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VITO M. BONITO, Soffiati via, Rovigo, Il Ponte del Sale, 2015, pp. 120, € 15,00


Iniziata con A distanza di neve (1997) e Campo degli orfani (2000), continuata con La vita inferiore (2004), Sidereus nuncius (2009) e Fioritura del sangue (2010), la ricerca poetica di Vito M. Bonito si ripresentaoggi con Soffiati via (Il Pontedel Sale, 2015), vincitore ora del premio Pagliarani. Con la nuova raccolta Bonito conferma la forte coerenza di ‘situazioni’ concettuali e di linguaggio che trama il suo lavoro. Motivi, temi e soluzioni ritmiche comuni, ricorrenti nelle diverse raccolte e caratterizzate da un’attitudine formale assai omogenea, tornano ancora nel nuovo libro. È il caso, per esempio, del motivo delle mani/manine che appaiono nella luce; così come del motivo della confusione dei corpi nell’inorganico (ma un inorganico che ‘significa’), o di quello, sempre soggiacente (anche solo in modo allusivo), del sacrificio. Altrettanto vale per la soluzione metrica del verso breve, ripreso in sequenze verticali, e soprattutto della presenza del bianco, che non solo ha valore metrico di pausa ma anche, si direbbe, consistenza semantica. Nel complesso, per fornire una formula, la poesia di Bonito si conferma come lavoro sul lutto e come esperienza della perdita d’individualità soggettiva: del resto, in una sezione conclusiva di Fioritura del sangue si legge che «la lingua poetica è un esercizio contro la poesia». Altro che contribuire al monumento dell’autore, innalzandone il Nome a costituente della Tradizione, il rapporto con la lingua poetica significa abbandonare la poesia, ossia innanzitutto la poesia lirica, e abbandonarsi alla estraneità. Altro che Casa dell’Essere, insomma, l’esercizio poetico è dunque perdita di proprietà: l’esercizio poetico è la rivelazione della vita nel suo ordinario essere disappropriata. Proprio questo discorso sulla radicale disappartenenza fa di Vito M. Bonito una delle voci più significative della poesia attuale: la sua ricerca è infatti non solo indagine sui modi della comunicazione o confronto con la ‘tradizione del Novecento’, ma effettiva interrogazione sulla possibilità di consistere (di avere un luogo, e un posto) che la poesia ambirebbe a offrire. Se ciò fa sì che i suoi componimenti siano caratterizzati da una spiritualità dallo spiccato carattere irrazionalistico, d’altro canto proprio il continuo situarsi sul limite della perdita di sé è il senso più profondo di una volontà di ricerca che è risposta all’abbandono, al suicidio. Vito M. Bonito ha portato alla massima espressione quella «progressiva cancellazione delle difese», quel «graduale denudamento» e tendenza all’«autodistruzione» che Andrea Cortellessa gli ha riconosciuto già quindici anni fa. Nelle parole dell’autore, del testo, se «la vita è in-fantia, la parola è ‘uscita dall’infanzia’, da ciò che non si può dire»: di conseguenza, proseguiamo noi, la parola è uscita dalla vita; il che si esprime in quel ritmo «ansimante», che, «se canta, sùbito deve poi ammutolire e risillabare con cautela, con timore, ogni parola», come ha splendidamente intuito Giuliano Mesa nella sua introduzione alla plaquette Il segretario (2000). Il lettore, se lo vorrà, potrà verificare quanto qui si propone, leggendo la complessiva produzione dell’autore. Qui ci si limiterà a una sola indicazione, che riguarda le due zone estreme di Soffiati via. Voltata infatti la copertina e la pagina col titolo, arrivato alla effettiva soglia del libro, ma prima ancora che esso inizi, fermo dunque sulla pagina a fronte dell’Indice, il lettore della nuova opera di Vito M. Bonito trova un’immagine, glaciata in bianco e nero, su cui si iscrive, copiata a mano in elegante grafia, una frase di Werner Herzog, seguita, subito sotto, da un commento – ancora nella riproduzione di una grafia manoscritta – che consiste in una manciata di versi, che poi si rileggono più avanti regolarmente stampati in caratteri tipografici: «fai luce / ad una spegni / ad una le ombre / giocattolo». Alla fine del libro, leggendo le scarne Note predisposte dall’autore, il lettore apprende che un’altra manciata di versi, e più precisamente gli «ultimi tre versi della penultima poesia, scritti a mano e preceduti da un “Gesù ti cerca”, mi sono apparsi in foto su Internet. Li ho quasi restituiti alla loro purezza “acheropita”, vertiginosa e stordita». ‘Acheropita’ nella tradizione cristiana bizantina, è quell’immagine sacra che è stata realizzata «non da mano umana». Prima del libro, prima ancora della sua esistenza cartacea, una mano ha tracciato le seguenti parole: «vieni ha me / se sei stanca / io ti vacillerò». A quel messaggio, l’Autore ha risposto con la fotografia incipitaria in cui si vedono due uomini: il primo, inginocchiato e con il braccio destro alzato come nell’atto di farsi il segno della croce, e il secondo steso supino, le mani al volto. Immagine gelata, su cui si stendono le seguenti parole, «scritte a mano» e attribuite a Herzog: «hanno invocato dio perché li salvasse e lui ha mandato un arcangelo che ha scagliato la città in un lago senza foreste dove le persone vivono beate, cantando i loro inni e suonando le campane». Un segnale viene da Internet; e il poeta risponde inviando il suo libro, in un dialogo che è al tempo stesso dentro e fuori di questo mondo. Un dialogo che al tempo stesso è e non è, giacché convoca la voce che viene da fuori (presentandosi per segni certi, ma iscritta nel bagliore dello schermo) e la fissa nella sua responsabilità. Un confronto sonnambolico, ancora una volta ‘dentro e fuori’, in una dimensione davvero autre che questi splendidi versi, nel loro asintattismo, rendono con grande chiarezza: «si finisce poi / che a vivere / si ha paura // si finisce poi / che si appare in sogno / si dicono che i vivi / senso non hanno / e poi fanno insonnia / fanno terrore di prendere / sonno // fa sperare / dormire // a dormire / si finisce / impazziti».

(Giancarlo Alfano)

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