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SILVIA BRE, La fine di quest’arte, Torino, Einaudi, 2015, pp. 96, € 11,00
L’ultimo libro di Silvia Bre intitolato La fine di quest’arte è denso e compatto, come «uno sguardo che tiene / tutto», che ricompone il mondo senza cancellarne le zone d’ombra. La raccolta riprende e sviluppa motivi cari alla poetessa come il riferimento al mondo dell’arte. Arte è natura, un bonsai da cui si schiude la formula della vita. Arte è capacità di contemplare il paesaggio ed esprimere le sue risonanze, come indica la gioia del «panorama montano» del componimento di apertura del volume. Arte è anche costruzione umana, abilità di trasformare ed edificare, mai esente da pericoli come suggeriscono i versi di Entierro sul crollo che ha tenuto imprigionati per un mese trentatré minatori cileni nel 2010. Arte è scultura e architettura. La poetessa si riferisce infattia un artista barocco nel testo Borromini Francesco Tombeau in continuità con la raccolta precedente intitolata Marmo (2007) dove in un componimento rendeva omaggio a Gian Lorenzo Bernini intento a scolpire la statua della beata Ludovica Albertoni. All’evidenza questo nuovo libro di Silvia Bre parla anche di arte come creazione poetica. Il dettato accoglie formule epigrammatiche folgoranti come «La regola dell’arte dice solo / prima doverlo fare / dopo farlo» ricollegando in modo incisivo attività artistica – e quindi anche scrittura – e urgenza del fare e del dire. La dimensione fisica costituisce un immancabile punto di partenza per la ricerca estetica come ammonisce il climax dei versi seguenti: «devo scrivere bava / e dopo perla / e poi collana» passando dal fluido biologico al gioiello. L’obiettivo della poesia è «dare spazio a qualcosa / al suo passare» opporsi dunque allo scorrere caotico dell’esistere per far durare i dettagli e il loro significato. Tutta la raccolta è costellata dal ricorrere di aggettivi che indicano una misura ridotta sottolineando l’attaccamento del soggetto ai particolari. Vengono così spesso ripetuti il qualificativo «piccolo» e il superlativo «minimo», per esempio nelle espressioni «maestro piccolo», «pianta piccola», «piccolissimo luogo», «minimo dettaglio», «uno splendore minimo» o ancora «minimo fluttuante / unico sì». Grazie all’attenzione ai dettagli può cominciare la ricerca del senso del vivere universale. Ma la chiave per capire più profondamente la raccolta si trova forse nella parola «fine» usata nel titolo. La fine di quest’arte sembrerebbe designare una cessazione dell’attività artistica, un distacco dal momento creativo. I testi però non confermano questa ipotesi di lettura, non parlano di perdita di creatività o di sfiducia nella poesia. Il titolo allude invece più probabilmente alla fine di un’arte chiusa in se stessa, incapace di accogliere il mondo. Il soggetto poetico è infatti persuaso che «il cerchio di un confine non ci salva» ma imprigiona nel narcisismo. Bisogna dunque uscire dai confini dell’io per cadere nelbuio della vita, per abbandonarsi all’altro da sé. Fare arte e in particolare poesia non significa dunque solo ricomporre il mondo ma anche sabotare la propria interpretazione del mondo, esporsi a un reale il cui senso è mobile: «vado poesia / nel tuo mobile senso / scia di una felicità / della cui apparenza vivo». Nell’alternanza tra fissazione e movimento, composizione e liberazione, si ritrova il segreto della poesia. Forse è questa la ragione per la quale, il libro contiene una fotografia di Diego Mormorio dei tre gradini della Chiesa di San Carlo alle Quattro fontane a Roma. Questa parte dell’edificio del Borromini è costituita – come si dice nelle note – da gradini di ingresso e di uscita della chiesa. I gradini dicono la necessità di collegare un luogo chiuso, protetto e sacro e uno spazio esterno aperto e fuori controllo. Il senso trovato nel mondo deve essere continuamente perso e di nuovo e diversamente ritrovato. Perciò la poetessa ribalta i rapporti prestabiliti e lo sguardo non è solo quello del soggetto che contempla il paesaggio ma anche quello del mondo: «qualcosa vede tutto / e il nervo della vista è l’equatore». E se il pensiero è sospensione dal corpo, «Ma pensare, pensare è affrancarsi / mente che sogna addormentata nella terra», anche il corpo si smarrisce «quando va via da sé / quando senza più noi va da nessuno». La scrittura poetica non è semplice garanzia di conoscenza ma un modo di vivere perché «dire non è sapere, è l’altra via, / tutta fatale d’essere». La raccolta è dunque un omaggio a questo ‘dire come essere’: «quando si sente fluttuare il tuo nobile nulla».
(Ambra Zorat)
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