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GÉMINO H. ABAD, Dove le parole non si spezzano, ed. orig. 2004, trad. dall’inglese di Andrea Gazzoni, cura e introduzione di Gëzim Hajdari, postfazione di Carla Locatelli, Ensemble, Roma 2015, pp. 182, € 15,00.

in: Semicerchio LVI (2017/1) (Neo)Barocco. Poesia del Seicento nella teoria contemporanea, p. 125

Questa prima traduzione di un poeta filippino in italiano, vincitrice del premio internazionale «Feronia» 2009, contiene già nel titolo una delle sue immagini fondanti, cioè la duplice natura della parola come portatrice di potenza e pericolo allo stesso tempo: «Le parole non sono impiastri / per le nostre lesioni; / al contrario, ci feriscono. / Però con cura, dopo un lungo silenzio, / il filo della loro lama / potrebbe dare forma al tuo diamante.» La poesia di Abad è incardinata su un’idea di linguaggio come materia prima ed ultima dell’umano, concreto soffio di vita che anima la nostra corporeità – e questo diventa drammaticamente evidente quando mente e corpo cominciano ad abbandonarci: «E quando questa mente cade, / come riunirne di nuovo i pezzi? / E quando precipita e chiama / come sondarne il vuoto e riconquistare / ogni parola in ciascun pezzo / come vetro nella carne!». Nella poesia La vendetta delle parti del discorso, il dibattito allegorico tra queste ultime è pervaso dalla delusione per le manipolazioni operate dall’uomo; così Logos, loro signore e «grande e segreto reggitore degli uomini», decide di ridurre gli umani al silenzio: «perfino le pietre avevano il loro silenzio che pulsava / scritto vasto sulla Terra. / E l’uomo era prono, fasciato in tutte / le morte, impalpabili, lingue del mondo».
Questo approccio metalinguistico offre spunti di riflessione che richiamano molta teoria contemporanea, e Locatelli nella Postfazione menziona Derrida, Wittgenstein e Beckett. Nei versi di Abad, ciò implica talvolta in un disagio esistenziale nei confronti della quotidianità: «Quando incontro della gente, / sento che mi chiudo come una porta. / Da qualche parte un vento scuro s’alza, / che sbatte la porta e chiude. / Una volta mi ha fatto sanguinare un dito / che si era dimenticato nello spazio». Come ulteriore conseguenza di questa visione poetica, alcuni componimenti della raccolta sfiorano purtroppo un’elaborazione speculativa involuta.
Fortunatamente Abad non cede alla tentazione di rifuggire le cose del mondo. Nella sua Introduzione, Hajdari esagera un po’ nel conferire al volume una valenza principalmente politica, centrata sulle Filippine come «riserva strategica per gli interessi geo-politici delle potenze bianche occidentali». Ma in Dove le parole non si spezzano è innegabile che molte poesie affrontano, tramite un verso liricamente obliquo e sottilmente suggestivo, le sofferenze incancrenite dei filippini, in maniera forse simile al film di Lav Diaz The Woman Who Left, recente vincitore del Leone d’Oro 2016 a Venezia. Tutto parte, ancora una volta, dal linguaggio: «Le parole che mai furono creano di nuovo la mia razza». Abad è particolarmente incisivo nel descrivere quanto queste sofferenze si siano radicate nell’animo nazionale, e lamenta: «Non posso sondare la tristezza umana che infetta il nostro senso della bellezza».
E sempre dal linguaggio si sviluppa l’attenzione per l’infanzia e l’educazione, altro aspetto molto affascinante della raccolta: «Insegno al mio bambino / a sopravvivere. / Inizio con le parole nostre, / le parole semplici per prime / e per ultime. / Parole come casa, / o amico, o perdonare. / Queste parole sono relazioni, / sono difficili da mantenere; / i loro frutti sono invisibili». Una semplicità apparente e sfuggente, che sembra rappresentare una promessa per il futuro, quando la poesia potrebbe essere in grado di cogliere «i discorsi strambi / che nel sogno di un bambino si frangono a volte come onde / sulla riva che ascolta».

(Pietro Deandrea)

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