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DAMIANO SINFONICO, Storie, prefazione di Massimo Gezzi, Forlì, L’arcolaio, 2015, pp. 51, € 10,00.


Storie, libro d’esordio del giovane poeta Damiano Sinfonico, racconta le vicende di un personaggio empirico, il cui dettato lirico-parentetico è tematizzato dall’uso dell’aggettivo. Diviso in quattro sezioni, (prime), (aperte), (innocenti), (ultime), che solo a livello paratestuale sembrano suggerire una certa simmetria (prime-ultime), le storie dell’io si muovono in una realtà quotidiana scandita da un metro che il prefatore, Massimo Gezzi, richiamandosi alla lezione di Fortini (Foglio di via, 1946) e Giudici (Autobiologia, 1969), definisce ‘verbo-frase’. Questa cadenza lineare descrive il tessuto poetico di (prime), (innocenti) e (ultime); tuttavia, è vero che le storie (aperte) sono frammenti quotidiani racchiusi in un solo periodo, ma all’interno di una ‘stanza’ aperta – come recita e vuole il titolo della stazione poetica – priva di maiuscole e punti fermi, dialetticamente tesa alla poesia successiva, una sorta di mottetto senza un secondo tempo, dove il verso, il metro e le rime seguono regole autonome. Questa apertura nei confronti del mondo sgretola l’intelaiatura strutturale della raccolta; certamente, come ricorda Gezzi, «la sezione delle (prime) e quella delle (innocenti) iniziano entrambe con un testo in cui chi dice io riceve una telefonata, mentre (aperte) e (ultime) sono inaugurate da un sogno e da un risveglio». Leggendo la prefazione e le prime due sezioni, il lettore si aspetterebbe, ragionevolmente, un macrotesto chiastico (verbo-frase; stanza; stanza; verbo-frase); oppure alternato (verbofrase; stanza; verbo-frase; stanza); invece, il lettore si trova di fronte ad un’alterità metrica. La ‘stanza’ utilizzata nel terzo tempo del libro modifica il discorso lirico su due piani: narrativo, in quanto la sezione diventa un testo unico, una storia, aperta, che nasce in un intervallo temporale e spaziale separato dal tempo e dallo spazio grammaticali delle altre tre sezioni; narratologico, ché l’io poetico ricopre una funzione strettamente descrittiva, e non più lirica (se possiamo ancora considerare ‘lirica’ quel tipo di poesia dove c’è una persona che dice ‘io’), anche quando interviene nel testo («credo sia dietro l’orizzonte»; «se ti abbraccio»). La scelta non può essere casuale e sembra piegata a isolare una scheggia di vita e un’idea della poesia dalla linearità monologica che accompagna l’intera raccolta – monologismo che solo latamente è minato dall’intervento esterno di una voce, la cui presenza, nel testo, non è in grado di soverchiare lo statuto lirico dell’io («Mi hai colto tra miniature medievali. / Invischiato in faccende che non mi riguardavano»). Come leggere, allora, questa stanza di vita quotidiana, priva di punti e di maiuscole, che si inserisce con forza in un sistema chiuso come quello delle Storie? Questa intromissione scalena, questa vita parallela che si oppone all’orizzontalità dell’esistenza, si muove lungo un piano verticale, continuo, i cui confini sono dati dalle parentesi, che, come le storie che le rappresentano e raccontano, sono ‘aperte’, così come i suoi protagonisti, che sono «lontani come due bordi di un cucchiaio». La descrizione finale rimane così incompiuta e soverchiata da un ritorno lirico-parentetico, innocente e ultimo, dell’io. Non esiste sintesi dialettica tra il verbo-frase e la stanza, tra l’io e non il non-io, e la poesia è costretta a tornare ad esistere nel suo tono lineare e orizzontale, tra una telefonata inaspettata e un sogno sfumato.

(Alberto Comparini)

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