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di Antonella Francini - da Pangea News
Charles Wright è uno dei poeti più potenti del pianeta. Oblivion Banjo, uscito nel 2019, è il suo ultimo libro: un immane repertorio antologico (quasi ottocento pagine) in cui il poeta orienta la lettura della propria opera. È una specie di torcia: fuoco che illumina qualcosa – e incenerisce tutto il resto. L’importanza di Charles Wright – come quella di ogni poeta – si misura non certo in copie vendute o premi conquistati, ma in ritrosia, in altitudine, nella capacità di creare un cosmo allo stesso tempo sigillato e disarmato – compiuto.
L’opera di Charles Wright – come quella di ogni grande poeta – si legge come un unico poema; un poema ipnotico.
Dylan Thomas e Raffaele La Capria
Wright comincia a pubblicare negli anni Sessanta, il primo libro esce nel 1970, The Grave of the Right Hand. Agiografia vuole che Wright sia nato poeta nel 1959, a Sirmione, presso la grotta di Catullo, leggendo Blandula, Tenulla, Vagula di Ezra Pound. Il poeta lavorava per l’esercito americano, era di stanza a Verona; compiva ventiquattro anni. L’ultima raccolta di Wright, Caribou, è uscita nel 2014; il 25 agosto del 2025 il poeta ha compiuto novant’anni. Da tempo, Wright ha optato per il silenzio: non rilascia interviste, ha una casa vittoriana a Charlottesville, la moglie, Holly, fa la fotografa; ha chiamato il figlio Luca, come l’evangelista. Tenta di credere nell’aldilà. Di sera, siede in giardino – è ancora siderale la sua ispirazione.
Wright è stato “Poet Laureate” degli Stati Uniti dieci anni fa, è stato finalista diverse volte al “Pulitzer for Poetry” (vincendolo, nel 1998); alcuni suoi libri – The Southern Cross, 1981; The Other Side of the River, 1984; Chickamauga, 1995; Black Zodiac, 1997, Buffalo Yoga, 2004 – hanno segnato indelebilmente la poesia contemporanea. Poeta colto come pochi altri, Wright sembrerebbe essere la quintessenza del poeta nordamericano: Emily Dickinson è la sua paladina e Walt Whitman il suo profeta; è sintonizzato sui toni lirici di Wallace Stevens e di Robert Frost; ama Hart Crane. Nel suo pantheon, spiccano George Herbert e Gerard Manley Hopkins; non smette di ricordare – dobbiamo ricordarcelo di continuo – l’importanza del “Book of Common Prayer” per la poesia anglofona (che è sempre ‘liturgica’, procede per innologie). Ha tradotto Eugenio Montale e Dino Campana, legge di continuo Dante – forse per questo la poesia di Wright è ‘passata’ con agio in Italia, pubblicata da Jaca Book (Crepuscolo americano), da Crocetti (il formidabile Breve storia dell’ombra), da Donzelli (Italia). L’immane poema Littlefoot (Crocetti, 2023) è uscito in origine nel 2007; Antonella Francini è la devota traduttrice di Wright nel nostro paese.
A differenza di altri grandi poeti statunitensi – esempi sparsi: John Ashbery, Mark Strand, Charles Simic, Robert Pinsky –, eccellenti in stile, Charles Wright tenta di portarci altrove, di mettere tenda nell’antinferno, di scardinare le cifre del mistero, di slegare la tela di ragno dei fenomeni, la museruola ordita da dio.
A mio giudizio, l’unico autore a cui Charles Wright può essere paragonato è Cormac McCarthy. Quasi coscritti – McCarthy, classe 1933, è più grande di due anni – sono cresciuti entrambi in Tennessee: i genitori lavoravano per la “Tennessee Valley Authority”; il padre di McCarthy come avvocato, quello di Wright come ingegnere. Forse si conoscevano. In entrambi, la fama – o meglio, l’autorevolezza letteraria – ha agito amplificando l’indole all’isolamento, a una scrittura come ‘pratica’, per cui pubblicare è esito meditato a lungo, mai immediato – ci si immedesima nella roccia e nel puma, nella radice e nel vento. Il più, sempre, è sapere cosa tenere nei cassetti, cosa lasciare per i pochi a cui consegnarsi, a cui confidare un credito, un dono. Per entrambi, la letteratura non è la vita, ma la ‘via’: i libri di Wright e di McCarthy non si esauriscono alla lettura, impongono una scelta spirituale, una preferenza. Li conserveremo per sempre.
Cormac McCarthy amava i lupi – chi non ricorda la fantomatica lupa di Oltre il confine? – ma il suo animale-totem era il cavallo, la bestia cosmica dei Veda, l’antichissimo innario indiano; Charles Wright ama i cavalli, ma il suo animale-totem – come racconta nel dialogo intrattenuto con “Image”, a cura di Lisa Russ Spaar, calcato, in parte, in calce – è l’orso. North American Bear è il titolo di una sua raccolta del 1999; alcune lasse del poemetto omonimo (nella versione della Francini) recitano così:
“Casuale geometria delle stelle, casuali stringhe di parole belle come l’alfabeto. O così le ricordo, Orsa nordamericana, Orione, Cassiopea e le Pleiadi che cuciono la loro sintassi sul cielo profondo del North Carolina mezzo secolo fa, la lingua perduta di notti estive, la pergamena muta del tempo, trafitta sul suo scuro cilindro celestiale.
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Cosa c’è per noi d’imperturbabile nelle stelle? Quale impulso, quale bassa marea ci attrae lassù come vertigine, quale inversione di quota ci spinge verso i loro abissi chiari? Stanotte, per esempio, qualcosa ruota dentro i miei occhi, qualcosa d’illacrimato, qualcosa d’innominabile, filando veloce la sua tela. Chi dirà che il cuore dirottato non è tornato alla sua gabbia? Chi dirà che il respiro d’un angelo non m’ha sfiorato l’orecchio?”
Poeta coltissimo – dicevo – Charles Wright ha letto facendo falò. Si legge per esacerbare la ferita, per lacerare l’acerbo essere e arrivare a quel luogo che nessuno ha detto, per circoscriverlo con verbi-mirtilli, con verbi-ortica, senza alcuna cautela. Come un fico cresce in una chiesa sfondata da una bomba, a nirvana del gufo reale. Si legge per esaurire; si impara per dimenticare. Poi, dal pentametro giambico si passa all’artigliata. Questa è la poesia come ‘pratica’: ci si impratichisce, ci si perfeziona, perché abbia spazio il perfetto, ciò che non è perfettibile, ciò che supera il concetto, la riflessione, il riflesso culturale. Al pentametro giambico segue l’assalto dell’assoluto.
Per capire Charles Wright, forse, è più utile leggere L’orso, supremo racconto di William Faulkner, che minuziosi, smaliziati referti critici. Charles Wright ha detto di aver ‘incontrato’ l’orso a undici anni; una leggenda degli indiani Montagnais-Naskapi narra di un orso che “trovò un bambino e lo tenne come un figlio per diversi anni” (in: Riti e misteri degli Indiani d’America, a cura di E. Comba, Utet, 2003). Quando il padre del bimbo andò a cercarlo, l’orso operò magie: si distese sul cielo, evocando tempesta. Nulla da fare. Il canto dell’uomo – dacché un orso si fa incantare dal canto – riuscì a vincere l’orso, che affidò al bambino una delle sue zampe. Crescendo, il bambino allevato dall’orso diventò “un cacciatore di orsi straordinariamente abile”. Per tradizione, soltanto le donne sposate dei Montagnas-Naskapi possono scuoiare un orso, “le giovani donne non sposate si coprono il volto”. Le donne sono gelose dell’abilità di quel ragazzo nell’uccidere gli orsi – un’abilità virginea, da creatura di altri mondi. Abilità sciamanica, altra dalla copula e dal rito filiale. Quando una di queste donne scopre la magia del ragazzo, riposta nella zampa dell’orso, egli scompare, “senza lasciare alcuna traccia – si disse che era diventato un orso”. Chi ha capacità nell’irretire il mito, scorgerà brandelli di Orione e di Atteone in tale dire.
In questa leggenda ci sono diversi elementi che riguardano la poesia di Charles Wright. Il linguaggio che tiene insieme uomini e bestie (ma anche alberi e stelle); la potenza del canto; il patto concluso con le forze del mondo; la dedizione al compito; la sparizione. C’è la caccia – e dunque il sangue: ciò che il poeta elargisce perché ne beva il lettore, famelico. Il poeta non si augura altro: esumare la tua esanime anima.
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In cosa credo. “Credo nel mistero delle cose. Credo che il compito del poeta sia ingabbiare quel mistero. Non credo che occorra far fruttare il mistero, ma circoscriverlo: fissarlo, ascoltarlo, capire se ti parla – cosa che, di norma, non accade.
Credo nella musica. Credo nell’amore”.
La lotta incessante. “Nella religione, da un lato ci sono le chiese-supermarket, che propongono un modo per stare bene, per sentirsi appagati – dall’altra, la dura, incessante lotta che comporta il confronto con Dio. In poesia è lo stesso: da un lato c’è la poesia light. Sappiamo cos’è: non chiede troppa fatica. Dall’altra, ci sono i poeti della lotta: John Donne, Gerard Manley Hopkins, Emily Dickinson. Poeti che si donano ma che non regalano nulla. Che pongono limiti da oltrepassare”.
Il giardino interiore. “Una volta, quando ero nel pieno della vita, la magia vibrava ovunque. Guardavo le cose, cominciavo a scrivere. Ora, guardo il mio giardino. Ne ho bisogno perché la mia immaginazione non sgorga da sola. Ho bisogno di guardare qualcosa per metterla in moto. Così, verso le nove di sera mi siedo in giardino e lui irradia il mio giardino interiore”.
Emily Dickinson sulla ‘Whitman Road’. “Emily Dickinson aveva l’immaginazione di una alienata, era un’aliena. Era ultraterrena. Ho sempre cercato di giungere a quello stadio ultraterreno. Pur non avendo direttamente influenzato il mio stile, la Dickinson è una delle mie eroine – sono ispirato dalla sua natura ultraterrena. Ho cercato di scrivere con l’intensità della Dickinson, ma… volevo uscire di casa! Così, nelle poesie più lunghe penso a Walt Whitman, in quelle più brevi vivo come Emily. O meglio: cerco di essere Emily Dickinson sulla ‘Whitman Road’”.
Non sono un poeta. “Non mi piace definirmi poeta. Non credo in chi si dichiara poeta. Robert Frost ha detto che sono gli altri, eventualmente, a dirti poeta. Ho una forte tendenza al religioso, alla ricerca spirituale, ma non sono un poeta religioso. È vero, mi hanno incluso in diverse antologie di poesia religiosa: che sia utile alla fine del mio viaggio?”.
Un lignaggio: da Virgilio alla Bibbia. “La mia tradizione proviene dal ritmo biblico, da quel linguaggio, in particolare dalla King James Bible. Sono cresciuto come cristiano e amo quella meravigliosa favola; da adulto, sono stato attratto dal Buddismo. Sento il desiderio di andare oltre le angosce e le angustie di gran parte del cristianesimo. Eppure, angoscia e tormento possono essere fonte di grande poesia. Penso alla traduzione del sesto libro dell’Eneide di Seamus Heaney. Che testo memorabile: è precristiano eppure prevede Dante. Non c’è da stupirsi che Dante scelga Virgilio come guida nel suo viaggio. Così si fonda un lignaggio, un albero genealogico. Non voglio rinunciare alle cose del mondo, non voglio rinunciare alla King James né al Book of Common Prayer. Quando morirò voglio che mi sia letto il rito per la sepoltura dei morti (Rite One for the Burial of the Dead)”.
Non mi convertirò. “Amo l’Apocalisse e il libro di Giobbe, ma è il Book of Common Prayer di Cranmer a echeggiare ancora nella mia testa. Dai sei ai sedici anni è stato il centro di tutto. A sedici anni ho fatto ingresso in una chiesa episcopale. In me risuonano ancora i gesti e i ritmi di quella educazione cristiana, episcopale. Insieme alla musica gospel del Sud. Ho consegnato tutto questo a mio figlio, che è un vero credente, un teologo. Quanto a me, non credo che mi convertirò in punto di morte. Ma non si sa mai”.
Amore, amore. “In realtà, tutte le mie poesie sono poesie d’amore. E sono preghiere. C’è un meraviglioso passaggio nei drafts and fragments di Pound, quando parla di Olga Rudge, la violinista con cui viveva:
______ma bellezza non è follia benché errori e naufragi mi accerchino. E io non sono un semidio non riesco a fare ordine. Se amore non è in casa, è il nulla.
Amo molto la poesia di George Herbert, Love III, con quell’attacco superbo: ‘L’amore mi dà il benvenuto, ma l’anima è refrattaria/ colpevole di polvere, intrisa di peccato…’
E poi c’è Emily Dickinson. Non so a chi siano rivolte, ma le sue sono tutte poesie d’amore – e preghiere”.
Il mio piatto preferito. “Amo il pesce e le quaglie. Tra le verdure, preferisco gli asparagi. Non voglio dolci. Passiamo subito alla grappa”.
Illuminati. “Aspiro all’illuminazione. Come il Buddha. ‘Ricordami come uno che si è risvegliato’, dice il Buddha. Ecco. È tutto. Sono attratto da quel vuoto che non saprò mai raggiungere, che apre alle cose autentiche e non alle cianfrusaglie di questo mondo. Ho trovato diverse vie di accesso al mistero attraverso il Cristianesimo, poi mi ha affascinato il Buddismo. Qualcosa nel Nirvana e nella via negativa mi stimola come poeta: riempio il pozzo svuotandolo”.
Il sonnambulo e l’orso. “Da ragazzino ero sonnambulo. Mi svegliavo, correvo all’altro lato della stanza, verso il letto di mio fratello. A undici o dodici anni ero in campeggio, in Carolina del Nord. Sono uscito dal sacco a pelo, ho iniziato ad allontanarmi dalle tende, lungo il sentiero. Stavo camminando verso un dirupo, una specie di scogliera, sul limite del bosco, ma non lo sapevo. Poi ho sbattuto contro qualcosa, mi pareva un orso. Sono convinto che un orso mi abbia impedito di cadere nel dirupo. Ad ogni modo, mi sono voltato e sono tornato nel mio sacco a pelo. L’orso è il mio animale totem dall’età di undici anni. Ho sempre indossato come fibbia per la cintura l’artiglio di orso. Si è rotto, poco tempo fa: ora, come farò?”.
Trinità. “Inferno, Purgatorio, Paradiso. Tutto per me si esprime in carattere trinitario, in trinità. In poesia: poeta, lettore, poesia. Oppure: poeta, soggetto, ispirazione. Una volta ero a cena con mia moglie e un amico; lui aveva ordinato un secondo Martini. La cameriera disse qualcosa del tipo: ‘I Martini sono come i seni di una donna: uno non basta, tre sono troppi’. Per quel che mi riguarda è proprio quel ‘troppo’, ciò che fa instabile l’equilibrio, a rendere le cose interessanti: ti obbliga a ritornare indietro, a tentare di capire”.
Preferisco arrendermi. “Non voglio ripetermi. Non so se scriverò ancora. Nell’estate di qualche anno fa ho scarabocchiato alcuni testi: così brutti che mi sono rifiutato di batterli a macchina. Ho alcune poesie, ma mi rifiuto di pubblicarle, le tengo per me. Forse è davvero questa la poesia: una tratta tra fede e mistero. Forse la diga si scioglierà, si spaccherà. Ma non credo. Preferisco arrendermi”.
Charles Wright
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