosi, se il fiume sale

e cresce il suo respiro,

chiusi sonni per il suo teso arresto

e la rana nelle acque si rifugia

 

«Il soggetto parlante esordisce affermando che i suoi sentimenti non sono solo bloccati ma addirittura non avranno la possibilità di uno sviluppo futuro: “questo cuore che non ha primavere”[2]. I versi seguenti precisano che il cuore di lui è affetto da gelo emotivo e da chiusure al mondo patologiche (“nevi e autismi”) che richiedono come cura l’impiego di psicofarmaci (“dosi”). È la descrizione lirica di una melanconia. Una delle caratteristiche fondamentali per la diagnosi della tristezza cronica è la perdita di volontà, ossia di energia vitale. Il “teso arresto” del cuore (che fin dalle origini letterarie designava – oggi pare paradossale – la sede dell’anima) indica il blocco della vitalità, che in realtà non è scomparsa del tutto ma si manifesta come angoscia notturna. Il significato dell’ansia, però, la quale si esprime con enorme intensità durante l’insonnia, rimane oscuro e impenetrabile allo stesso soggetto: questo il senso di “chiusi sonni”. Il dolore morale dilaga nel soma. Insomma dice il protagonista a se stesso: ho sonni indecifrabili, e di conseguenza inquietanti, procurati dalla profonda tristezza. Viceversa la rana, grazie alla sua natura, sfugge ai pericoli con la semplice fuga e non conosce le sofferenze inflitte dalla propria mente. La salva la sua spontaneità, diversamente dalla complessità umana. La voce narrante invece non può sfuggire alla persecuzione di se stesso».

Solo compreso questo rigor animae che contrae, fino a chiuderla, la vena del canto, grumo tematico e metapoetico di Autismi, si comprende il ruolo dei ricorrenti animali che, liberi dall’incapacità a vivere del proprio stato naturale che connota l’uomo, sono caricati dal poeta di una funzione emblematica diametralmente opposta a quella dell’io. Come l’anguilla di Sali:

 

Dove l’anguilla dona

lo stupore invernale alle colline

non si domanda, non mangia il suo cuore,

sali non assume, gode nel sonno,

non digiuna, non divora ...

 

Se vive maggio di sonni roventi

il topo azzurro è sordo

all’inclusione della notte

e l’alba, l’alba,

non è accolta nel cuore addormentato

 

circa la quale il poeta afferma: «L’anguilla, grazie alla sua condizione naturale, è in armonia con se stessa e non ha conflitti (latenti nella veglia) che deflagrano nei sogni. Vivendo in perfetta sintonia con le proprie emozioni necessarie alla sopravvivenza, e non avendo un cervello esorbitante rispetto ai bisogni, come accade invece nell’uomo, l’anguilla è priva di ruminamenti inutili e dannosi», in ciò del tutto simile anche al «topo azzurro», «sordo ai sonni roventi e alle inclusioni notturne che l’uomo s’infligge con il pensiero. Non lo perturba l’alba, che risulta così destabilizzante nel triste (è il momento più difficile del giorno per le aspettative che contiene)», persino la sua colorazione ne riferisce «la santità della sua condizione: è privo della introflessione umana… Da qui il raccordo con i vv. 5-6 di Questo cuore. Il topo è soggetto sicuramente positivo in quanto animale, ma è anche simbolo di condizione degradata[3]. Tutti gli animali di Autismi sono ‘minori’, e indifesi: l’“anguilla” di Sali, v. 5; la “tortora” di Gioghi, v. 21; la “rana” di Questo cuore, v. 6; i “passeri” di Dove unisco, v. 16».

Torno alla dicotomia del libro, relativamente alla quale così sempre riferisce il poeta: «Scacco matto esistenziale ed estetico. Il modello non era (sol-)tanto Petrarca, quanto i petrarchisti che nell’oltranza formale cercavano di superare in una melodia nuova e invece, quella direzione, portava inesorabilmente verso la sterilità e il silenzio (vedi ad esempio la sottosezione Nolendo); anche maestri contemporanei pesavano: il “conseguito silenzio” di Celan stava lì a dimostrarlo; anche il “classicismo” di Trakl indicava una via della poesia non percorribile oltre il suo esempio di musica struggente. È stato necessario fare un passo indietro, trovare una via di uscita possibile che permettesse la ‘guarigione’ e la vita; è stato necessario un cambiamento interiore che smantellasse “errori cognitivi e false credenze”. Stilisticamente invece si è trattato di recuperare una cantabilità che la tradizione recente metteva a disposizione: Ungaretti e Montale permettevano questa riconciliazione. Mi sono avvalso della loro musica (ma non solo della loro) per cura e l’ho esibita senza false reticenze (nelle penultime sezioni, prima non esisteva), così come non si omette il nome del medico che ti ha curato. Questa è la ragione. La reazione dei lettori era prevedibile ma non ho voluto e potuto calcolare nulla che contravvenisse la verità che ho esposto ora. Questo il senso dell’operazione».

Entro il più cantabile secondo segmento canzonieristico, parrebbe dunque facile gioco rintracciare in superficie quelle reminiscenze letterarie, montaliane e ungarettiane in primis, di cui si nutre tale parte conclusiva della raccolta, da L’uomo di Febbraio in poi, ma l’agile reperimento di tessere più o meno esibite non deve indurci in errore.

La raccolta procede, nella sua parte più descrittiva e cantabile, su un ordito di eventi concreti, e tuttavia decronicizzati, che scandiscono la storia dell’io. Una distanza siderale, tutta interiore e non fisica, della donna che è al centro delle ultime sezioni del libro – come mi precisa il poeta – è l’armonica di questo sotto-canzoniere interno, un tema che trova ‘espressione’ in tante immagini richiamanti, a un esame epidermico, le epifanie del visiting angel delle Occasioni, ma niente affatto rispondenti alle ‘ragioni’ delle epifanie di Clizia, giacché le cicliche apparizioni di Biancaneve (nome ominoso della donna), salutate comunque coi fisici tremori riservati al passaggio di Beatrice, da cui non più umani sono colti, bensì ipersensibili creature – «e mentre il tuono dilaga / i cani randagi hanno freddo e tremano / sulle zampe ma non hanno freddo, / tremano al tuo ritorno» (Alluvione, vv. 19-22) – non intendono, pur nella loro esplicita forza evocativa, ripercorrere a diversa altezza sonora, come in un canto polifonico, la linea melodica della fabula montaliana. Con questa, narrante un reale allontanamento della domina colmato dalle improvvise e veramente ‘salvifiche’ manifestazioni, la storia di Niente mai si commisura in un rapporto di disparità tematica.

Le epifanie dunque di Biancaneve andranno – seppur di necessità lette con alla mente le numerose tracce montaliane – intese nel loro diverso carattere: la consonanza assolve infatti il compito di rilevare una diversità ontologica. Questo per esempio l’intento che agisce dietro l’apparizione descritta in Cuore disertato, sicuramente somigliante nella sinopia a certi ‘ritorni’ ritmanti le Occasioni, ma epifania che, se volutamente riecheggia simili passaggi dedicati alle vere transustanziazioni di Clizia nel signum non veduto dai profani (Ti libero la fronte dai ghiaccioli, vv. 7-8: «[…] e l’altre ombre che scantonano / nel vicolo non sanno che sei qui» - Notizie dall’Amiata, vv. 14-15: «[…] sono il quadro / dove tra poco romperai»), non può aspirare nemmeno alla consustanziazione della presenza femminile ricercata, la quale rimane una ‘ipostasi interiore’, pertanto non visibile, in nessun modo mai, agli ‘assorti pescatori’ sulle sponde di un «Bosforo di vetro»: «Brucia lontano il lampo / di treno che non hai fermato […] I pescatori fermi alla linea del cielo / aggrovigliano le reti sempre più / (ma non sanno che presto romperai / nel porto come l’uragano)» (vv. 4-13).

A riprova del diverso procedere di Niente mai rispetto a Montale, vox principalis esibita a fior d’acqua, ma disertata nei suoi intenti narrativi, Castellani mi fa osservare come la diversità diametrale delle due storie – la vicenda delle Occasioni e la vicenda del sotto-canzoniere, circoscrivibile alle tre ultime parti del libro – trovi conferma in quel titolo della sezione di cui Biancaneve è «regina»: L’uomo di Febbraio. «Il titolo è ripreso dall’omonimo libro di Milton Erickson, L’Uomo di Febbraio. In questo libro viene descritto un caso clinico: con un ciclo di ipnosi e attraverso la tecnica della regressione, Erickson (un genio dell’ipnosi a fini terapeutici) crea nell’animo della sua paziente l’uomo di Febbraio per poterla curare e guarire. Da qui nasce la sua ‘mitologia’. Ma prima di questa sezione lei non esisteva. E continuerà ad apparire soltanto in modo occasionale in Accensioni». L’autore mi offre al seguito anche la spiegazione di questa scelta onomastica per la donna, o meglio per l’interiore sua ricerca: «Con un nome così musicale e popolare[4] ho avuto la presunzione di suscitare in ciascuno la propria Biancaneve, oltre a quella di rappresentare una condizione umana nella quale fosse possibile, per aspetti misteriosi e imprevisti, riconoscersi. Aggiungo che Biancaneve è, anche, la voce di quelle persone che hanno avuto un “attaccamento disorganizzato” durante la prima infanzia, a causa del quale, almeno così spiegano le moderne teorie, hanno subìto sofferenze interiori».

E così ancora, a proposito della figura femminile, il poeta: «L’uomo di Febbraio è la sezione che celebra Biancaneve ma a partire dall’ultimo testo, da Cartago, si scopre che lei, forse, non esiste nella realtà ma solo nella fantasia allarmata di lui. Si assiste allora alla sua metamorfosi e da Biancaneve che era diventerà la ‘donna-bufera’. La chiameremo banalmente così per sintesi. La donna si libera dall’accudimento soffocante. Senza intenzione ma esistendo semplicemente, minaccerà il controllo dell’uomo di Febbraio e gli produrrà un terremoto interiore. Così la donna-bufera cominciando a emergere dal testo di Cartago si manifesterà metamorficamente, appunto, in modi e sembianze diverse, nella sezione Accensioni, nella quale più che femminili pare avere connotazioni psicologiche, appare per la prima volta ai vv. 8-10: “Hai soffiato la città di vetro / con la bora e la primavera / è diventata nera”. Qui, ai vv. 17-18 («e m’addormento senza te che sei / la mia buonanotte, e la mia bufera»), è annunciata nella sua doppia natura (di Biancaneve e di Bufera). Poi riapparirà nei seguenti testi: Cuore disertato, vv. 12-13: “ma non sanno che presto romperai/ nel porto come l’uragano”; Detriti, vv. 10-13: “e come la bufera affondi // trasformando la città in detrito / e tutto ciò che incontri senza meta / sfondi, portando acqua oltre i ponti”; Alluvione, v. 13: “bufera” (è l’annuncio di lei), vv. 20-23: “mentre il tuono dilaga / i cani randagi hanno freddo e tremano / sulle zampe ma non hanno freddo, / tremano al tuo ritorno”; anche la chiusa del componimento in qualche modo richiama ancora lei: “e sulla costa batte il temporale”; Il cervo d’oro, vv. 13-17: “Torna sul lago / di legno con il vento alle spalle / e come la bufera / che devasta ancora / porti”; Sogni chiari, vv.  8-9: “e come la bufera che devasta / con le sue piogge il mare torni”».

Il rapporto con Montale è talvolta giocato su una chiave auto-ironica, in grazia di quella topografia che inevitabilmente richiama certi luoghi delle Occasioni – si legga Verso Siena (dove peraltro in attacco si fa il nome di un idronomo esplicitamente montaliano: «Sei la primavera lungo la Greve»), ‘replica’ al poeta di Verso Vienna e Verso Capua – ma che è il vero orizzonte della vicenda biografica (e aggiungerei poetica) dell’autore, il quale afferma al proposito: «devi considerare che abitando a cento metri di distanza, la Greve è sempre stato il mio fiume familiare, fin dall’infanzia. Anche Verso Siena è impiegato in modo ironico rispetto a me stesso (considerando la differenza di ‘statura’ dei poeti in gioco…), eppure il titolo annota l’origine della poesia, nata durante un tragitto verso la città. Partendo dal mio quartiere infatti si costeggia il fiume e il primo verso lo registra: “Sei la primavera lungo la Greve”. Per fortuna che la cronologia lo smentisce, altrimenti sarei stato io il bimbo che “curva la canna / Sul gomito della Greve” visto che da piccolo mi recavo spesso per gioco nei pressi di ‘Bibe al Ponte all’Asse’. E poi la residenza di De Robertis… Insomma, un luogo per me familiarissimo e allo stesso tempo pieno di implicazioni e reminiscenze letterarie … La Greve è questo sinolo inestricabile…».

Certo, in questa seconda parte, gli echi anche semplicemente sintagmatici (forse a tal punto assorbiti dalla ‘spugna’ della memoria da affiorare quasi senza intenzionalità) sono molteplici; penso al «trogolo strozzato» di Magre (v. 4), deminutio del «rivo strozzato» di Spesso il male di vivere ho incontrato (v. 2), o a quei rumori gravidi di minaccia su cui si chiude Alluvione, vv. 34-35: «Gira senza pietà la giostra / e sulla costa batte il temporale», echi della sferza marina e della stridula banderuola della Casa dei doganieri, o penso ancora alla pandionide de Il cervo d’oro, vv. 1-4: «Riporta il filo d’erba / la rondine del fosso / prima di sparire per sempre / nel fango dei canneti» e poi di Sogni chiari, vv. 10-11: «ma la rondine non incrocia più le tue canne d’oro // Così recano fili di catrame / le tue mani sopra i treni d’Africa», al suo radente volo per un habitat palustre forse comparabile tanto al quadretto di Lindau – certo ‘demitologizzato’, che è tuttavia memoria agente ad orecchio (vv. 1-2: «La rondine vi porta / fili d’erba, non vuole che la vita passi») –, quanto alla favola antica ancora apertamente riferita dal poeta alcyonio di Intra du’ Arni, vv. 4 e sgg.: «della rondine trace / che per le molli crete […] va e torna […] né si posa né si tace / se non si copra / d’ombra la riviera / a sera / circa l’isola leggiera / di canne e di crete».

È questa, senz’altro, una poesia dove il paesaggio risulta (come ha ben visto Natascia Tonelli, che firma la Prefazione, pp. 5-7), non un fondale su cui semplicemente proiettare le azioni dell’io e dell’altra, ma terzo, indiscusso protagonista dell’opera; una «natura padrona dello spazio e del tempo» (così sempre Natascia Tonelli, Prefazione, p. 5), rappresentata da dispogliate e non ben determinabili campagne, sovrastate dall’acqua, un’acqua interpretata in tutte le sue essenze: linfe scorrenti, ma soprattutto incluse (come le acque dei laghi), e linfe raggelate (brine, nevi, ghiacci, nubi)[5]. A questa stagione, a questi luoghi iemali, si contrappone, d’altra parte, un paesaggio africano e d’Oriente altrettanto scarnificato, quella terra immaginaria ricreata con toponimi come Gaza (Al di là del vetro, v. 1), Betlemme (Le stelle non passano più sopra, v. 2), Bosforo (Cuore disertato, v. 16), la Cartago dell’omonimo componimento, il Nilo di Sogni chiari (v. 4). E tuttavia questi precisi toponimi non vogliono ricostituire una geografia o una cronaca minuta, bensì essere solo dei «punti di mondo» per rispecchiare la grande ‘lontananza interiore’ della donna, non meno distanti delle costellazioni delle eponime Plutone e Orione.

Sta di fatto che questa Africa e queste regioni orientali finiscono per agire come una fortissima calamita di memorie ungarettiane, soprattutto dall’Allegria (non mancano tuttavia echi da Sentimento del Tempo). L’impressione è che con questo modello (come del resto anche con gli altri autori alla base della formazione letteraria del poeta) il rapporto non sia di semplice anamnesi volontaria o, al contrario, incosciente: si tratta infatti di statuire un rapporto necessario e istintivo coi propri ‘medici’, coi poeti del canone più cantabile. Ebbene, questi modelli non sono né parodiati, né semplicemente citati da Castellani, ma agiti. D’altra parte passare in rassegna le più evidenti ricordanze permette di rendersi conto di quanto il fare poesia del paesaggio ‘obblighi’ a una lingua ungarettiana, non solo ravvisabile nei suoi costituenti lessicali o in certe figure evocative, ma anche nel peculiare uso di deittici spazio-temporali. Il ricorrere a questo prosciugato linguaggio soprattutto del primo Ungaretti non in opposizione al controcanto montaliano, ma spesso per narrare le tappe di rilievo della propria alternativa fabula, dà luogo talvolta a un effetto contrappuntistico, talaltra a un coagulo indissolubile.

Sali, lirica il cui animale vivente, a differenza del poeta, in armonia con se stesso, non può non ricordare per la sua potenza memoriale l’Anguilla montaliana, si apre su una ripetizione di deittici spaziali – «Dove laghi e tuoni virano / al gelo vivo ricorrente / apro la luce […] Dove l’anguilla dona […]» (vv. 1-5) – che fatalmente riportano all’orecchio l’anafora ed il costrutto altrettanto essenziale (verbo + soggetto, qui invertito), nonché coincidente con l’unità metrica, della terza strofa di Dove la luce, vv. 9-11: «Dove non muove foglia più la luce, / Sogni e crucci passati ad altre rive, / Dov’è posata sera». Timbro particolarmente ungarettiano il cadenzato ricorso all’avverbio temporale in Pavor I, vv. 9, 13, 17: «Ora il tubo s’abbandona alla coda […] Ora il sonno è un timore / ghiacciato  […] Ora vive la promessa, il vigore» e II, v. 1: «Ora divago debile […]»[6], motivo ritmico-sintattico che si dilata anche nella lirica successiva, Gioghi, dove il poeta entra davvero in consonanza con l’Ungaretti di certi ‘riconoscimenti’ nella materia più fisica, vv. 8-11: «Ora il turbine è aperto / Ora spezzo laghi e le nubi stivo / rasento rovi di geli m’innesto / filtro la luce e nelle gore vivo» (riverberi di quel parlato per deissi che è enunciazione del proprio rapporto col mondo in Lindoro di deserto e soprattutto nella Notte bella), per finire su un richiamo esplicito al ‘programma’ esistenziale di Agonia: «(Vedo tortori minori / incendiarsi di luce / diventare aurora / e poi morire)»[7] (vv. 21-23). A volte una piccola stringa metrica si fa unico grumo di più di una memoria ungarettiana; è il caso di Orione, vv. 18-19: «Adesso bramo l’universo e ascolto / in silenzio la sua voce», che si impernia tanto sull’explicit della Notte bella, vv. 12-13: «Ora sono ubriaco / d’universo», quanto sull’epilogo di Dannazione, v. 3: «Perché bramo Dio?», dove si conferisce al senso uditivo, in sintonia col poeta ‘beduino’ di Nasce forse (v. 3: «Ascolto il canto delle sirene»), il primato di strumento lirico. E se diretta emanazione di certe sentenze petrose dell’Allegria ancora ci suonano versi quali «ora che è notte e la pioggia dilaga» di Al di là del vetro, v. 24 (I fiumi, vv. 66-69: «ora ch’è notte / che la mia vita mi pare / una corolla / di tenebre»), o «Neppure l’ombra resiste poi molto» da Il cranio lacerato che la ruspa, v. 15 (Ricordo d’Africa, v. 3: «Neanche le tombe resistono molto»), o il concentrato groppo di rimembranze di Cuore disertato, v. 10: «[…] alla linea del cielo» (Levante, vv. 1-3: «La linea vaporosa muore / al lontano cerchio del cielo»), si ricordi, come già rilevato, che molti di questi innalzati palvesi ungarettiani abitano gli spazi di una storia scritta sull’apparente linea narrativa delle Occasioni, che altro percorso risulta essere (in Al di là del vetro, nella strofa precedente l’innesto ungarettiano, il poeta si vede in quella sollecita posa dell’io di Dove la luce, visione che rarefatta slitta in ben altri ambiti e in ben altri memorabili gesti montaliani, che richiamano le immagini di Notizie dall’Amiata e di Ti libero la fronte dai ghiaccioli: «Ti porto in braccio ancora / una volta verso il cielo privato / di questo seggiolino / e da questo treno lanciato / nello spazio ho rubato il mare / per aprire il cuore e rompere il ghiaccio», vv. 13-18; esattamente come in Cuore disertato sulla «linea del cielo» si stagliano dei montaliani pescatori ignari – come già detto a piena ragione – dell’incombente, ma esclusivamente interiore erompere dell’angelo di neve).

Tale corrispondenza col maggior fabbro linguistico arriva fino alla dichiarata identità di un io, che scopre d’essere ancora all’abbrivio della propria militanza poetica e biografica sulle tracce del superstite lupo di mare: «Ascolto il corano / e mi lascio morire / sul Bosforo di vetro come il lupo / di mare prima del viaggio» (Cuore disertato, vv. 14-17), un io che, contemplando l’estrema meta del proprio percorso terreno, si scopre ancora debitore di alcune formidabili e ben riconoscibili immagini della Madre («E il cuore quando d’un ultimo battito / avrà fatto cadere il muro d’ombra / per condurmi, Madre, sino al Signore, / come una volta mi darai la mano […] Alzerai tremante le vecchie braccia»), proponendosi, per antitesi, lui di ravvivare con l’ultimo suo calore di vivente, la raggelata creatura di marmo, in un crescendo di future felicità promesse, o in un venturo acquietante ‘scivolamento’ nel nulla (ancora dunque secondo le grandi linee tematiche di Annientamento e di Inno alla Morte): «Laggiù dove trema Orione e la notte / è fredda, apri il cuore Biancaneve, / è Agosto: mi darai la mano tremando / e il dolore in un momento / passerà per sempre / Ti scalderò le vene con le labbra / e il freddo delle mani / passerà nel mio cuore: / se non avrò timore / a bruciare tutto il bosco / il dolore passerà» (L’uomo di Febbraio, vv. 11-21).

Seppure netta, la dicotomia dell’opera non impedisce un rapporto di vero equilibrio tra i due ‘strumenti’ espressivi del poeta: tra il lessico limpido – come la sostanza immateriale che domina il paesaggio invernale, l’acqua predicata in tutte le sue forme  –, «parola di cobalto» che è codice petrarchesco, appunto, o dell’Ungaretti soprattutto di Sentimento del Tempo, e certa lingua tecnica, fatta di termini medici, o comunque scientifici («autismi», «scotoma», «pervietà», «espianto», «coma», «dosi», «distonie», «bromo», «fosforo», «uranio», «sali», «fìssile», «lunazioni») della prima parte; la diversità non crea dissonanza; ma semmai una concordia discors, secondo la grande lezione di Zanzotto, giacché anche i tecnicismi del lessico clinico non servono per riferire il diario di una patologia fisica, bensì divengono le voci consce di un auto-esame metaletterario.

Sul piano lessicale, ma forse sarebbe meglio dire fonetico-pregrammaticale, interessanti risultano alcuni esperimenti (che non scadono affatto in sapute sciarade alla Sanguineti, ma che riferiscono un discorso intimo e compiutamente narrato), come quello di Pavor II (condotto nella ricerca morfologica sul prefisso de- e nel ritmo adrianeo dell’Animula vagula blandula). Sempre il poeta scrive a proposito dell’impiego di tale prefisso in Pavor (II, vv. 4-8: «degrado // dove incerto il fiato si domanda / e il topo assiderato vuole bisso, / de-debole annuire // La notte, il topo, io presto mimerò»): «oltre a indicare dubbio, “de-debole” richiama e riassume in sé tutti i balbettamenti interni alle parole che hanno il prefisso de- (di-, do-; e anche qualche suffisso in -do), e che ricorrono ossessivamente lungo la strofa e oltre: “ora divago debile, defalco, / la scossa inaudita demando, defiggo / […] / ma non vado, / degrado // dove incerto il fiato si domanda”. Anche l’anafora “Ora” delle tre strofe precedenti, ripetuta anche nella presente, entra nel gioco del balbettamento generale. Vd. pure “ba-battito ciliare”, di Magre, v. 16».

Questa scelta di non appariscenza contrastiva deve forse molto anche all’ordito metrico e prosodico. Seppure sintassi e lessico della prima parte rispondano a una refrattaria scabrezza, i due metri dominanti risultano, come nella seconda parte, l’endecasillabo e il settenario[8], così che sul ritmo della tradizione avanzano entrambe le due parti del canzoniere[9]. La lenta sentenziosità dell’endecasillabo a maiore, e soprattutto quello procedente su accenti di 2a, 6a, 10a, è infatti il codice della poesia più narrativa e meditativa insieme (a cominciare dagli incipit delle tre cantiche della Commedia, ma anche di un Foscolo sepolcrale), recuperato, spesso sotto le insegne di certa sentenziosità montaliana e ungarettiana. Su un endecasillabo a maiore la raccolta si apre: «Parole fino al vero, e troppo duole» (Carenze, v. 1) e, se su un endecasillabo a minore (ottenuto con un minimo inserto, l’avverbio di una valutazione auto-ironica, entro la rivisitata memoria del doppio senario ungarettiano[10]) si chiude: «Neppure l’ombra resiste poi molto» (Il cranio lacerato che la ruspa, v. 15), l’epigrafe foscoliana che campeggia su quest’ultima stazione («All’ombra de’ cipressi»), porta ancora il poeta ad attaccare il canto di congedo all’opera secondo il modello prosodico del carme sepolcrale, analogamente aperto, da un endecasillabo a maiore (Il cranio lacerato che la ruspa).

Francesca Latini

 

 

 



[1] Il poeta ci offre una puntuale analisi delle occorrenze e valenze della voce: «Il termine ricorre 16 volte nella sola sezione Autismi e poi, nel resto della raccolta, praticamente scompare. La sua frequenza indica una condizione precisa della voce narrante, e quasi sempre significa ‘insonnia’ che accompagna la malinconia. Notoriamente, “l’insonnia si cura di giorno”. Nella sezione Autismi ritorna nelle seguenti poesie: Dosi e vene consumo, v. 6: “Invaso il sonno acerbo e stanco”; Fissile, v. 35: “Entro il sonno s’attutisce”; Sali, v. 8: “sali non assume, gode nel sonno” (qui il sonno è felice perché è riferito all’anguilla e si contrappone a quello umano), v. 10: “Se vive maggio di sonni roventi”; Pavor (lo stesso titolo richiama l’incubo (pavor nocturnus) I, v. 11: “di neve in sonni corti”; v. 13: “Ora il sonno è un timore”, v. 18: “il sonno difficile e biforcando”; L’ultimo gesto, v. 2: “la bava, il sonno – vedo le colline”; Questo cuore, v. 5: “chiusi sonni per il suo teso arresto”, v. 10: “e non ha pace il sonno incerto”; Dove unisco, v. 3: “si fessura il sonno: vedo sfumare”; Magre, vv. 13-14: “e il sonno / è rivoltato”, v. 19: “per un sonno di meno”, v. 27: “ancora bava il sonno?”. Nelle sezioni Preghiere e L’uomo di Febbraio il sonno ricorre ma con altro valore: Plutone, v. 2: “il sonno riservato”, e v. 16: “Ancora bava il sonno?” (autocitazione dell’ultimo verso di Magre); Dal treno, vv. 18-19: “e il mio sonno nel treno / penetra il monte”; Il ritorno, v. 30: “il sonno di vetro”».

[2] Un’indicazione di mancato futuro che, incrociandosi con l’eco antitetica di quella sorta di esame di coscienza del poeta che è il carducciano Intermezzo IX, 33: «Questo cuore che amor mai non richiese», mi rammenta la conforme espressione impiegata da Pascoli per riferire analoga fallanza d’avvenire nel Vischio, III, 10-11: «Stava senza timore e senza festa, / e senza inverni e senza primavere», o ancora il perentorio ordine di Montale su cui si chiude Carnevale di Gerti, v. 67: «torna alle primavere che non fioriscono» (vd. anche la nota 4).

[3] Spetta al topo il numero di presenze maggiori, si vedano Pavor II, v. 7: «e il topo assiderato vuole bisso», II, v. 8: «La notte, il topo, io presto mimerò»; Dove unisco l’ago al dolore, v. 14: «e il topo, nel suo intimarsi corrente»; Magre, v. 7: «se la nuvola e il topo, gelo, m’accompagna».

 

[4] Dal mondo della favolistica proviene anche quel «fante addormentato» di Solleva l’ombra delle case, v. 12, come del resto esplicito ricordo di un anti-mondo collodiano-carolliano è quel «paese dei balocchi» poco dopo ricordato: «Il fante addormentato sulla strada / ingombra nella tasca / lettere di fuoco […] e se vivi lontana torna / ancora nel paese dei balocchi / o sei mutata per sempre» (vv. 12-18), paese che, se sotto questa esplicita designazione rimanda ai due fanciullini fuori-schema, Pinocchio e Alice, mi fa pensare anche al favoloso «paese» degli «onagri», ricreato per incanti dalla donna, maga-bambina, di Carnevale di Gerti.

[5] Sempre il poeta mi fa osservare come il nome stesso di Biancaneve sia «servito inoltre per alludere in modo semplice alla simbologia del freddo. Questa simbologia costituisce una delle isotopie del libretto, dandogli una vaga dimensione di “canzoniere”. Do qui l’elenco, a titolo di esempio. Con Autismi s’inaugura il ciclo delle cosiddette “rime del freddo”; la locuzione è coniata dal v. 31 de Il cervo d’oro (appartenente alla penultima sezione) con l’intento di indicare, in modo retrospettivo, la condizione di blocco emotivo che paralizza la voce narrante e altri protagonisti del libro durante il suo dispiegarsi. Si dà ora la statistica di Autismi, v. 9: “hai parole di neve”; Sali, vv. 2-3: “al gelo vivo ricorrente […] riferisco ai ghiacci”, v. 15: “ora la vena calda e la trovi morta”; Pavor I, v. 3: “vedo luci brinare”, vv. 13-14: “ora il sonno è un timore / ghiacciato”, v. 19: “spezzo […] la neve”, II, v. 6: “il topo assiderato”; Gioghi, vv. 2-3: “al gelo vivo ricorrente […] riferisco ai ghiacci”, v. 10: “di geli m’innesto”, v. 12: “solo nudi passi a un resto di neve”, (e v. 14: “ti sei calato in tutte le sorgenti”); Questo cuore che non ha primavere, v. 2: “ma solo nevi e autismi”, v. 16: “e il gelo nelle vene si consuma”; Dove unisco l’ago al dolore, v. 2: “assumo neve”, v. 5: “e nel gesto freddo, v. 15: “Dove la vena gelida”; Magre, v. 7: “se la nuvola e il topo, gelo, m’accompagna”, v. 16: “gelide risa il suo respiro”. Le “rime del freddo” rimarcano la condizione di animo bloccato anche di Biancaneve. Il nome ricorre quattro volte, nelle seguenti poesie: Orione, v. 2; L’uomo di Febbraio, v. 12; Verso Siena, v. 2; Al di là del vetro, v. 2. Prima di dare la statistica, si segnala che già i titoli Febbraio e Orione rimandano al gelo, essendo mese e costellazione invernali. Orione, vv. 1-2: “Laggiù dove trema Orione e la notte / è fredda premi il fiore Biancaneve”, v. 11: “alle colline e tremi dammi il freddo”, v. 15: “il tuo cuore, animo di neve”, v. 26: “Angelo bianco che la neve spargi”; L’uomo di Febbraio, v. 8: “poi scalderà il suo cuore”, vv. 11-12: “Laggiù dove trema Orione e la notte / è fredda, apri il cuore Biancaneve”, vv. 16-17: “Ti scalderò le vene con le labbra / e il freddo delle mani”; Verso Siena, v. 8: “il tuo cuore di neve”; Dal treno, v. 1: “Il gelo per le strade”; Al di là del vetro, v. 4: “ha l’ultimo gelo”, v. 18: “per aprire il cuore e rompere il ghiaccio”; (Il ritorno, v. 19: “trema sulle prode vuote”); Cartago, v. 5: “(l’inverno è arrivato)”, v. 9: “con la bora”; Le stelle non passano più sopra, v. 4: “e in questo briciolo di neve”».

[6] Eco interiore di un Ungaretti che forse, proprio per quel ruolo primario assunto dal paesaggio invernale, deriva da altra reminiscenza pascoliana, da quel cronotopo, chiave di volta su cui si aprono le terzine dei Gattici (retractatio delle ben più rassicuranti quartine offerte a una dulcedo mesta, autunnale), una più forte ancora carica evocativa: «Ora, le nevi inerti sopra i monti» (v. 9). A questi minimi elementi sintattici, cronotopi e deittici, è d’altra parte da ascrivere una congiunzione come il ‘se’ ipotetico, cifra che è invece tutta montaliana, su cui si aprono Gioghi, v. 1: «Se viro laghi e tuoni» e Alluvione, v. 1: «Se l’arca di Noè» (vi si aggiungano anche le strofe interne di Sali, v. 10: «Se vive maggio di sonni roventi»; Questo cuore che non ha primavere, 14: «Se il cuore batte senza adire» e Magre, v. 8: «Se la luce fioca»).

[7] Coinvolgente la corrispondenza che il poeta stabilisce tra uccelli di varia natura e loro simbologia richiamata dal referente poetico, a dire nel contempo le due opposte visioni del mondo: eterno ritorno, o, al contrario, infinita vanità del tutto, con la «rondine del fosso» che radendo la terra ci rassicura di questo ciclico ridivenire (Il cervo d’oro), e i «cormorani» dalle icarie «ali di cera», «per non tornare indietro» di Cartago (vv. 11-12), che altro ci dicono; oppure quella dissimmetria qualitativa e quantitativa tra la singola tortora di mare de Il ritorno, vv. 17-23: «La tortora di mare / che vedi passare al di là del Reno / trema sulle prode vuote / e non vuol tornare indietro, / così lontano è il suo paese / dal tuo cuore: ha il collare / di vetro per il tuo amore distratto» (e qui la corrispondenza antinomica è esterna, con le allodole e le quaglie di Agonia), e la pluralità delle tortore minori di Gioghi (in quella stanza di chiusura caratterizzata dal modulo biblico-petrarchesco dell’‘ubi est’, che attacca nella strofa precedente, registro impiegato anche ne L’ultimo gesto, sento il mio respiro, vv. 11-12): «Dove le funi e le terre fiorite? / (Vedo tortore minori / incendiarsi di luce / diventare aurora / e poi morire)», che nel rossore del loro piumaggio divengono l’aurora medesima, accettando di morire (come le allodole e le quaglie ungarettiane).

[8] Non esigue le presenze del novenario.

[9] Non importa se il numero degli endecasillabi superi effettivamente o no quello dei versi minori; seppure nella prima parte i versi brevi costituiscano spesso la cella ritimica di un balbo parlare, che ingloba anche forti pause di silenzio, rese con spazi bianchi, come in Fìssile, o simulino la scrittura epigrafica di una lapide come in Dosi e vene consumo, la rilevanza dell’endecasillabo sta tutta nel suo ruolo di verso a cui si affidano o gli incipit, o gli attacchi di strofa interna o le riprese di narrazioni (i versi si aprono allora sulla congiunzione «E», che riferisce una continuità di parlato), o gli explicit, o le più rilevanti sentenze all’interno di una lirica.

[10] La lirica si chiude su un endecasillabo con accenti di 4a, 6a e 10a, ma soprattutto su un ritmo finale sdrucciolo che, assieme alla allocuzione iniziale, «lo sai», è cifra ancora palesemente montaliana: «lo sai, e questa è vera solitudine».


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