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ROBERTA DURANTE, Nella notte cosmica, libro + CD, Boca (NO), Luca Sossella, 2016, pp. 87, €10,00.

Considerando a volo d’uccello, e senz’alcuna pretesa di esaustività, il panorama di generi, temi e stili disegnato dalle opere di poesia pubblicate negli ultimi anni in Italia, sembra che emerga una singolare risultanza nell’analisi della poesia ‘neo-’ o ‘post-lirica’: una tendenza più generalmente riduzionistica – riscontrabile sia a livello retorico (si pensi di esempio alle chiusure gnomiche che risolvono tanti testi in chiave moraleggiante o sapienziale) sia sul piano tematico-ideologico – si associa, come d’altronde le conviene, ad altre tendenze che sono invece marcatamente entropiche. In questo scenario, diviene paradossalmente possibile osservare come un’opera che rientra nella categoria della ‘post-lirica’ e nondimeno le sfugge come Nella notte cosmica di Roberta Durante possa ricorrere ad alcuni dei topoi più abusati nella storia canonica della lirica – il volo sul mondo, il dialogo con la luna – evitando, però, di cadere in un armamentario linguistico-retorico trito e ritrito e rinnovandone quindi la potenza. Se, infatti, l’associazione tra le topiche menzionate rimanda senz’altro al Canto notturno di un pastore errante dell’Asia di Giacomo Leopardi, Durante non lascia trasparire, con il suo tono leggero e incantato, eppure mai naif, alcuna corrispondenza con il motto leopardiano «a me la vita è male». La sfida alle leggi della gravità, infatti, è anche una sfida alla gravitas, a quella dignità e serietà che porta molta altra poesia contemporanea, come si diceva, a esiti di tipo moraleggiante. Come si legge nel primo testo del libro, infatti, ci si sente «proprio nello spazio» (p. 7) – parafrasando: si ha proprietà di sé nello spazio – soltanto quando manca la gravità, ossia la dignità correlata al dover mantenere una posizione o un ruolo – anche quello del poeta, in ultima istanza – a prescindere dalle coordinate spaziali che si stiano esplorando. Inoltre, mentre il volo sul mondo, in Leopardi, è soltanto vagheggiato («Forse s’avess’io l’ale / Da volar su le nubi…»), il viaggio proposto da Roberta Durante attraversa il cielo e si conclude, infine, con un allunaggio riuscito. Non del tutto, però: come ha osservato Luca Rizzatello in una delle poche recensioni di cui ha finora goduto il libro (pubblicata nel blog Librobreve il 10 aprile 2016), nella terza e ultima sezione del libro – intitolata Luna, dopo Terra e Cielo l’allunaggio è compiuto, ma la luna scompare. In questa odissea cosciente dello spazio, ma priva di un approdo spaziale certo, resta il viaggio, sospeso tra le differenti dimensioni dell’onirico, del fiabesco e dell’avventuroso (non senza qualche incursione nell’estetica postmoderna), e calato all’interno di quella che è la ‘notte cosmica’ che dà il titolo al libro. L’onirismo del libro, tuttavia, resta perlopiù apparente: se il viaggio della voce poetica è compiuto in pigiama, come si ripete in più testi (p. 28, p. 38), ciò non implica che si elimini completamente il dubbio di stare viaggiando ad occhi aperti. Né sogno, dunque, né sonno (la dimensione, in qualche modo anti-psicanalitica, esplorata in almeno due libri usciti tra il 2015 e il 2016, come Stesura di Manuel Micaletto e Sonnologie di Lidia Riviello); ma fiaba e avventura, certamente. Immediate e fortunate, di conseguenza, le allusioni già operate da Rizzatello nella sua recensione del libro, da De la terre à la lune (1865) di Jules Verne a The Wonderul Wizard of Oz (1900) di Frank Baum.
Se questa è la Stimmung generale del libro, come in ogni fiaba o avventura che si rispetti, angosce e inquietudini non sono del tutto espunte. Paradigmatica, allora, risulta essere la copertina, basata sull’Ascesa all’Empireo di Hyeronimus Bosch; una promessa paradisiaca di luce che, al tempo stesso, non elimina il riferimento – per contrasto – alle altre tavole che compongono le Quattro visioni dell’Aldilà (1500-1503) e alla loro rappresentazione abnorme delle creature infernali, tratto distintivo della produzione del pittore olandese. La poesia di Durante coltiva tale rovesciamento secondo modalità molto sottili e argute: è così, ad esempio, che i versi «e quando la distanza non finisce / sparisce ogni pericolo» (p. 63) sembrano a una prima lettura consolatori, all’interno di un viaggio che è anche un modo di ‘colmare’ la distanza tra la Terra e la Luna. Si evoca, tuttavia, un pericolo che rimane costantemente presente all’interno del libro e che l’autrice non risolve affatto secondo il famoso motto hölderliniano, da Patmos, per il quale «là dove è il pericolo, cresce / anche ciò che salva». Anzi, il pericolo continua a squadernarsi, in sottotraccia (si ascolti a tal proposito il CD che accompagna il libro, seguendo la consolidata tradizione della collana Vivavox di Sossella), a causa, in un primo momento, della crisi identitaria sofferta dalla voce poetica e, in seguito, del confronto con il silenzio. Nel primo caso, pare di assistere, qui sì, a una riproposizione idiosincratica, ma non del tutto innovativa, del dramma identitario della lirica moderna, inaugurato dal je est un autre rimbaudiano (si prenda, ad esempio, la variante: «avevo formato una squadra di me», p. 58). Anche se non vi è compiuta innovazione, quel che è certo, nel qui e ora, è che una voce poetica come quella inscenata da Durante si trova ad affrontare una «vita da shapeshifter» (p. 8), secondo una molteplicità di livelli, che possono andare, ad esempio, dalla posizione socioeconomica alla costruzione dell’identità di genere.
Nel secondo caso, il confronto tra parola e silenzio si configura come una costante del libro: in «un teatro già vivo e già morto» (p. 12), la parola si scontra con la sua alterità, che è anche la sua possibile fine materiale, generando, allo stesso tempo, la speranza o la rassegnazione, più volte espressa, che tutto ricominci daccapo. Unicamente in chiusura di libro si avverte la possibilità che il ricominciamento avvenga «senza parole » (p. 87): nel resto dell’opera, invece, questo scontro tra parola e silenzio non produce altro che un ulteriore rafforzamento della parola poetica, sia a livello strutturale (i vari testi sono frammenti di una più grande unità poematica, divisa nettamente in tre sezioni) che a livello micro-linguistico (attraverso la facondia tipica delle paronomasie, per esempio). La possibilità di ricominciare a parlare «senza parole» interviene soltanto in chiusura di libro, allora, non soltanto per questioni di explicit, ma anche perché nella terza e ultima sezione, com’è stato accennato, l’allunaggio si compie, ma la luna scompare. Resta il viaggio e, più concretamente, su questa luna-nonpiù- luna, resta il mirto, già segnalato in precedenza come «frutto di altre metamorfosi » (p. 26). Il richiamo mitologico non sembra essere tanto all’episodio di Venere che si nasconde dietro a un mirto per evitare la concupiscenza di un satiro (il rovesciamento della figura della «bambina in pigiama» viene comunque attuato da una poesia che conserva una discreta carica erotica, ad esempio qui: «il nostro era stato soltanto un gioco di sguardi», p. 60), quanto a quello di Myrsine – l’atleta (donna) uccisa per invidia dall’amico dell’atleta (uomo) da lei battuto nei giochi e poi trasformata ed eternata in forma di pianta da Pallade. Questo chiaro riferimento alla dimensione di genere, traslato in campo mitologico, porta con sé il giusto sospetto che, con la proposta di questo viaggio, Roberta Durante attraversi, in realtà, anche il campo socio-simbolico della poesia italiana contemporanea; in altre parole, che si suggerisca – non senza una punta di malizia, anch’essa discretamente erotica – che vi potrà essere un nuovo inizio «senza parole», e quindi in modo del tutto rinnovato, soltanto superando le impasse culturali e politiche che continuano ad attanagliare la scena poetica italiana e avventurandosi, per contro, in un nuovo viaggio astolfiano verso la luna, contro ogni gravitas o gravità. Per recuperare infine il senno, o almeno il mirto.

(Lorenzo Mari)

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