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MARCO GIOVENALE, Maniera nera, Torino, Aragno, 2015, pp. 73, € 8,00

L’ultimo libro di Marco Giovenale, pubblicato nella collana «i domani» dell’editore Aragno, elegge a titolo il nome di un procedimento di incisione per cui l’artista lavorando su un negativo ricava le proprie figure dall’eliminazione di inchiostro in eccesso e fa affiorare forme di luce dallo sfondo scuro («Ci abita allora fa / la lettura della luce»). Dal procedimento della ‘maniera nera’ Giovenale sembra dunque mutuare il gesto di togliere per attrito, incidendo dei segni. Ciò che accade nelle sei sezioni della raccolta – Murate, Interni (e) ritratti, Roma, Extra, Altri visini, Baia, i testi appartengono all’arco di tempo 2005-2013 – è una sorta di ritratto in movimento di alcuni semplici gesti volutamente ridotti a elementarità, isolati da un contesto di significato più ampio e rivisitati nella loro essenza. Giovenale piazza la camera delle sue riprese volutamente a sfavore di azione, in modo da avere una resa sfocata, enigmatica ma allo stesso tempo pienamente oggettiva, particolareggiata, dei soggetti su cui si concentra e dai quali sembra bandito per idiosincrasia poetica il pronome di prima persona («la tomba parla in prima persona anche se non / c’è ego»). Giustamente Maria Grazia Calandrone nella sua quarta di copertina evoca «lo scatto fotografico» su cui misurare la scomparsa (ma si potrebbe parlare anche di alcune ‘ricomparse’) di tanto Novecento. Continuando coerentemente il suo lavoro da tempo e con forza condotto su questo crinale, anche in Maniera nera l’autore ricorre a una scrittura che intende il segno non solo come sema o suono, ma anche come figura, disegno, disposizione. L’idolo polemico del significato («Piuttosto l’asemia che l’afasia.) viene provocato con procedimenti casuali e automatici come ad esempio la geminazione di parole da un suono che si ripete virando e comprimendo il ‘senso della frase’ in una rappresentazione di più ampia referenza, plurale e invasiva; non mancano casi di questa tendenza che, oltre al titolo stesso della raccolta (Maniera nera) si possono citare pescando in modo più o meno casuale dai testi: «acqua acuita»; «date binate»; «tipico trittico edipico»; «baffi babbi pappi»; «umbro, / dunque umbratile». Le disposizioni di suono-senso-immagine servono a scandagliare e sollevare quella «materia nera» su cui si apre il volume («Materia nera, del nero cresciuto guancia-parola nera») e che giace al fondo di una vicenda privata ma universale su cui si esercita per intento politico la destrutturazione poetica di una realtà in rotta, che nei luoghi più propositivi è anche una felice ristrutturazione. I luoghi di Giovenale sono ancora gli interni domestici di una quotidianità dimessa, piegata dalla zona comune e perturbante di un male invisibile, la casa, l’asilo, l’ospedale; a questi ambienti si sommano alcuni scorci della sua città natale (via della Spiga, via Nazionale, palazzo delle esposizioni) cui l’autore dedica la terza sezione della raccolta: «balbettamento (encrypt) / encausto su esausto / (Sam docet | seduce) // orologio che si scarica su spiaggia / e viene riportato / indietro (narvalo, trofeo) / dalla polvere alla collezione / (coazione) a quanto era, come era / il tempo (per noi) / di atrio / alieno, fermi nel pronao, poco sidro / nella destra a guardia, a guardare / guardare come bene come / brucia bene Roma» (Crypta Balbi). L’autore è interrogato dall’esistenza stessa delle parole e tenta di comprenderle al di là del tempo per via di ricostruzioni e allusioni etimologiche, per accumulo o balbettio di particelle asemantiche e, nell’estrema potenzialità espressiva, con accostamenti analogici di due termini che rendono il senso di una visione arbitraria, latamente scissa: «era-è»; «ferro-foglio»; «fiato-filo»; «labilità-iride». Allo stesso modo agiscono, a cesellare perfettamente il filo logico di alcuni passaggi quasi funambolici, i segni interpuntivi con l’aggiunta di trattini verticali o obliqui ad indicare nell’alternativa l’impianto sostanzialmente binario delle strutture: «O (altrimenti / oltrando)»; «visto che / dato che». Nella sintassi spezzata e criticizzata e nel gioco così estenuato sul senso, il lessico di Giovenale restituisce la misura di una ricerca rigorosa sulla lingua inanellando termini tecnici, parole straniere o neoformazioni come «booleani», «emopoiesi», «kylix», «borealia», «suoriformi». L’autore evita accuratamente il canto, l’enfasi e tutto quel bagaglio del ‘poetico tradizionale’ che ormai vive nel luogo comune e nella resa di una cattiva coscienza, e a questo oppone la dimensione del parlato sommesso, del balbettio, della frase onirica mescolandola al giro sonoro della filastrocca, alla tecnica del collage o, appunto, dell’incisione, dello scatto, del film. In quest’ottica possono essere ‘poesia’ anche degli appunti di un taccuino come nel caso della sezione Extra, dove l’objet trouvé di alcune trascrizioni di viaggio (Trascrizioni patavine) vengono offerte al lettore non tanto per arbitrio d’autorità artistica, ma come esperienza fatta sul campo del passaggio naturale dalla realtà a ciò che Giovenale intende come poesia, suono e figura di parole distaccate dalla loro referenza reale (archeologica) eppure ad essa collegata da un vincolo di derivazione diretta per quanto non più conoscibile. Non è un caso allora che in questa sezione si trovi uno dei riferimenti letterari più scoperti della raccolta, ovvero l’explicit di Elegie romane XIV di Goethe («lieblicher Bote der Nacht») di cui nelle note finali si offre anche un passo esteso della traduzione pirandelliana. Proprio come gli appunti di viaggio, anche la citazione letteraria è per Giovenale un oggetto a sé che può occhieggiare casuale, ma non senza uno scossone, nello sviluppo di un dialogo apparentemente vagante (o galante) come nell’esempio montaliano tolto da Strettoia: «Nome della via morta e nome della sarta viva / sono giusti se sono / stoffa persa dagli operatori booleani, dunque / e così esisti (si stupisce) (con l’esclamativo, si aggiunga)». La frase che non dice porta con sé un messaggio più eloquente di ciò che viene ritenuto tale in base a presupposti comuni da rifiutare e combattere: in questo si pone anche il contesto delle rimodulazioni semantiche che Giovenale opera soprattutto sui connettivi della frase, deittici e avverbi di tempo: «mentre parlano / istericamente delle nuove zone e spacci / kitsch in centro, riciclaggio / e ogni frase dice ogni altra cosa, soprattutto / deittici e motivi motivetti di possesso: / donna (questa) ha / uomo (questo)». La ‘frase che non dice’ viene assorbita e fatta propria dalla raccolta che la trasforma in ‘pagina’ provocando o interrogando apertamente il lettore con l’invito dei due punti lasciati in sospeso, «Così all’ennesima ulteriore / pagina che non dice: ». La lettura di Maniera nera mette al corrente, insieme al resto dell’opera di Giovenale, di una delle esperienze più responsabili e consapevoli nel panorama della nostra poesia odierna. Come dice Calandrone nella quarta «di questa poesia non potremmo cambiare nemmeno una virgola», tanto è lo scrupolo che l’autore pone ad ogni passaggio, calcolando anche l’arbitrio e il caso come elementi di una ‘composizione sostenibile’. Poesie, dunque, ad altissimo peso specifico, il cui oggetto risiede nel dubbio sulla possibilità e legittimità dell’espressione relativamente a un contesto saturo (parole, immagini, rumori) che Giovenale non ignora, ma anzi utilizza come la lastra nera su cui incidere per sottrazione la maniera poetica del suo me/issaggio.

(Fabrizio Miliucci)

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