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WOLE SOYINKA, Migrazioni-Migrations, a cura di Alessandra Di Maio, Roma, 66thand2nd, 2016, pp. 171, 22 €

in: Semicerchio LVI (2017/1) (Neo)Barocco. Poesia del Seicento nella teoria contemporanea, p. 124


Nations are but lies
R. Ali    


Voci del verbo andare è un bel romanzo della scrittrice tedesca Jenny Erpenbeck, edito da Sellerio nel 2016 (trad. Ada Vigliani): un titolo forse anche più suggestivo dell’originale Gehen, ging, gegangen; il paradigma tedesco, intraducibile in italiano, rende però in maniera efficace, quasi per una singolare sinestesia, l’incessante iter dei migranti protagonisti del libro, oltre a evocare lo sforzo reiterato del loro avvicinamento a una nuova grammatica, linguistica e culturale. «Andare, andai, andato»: la stessa alternanza di modi verbali, seppur diversamente modulata, è il motivo di sottofondo del volume Migrazioni- Migrations (66thand2nd, 2016), un’antologia bilingue, in italiano e inglese, curata da Alessandra Di Maio sotto il nome tutelare di Wole Soyinka, premio Nobel per la letteratura nel 1986. Il volume nasce in occasione dell’edizione 2012 del Lagos Black Heritage Festival, che ha ospitato l’Italia come paese partner, e raccoglie poesie di sedici autori nigeriani e sedici autori italiani; il 16, per la stirpe degli Yoruba, è un numero prodigioso, la cifra dell’ordine cosmico, che tuttavia, proprio per il suo carattere di instabilità magica, si ritrova scombinata da un diciassettesimo testo imprevisto, firmato dallo stesso Soyinka, e da due dipinti di Dario Fo.
Ogni componimento è anticipato da una fotografia in bianco e nero, che dialoga in maniera varia con i versi che la seguono; anche per le immagini gli autori sono numerosi. Si può dire che il libro è costruito su una molteplicità di contrappunti: poesia e foto, poesia e traduzione a fronte, poesia nigeriana e italiana. Una serie di combinazioni che dà la giusta struttura a una polifonia di voci, protagonista della narrazione di migliaia di destini, impedendo al tempo stesso ogni lettura troppo stretta, unidirezionale; è un libro che vuole e riesce a essere un ponte – culturale, simbolico e proprio per questo anche politico.
La geografia sembra ispirare molti dei componimenti: Harare, Casablanca, Timbuctù si succedono a località italiane, Bologna, Lampedusa, Ravenna; i nomi di luoghi ritornano continuamente soprattutto nei versi degli autori nigeriani, che evocano la costrizione dell’esilio, l’ossessione dell’andare. Il migrante è sospinto dal vento, come da titolo della poesia di Richard Ali: «questo vento di harmattan è passaporto per luoghi lontani, è figlio di razza/mista, mediterraneo di nascita, terra-mista radicato nel cuore della Vita./Aspettiamo ogni anno che sotto la caligine e il gelo si senta/la sua sussurrata unicità – romana, araba, sudanese – l’uno innamorato». L’harmattan ritorna nel componimento di Tade Ipadeola e si trasforma in un vento più nostrano, la tramontana, nella poesia di Silvia Bre: «Saremo noi/con uno straccio nero sulla testa/contro una tramontana d’oltremare». Lirismo, descrizione, racconto storico, mitologia, visioni oniriche si alternano, mutando a ogni pagina, poiché a ciascun autore sono concessi non più di 23 versi, che non è il doppio della cifra magica, dunque 32, ma è il numero inverso a quel doppio (un gioco che sarebbe piaciuto a Jacques Prévert, quando in Page d’écriture scriveva «et seize et seize qu’est-ce qu’ils font ?/Ils ne font rien seize et seize/et surtout pas trente-deux»).
Il movimento prosegue in Wandering soules di Olufunmi Aluko e si materializza sulla pagina, dove i versi vagano come “anime in pena” (la traduzione scelta per il titolo), o in A chi non farà ritorno di Ify Omalicha, in cui le parole, sminuzzate in singole lettere per ogni verso, sembrano tracciare graficamente la direzione dell’eterno cammino della divinità Ikenga. «Vanno vengono vengono vanno»: la poesia di Jolanda Insana, come una cantilena, rievoca le “voci del verbo andare” della migrazione e intona il «canto muto della distanza», dal titolo della poesia di Fabiano Alborghetti, al quale si uniscono gli autori italiani; questi componimenti, pur nella varietà di stili e di temi, sono tutti dedicati a coloro «che hanno il segreto della linea che trema» (Milo De Angelis) e che provano, nella disperazione, a cercare «lassù, nel buio, tra le stelle, un’altra strada» (Roberto Mussapi).
Nel ricordo della “notte dei poeti afro-italiana” del 2012, Migrazioni offre molteplici percorsi di fruizione, suggerendo al lettore un movimento continuo fra l’immagine, i versi, le due lingue e la traduzione, così da sottolineare il legame di storica interdipendenza fra l’Italia e l’Africa, come messo in luce da Andrea Riccardi nella postfazione; è un libro che invita, seguendo le parole di Soyinka, ad imparare a trarre «i giusti insegnamenti dai paradigmi della vulnerabilità e del bisogno».

(Ornella Tajani)

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