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MARIAGIORGIA ULBAR, Gli eroi sono gli eroi, Milano, Marcos y Marcos 2015, pp. 105, € 15,00.


Sosteneva Borges che in letteratura ci sono appena quattro storie da raccontare: «1) una historia de amor entre dos personas, 2) una historia de amor entre tres personas, 3) la lucha por el poder, 4) un viaje». Questo vale in buona parte anche per Gli eroi sono gli eroi di Mariagiorgia Ulbar, libro per il quale potremmo spendere subito l’elemento del viaggio, poiché queste poesie esistono come e se in viaggio: «Catturai figure in giro, ombre e grate / di balconi, il pulviscolo alle tre post-meridiane / i bambini di Palermo guerci al sole. [...]». Il viatico del viandante è un balsamo in tutto il libro, persino un’incognita, come nella poesia dedicata a Venezia e al collegio armeno: «[...] Al collegio di Venezia a colazione / l’ombra non basta, non arriva sulle teste / noi discutiamo al rumore delle imposte / se non serva studiare l’alfabeto / prima di andare fino a laggiù insieme / mettere in un sacchetto il nostro oro / se dovesse servirci all’improvviso / per mangiare, lasciare un posto troppo buio, / salvarti da qualcuno, passare le frontiere nottetempo / fare uno scambio: un mio anello, un mio ricordo / per una indicazione e acqua fredda in cambio». Ciò che colpisce è la sarabanda di tempi verbali, che in una manciata di versi si sposta anche violentemente tra i passati: spesso è quello remoto intervallato all’imperfetto o al passato prossimo, a un passaggio repentino al presente o futuro. Altre volte v’è la comparsa di uno stile nominale che s’innesta in gruppi di versi («Su un quadrato di prato quattro pini / quattro pieni e in mezzo pezzi d’aria / con la luce. Due giorni a settimana / oltre i confini dell’umbratile fantasma. [...]» o versi isolati e incastonati («Una scena di ferro e bosco marginale »). Giochi con la lingua latina (“un’hora heri” ma anche «Nel luogo dei pini d’Aleppo e dei fratìni / un orto in sé concluso dove verde / è verde sempre scuro [...]» che non può che portarci all’hortus conclusus), inversioni, ripetizioni («Anche oggi è mattina anche oggi / e io mi butto verso il mare.»), ripetizioni di stesse parole con funzioni diverse di preposizione/ aggettivo («Se almeno ci avessero sgozzato gli indiani / lungo il tragitto lungo e tentennante [...]»), figure etimologiche («ma il morso morde a vuoto»), un gran campionario di rime (spesso povere, ma anche eccedenti) traducono uno sciame sismico – reale, cerebrale e lirico – fino a slabbrare il tempo, i bordi e i ritmi di questi testi in cui la vita è coagulata in «[...] un composto denso / di scure bibite / e celesti instabili striature». ‘Io’ e ‘noi’ sono le persone più ricorrenti, sottintese ma anche esplicitate. Più rare le occorrenze di seconde o terze persone singolari e plurali, che però riaffiorano nella sezione finale Piccola suite per Gengis Khan. Questo accade perché la storia che lega questi testi, quasi sempre privi di titolo, non sembra nascere da un intento di comunicazione dialogica. Insomma, è una poesia che si fida sfrontatamente dell’io e del noi, a dispetto di tutte le elucubrazioni che sono state costruite attorno a queste particelle pronominali ritenute pulciose ed è anche una poesia di cui ci possiamo fidare proprio per lo stesso motivo. La guerra mondiale è una corta sezione di nove brevissimi testi, quasi un raccordo tra il corpo iniziale e la parte più innovativa costituita dal poemetto di cui si dirà tra poco. Versi come «[...] e a noi è mancata una guerra / mondiale, ti ho detto all’improvviso» sembrerebbero avvalorare l’idea di porre l’assenza di trauma come centrale anche nell’interpretazione di questo libro. Eppure la sezione titola effettivamente La guerra mondiale e non allude a mancanze di questa, anzi, e il testo conclusivo inscena un’esecuzione dove si enumera ciò che va salvato, per concludere infine «Salvare soltanto il mare». La scansione del libro sembra ergersi sopra un mistero, da non rivelare, ma da percorrere spinti da una varianza di tempi verbali che imprime qualcosa di simile a un’accelerazione centripeta, attorno a un nucleo durissimo che resta impenetrabile e che tuttavia scotta e brucia nei suoi chiari. Solo nel poemetto Mio padre era un re (da un verso di Der Sohn di Rilke) avviene un parziale scoperchiamento, una minima rivelazione su quel mistero e quel vulnus già ricordato poco fa. Qui, per tornare a Borges, potremmo recuperare l’idea di un testo che ci parla di un amore tra due persone, padre e figlia, e del morire di lui, e quindi la rielaborazione di quel vissuto a distanza di tempo dal verificarsi di un evento capitale per la psiche: una persona non è più lì e non è nemmeno altrove. Sulla pagina, in posizione di incipit, resta allora un ‘io’ separato dal suo verbo con una virgola: «Io, passerò in mezzo alla strada, / si è fatta l’ora, ormai è avanti luglio / e ho espletato tutte le incombenze / e adesso resta solo da narrare. [...]». Eppure anche in questo caso non scomoderei la categoria del trauma e piuttosto scriverei del tentativo di rendere e adattarsi a un mutamento fondamentale. E se è vero che la voce è quella membrana che sta tra l’animula, vagula e blandula che sia, e il corpo, qui il suono emesso aspira tutto (lingue, ricordi, paesaggio, altri suoni, le tradizioni letterarie e le stagioni) in un’accumulazione che incalza e sorprende: «Di metodo ho bisogno per passare, / di metodo di ordine, così invoco: / formiche, maestre elementari, uccelli in stormi, / di Gengis Khan gli eserciti e dei Cesari, / invoco le tedesche ferrovie, le poste di Germania, / la matematica, il latino, / le lingue antiche europee e le orientali, / del pianoforte lo studio, di terracotta l’armata, / invoco le proiezioni ortogonali / e la forma del quadrato, la forma del quadrato / una volta più del cerchio / e la radice che vince sul pi greco. [...]». Tutto ciò si svolge in una estate catastrofica, nel momento in cui le cose accadono o non accadono (è un libro fortemente estivo questo, di una sfatta controra), un momento che occupa uno spazio preciso «perché io gli anni vidi sempre / divisi malamente in due: / il lungo e alto arco che prendeva / da settembre fino a maggio e poi / il retto segmento dei restanti mesi tre / fulmineo fulminante dentro il caldo / profondo e dentro il secco / incontrarsi morte a morte con il cosmo». Una geografia segnatamente italiana, con rimandi all’Armenia, all’Austria-Ungheria o alla Mongolia, alla Fossa delle Marianne o a Finisterre, fissa alcuni punti nominabili nei quali il tempo e il pensiero che l’accompagna si schiantano appena un attimo prima di dilagare. Ed è la realtà sincronica della memoria che necessita di agganciare questi punti di un’ipotetica mappa o leggenda, laddove si possa creare quel limbo tra il vento di una mente ‘tenera’ e la diacronia (e cronaca) degli eventi: Ancona e la sua raffineria, Trieste e il suo orizzonte («perché è tempo / di fuoco incrociato all’orizzonte / e noi abbiamo confuso / uomini con panchine»), le già ricordate Venezia con l’Armenia, Roma e il suo cimitero inglese, Pescara e i bar bollenti, il Gran Sasso e la sua vetta orientale con altri luoghi e fiumi dell’Abruzzo settentrionale, Palermo (manca Bologna, o per lo meno non è nominata, pur essendo stata a lungo luogo di residenza). Sono posti di una qualche pace, forse, dove si sta bene come in un luogo ‘non narrato’, posti da dove la mente si può anche sganciare. In fondo ci persuade leggere un passaggio ctonio come «Il futuro è sotto terra / grotta, caverna, forra, / gola, orrido, dolina». Gli eroi sono gli eroi è anche questo, un libro che si espande, proprio come le macchie su una superficie assorbente o come una galassia in un universo di senso primordiale e forse già postumo. È scritto come dai margini di un viaggio, da posizioni di estremità dunque, passeggia in prossimità di un abisso, di un horror vacui o di una conflagrazione, simile all’esplosione del verso conclusivo del poemetto Mio padre era un re, il più lungo di tutti, un chiasmo eccedente, affannato e ancora una volta estivo: «estrema luce bianca dentro bianca luminosa estrema estate».

(Alberto Cellotto)

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