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VIVIAN LAMARQUE, Madre d’inverno, Milano, Mondadori, 2016, pp. 138, € 19,00.

L’ultimo libro di Vivian Lamarque s’intitola Madre d’inverno ed è un omaggio alla madre scomparsa durante la stagione invernale. La morte, il freddo vuoto che accompagna il lutto e il ricordo della madre sempre vivo nel quotidiano sono al centro di questo denso libro di poesia. Non si può non ricordare come altre due poetesse contemporanee abbiano scritto versi commoventi per la morte di un genitore: Patrizia Valduga con la raccolta Requiem (edizione numerata Crocetti 1992, poi in versione ampliata Einaudi 2002) dà voce al pianto e al dolore per la scomparsa del padre, mentre Jolanda Insana, nelle prime sezioni de La tagliola del disamore (Garzanti 2005), rievoca in modo struggente ed incisivo la figura materna e le azioni che la madre non potrà più compiere. Imprescindibile punto di riferimento per Vivian Lamarque è però la raccolta Il seme del piangere (Garzanti, 1959) che Giorgio Caproni dedica alla madre Anna Picchi: non a caso alcuni versi caproniani, così linguisticamente congeniali alla poetessa milanese per l’uso di rime semplici e per la musicalità del dettato, vengono citati all’inizio di una sezione di Madre d’inverno.
Certo Vivian Lamarque manda in stampa un libro di fortissima tenuta sia ispirativa che strutturale. I lettori che da diversi anni aspettavano una sua nuova pubblicazione, dopo l’uscita del volume Poesie per un gatto (Mondadori, 2007) e della silloge in dialetto milanese Gentilèssa (Stampa, 2009), si vedono ora prodigalmente ricompensati per la lunga attesa. L’ultima raccolta sviluppa infatti in modo originale temi cari alla poetessa e in primo luogo il motivo dell’abbandono e dell’adozione, ovvero «la frattura / la sostituzione il cambio di madre» per dirla con alcuni versi tratti dalla prima raccolta Teresino (1981). Mentre in quel primo libro la sezione di apertura intitolata «Conoscendo la madre» evocava il rapporto con la madre biologica incontrata all’età di 19 anni, la raccolta del 2016 registra invece un cambio di focalizzazione ed è dominata dall’espressione dell’affetto per la madre adottiva. Anche il tema della morte con le sue forti radici autobiografiche – la poetessa ha perso il padre adottivo all’età di quattro anni – era già stato sviluppato in precedenza, in particolare nella raccolta dal titolo dickinsoniano Una quieta polvere (Mondadori, 1996) in cui la morte, ricollegata alla complessa storia familiare poiché «La Morte è una Madre che abbandona», si apriva a una riflessione più universale, per non dire metafisica, con l’introduzione, per esempio, del personaggio della «Morte Giardiniera» sempre in agguato. Vale la pena inoltre di rammentare che nella sezione Il giardino dell’aldilà del già citato volume Poesie per un gatto (Mondadori, 2007) la morte di Zarina, la gatta della vicina, dava avvio a una serie di vividi dialoghi tra il soggetto poetico e il gatto Ignazio intorno al tema della morte e del ricordo dei morti. In Madre d’inverno, il tema luttuoso struttura l’intera raccolta: le prime nutrite sezioni sulla morte della madre adottiva diventano il solido e necessario pilastro da cui si dipartono i componimenti successivi, risonanze di quella centrale e definitiva separazione.
La prima sezione Poesie ospedaliere è dedicata al progredire della malattia della madre – Maria Rosa Provera – e all’arrivo della fine. Si tratta forse dei versi più toccanti della raccolta che mescolano immagini ospedaliere fatte di lenzuola, cuscini, infermiere, flebo, con descrizioni di paesaggi invernali, riferimenti al mondo vegetale e animale. Il tormento e l’angoscia vengono talora sospesi da improvvise e semplici gioie – «Dal centro del dolore / mi hai fatto un sorriso / come un sole» (p. 16) – ma anche da comici equivoci «Basta basta dicevi a occhi chiusi / a Myriam. / Basta soffrire? / No! Basta carezze! / Basta carezze sulla fronte!» (p.19). Tra incontri e incomprensioni, addii e riavvicinamenti, arriva il gelo che chiude fatalmente ogni speranza. Basta una telefonata a mandare in frantumi un mondo intero: «Poco prima a casa sentivo / un gelo una Siberia / mi ero fatta un tè. Bollente / mi si era rovesciato sul ventre, / sulla mano, sullo squillo del telefono / già in giro per l’aria» (p. 24).
La seconda sezione intitolata Ritratto con neve mostra come il ricordo della madre scomparsa faccia parte integrante del vivere quotidiano. Il ritratto materno appeso nel salotto e continuamente osservato si modifica infatti con lo scorrere del tempo e delle stagioni: in primavera appare inondato dai riflessi dei fiori del balcone, mentre in autunno vi si proiettano, come una gabbia, sbarre di ferro ormai spoglie. Un dialogo sembra instaurarsi anche tra il ritratto materno e i quadri e le fotografie appese accanto o di fronte, in un gioco di sguardi, che sfocia nel rimpianto: «ti guardano / che li guardi / mentre io guardo te / diventata quadro» (p. 30).
La terza sezione si riferisce a ciò che la madre ormai scomparsa ha lasciato: oggetti da conservare amorevolmente, una casa da svuotare, cose da regalare, beni da vendere. Ma l’eredità oltre che materiale è soprattutto invisibile e spirituale. Nel componimento Compro Oro la poetessa si rivolge direttamente alla madre scusandosi per la vendita di un gioiello con la consapevolezza che «tanto la tua spilla – / ce l’ho infilzata nel petto, mi sanguina, però / ora che l’ho posata qui sulla carta / un poco meno (sai così facciamo noi poeti)» (p. 44). E nella poesia Manna la madre, generosa in vita perché «Da casa tua si usciva sempre tutti / a mani piene», viene ringraziata perché, dopo morta, diventa magnanima fonte di ispirazione poetica: «PS. E ancora mi dai: poesie su poesie / mi piovono dal tuo cielo, manna / di mamma» (p. 54).
A raggiera, a partire da questi versi sulla figura materna, si innestano delle notazioni su altre morti. Non poteva mancare una breve sezione sulla madre naturale scomparsa prima di quella adottiva. In Madre l’altra, il fare distante e deludente della madre biologica accentua per contrasto la tenerezza della seconda e più vera madre alla quale l’io lirico confessa: «ora avevo solo te / (ma anche prima)» (p. 73). La serie Ipotesi sul dimenticare sviluppa invece una riflessione su chi in vecchiaia comincia a dimenticare e dunque a morire entrando in «quel muto / mondo addormentato / dove – forse – nessuno chiama / né è chiamato» (p. 83), un mondo di bambini-vecchini che non sanno parlare, smarriti, simili ai fiori perché «Anche i fiori / del prato non sanno dire prato» (p. 85). Dopo le poesie ‘Dedicate’ a familiari e a poeti, l’ultima sezione Coinquilina poesia mostra il saldo legame tra morte, vita e poesia. La poesia aiuta a vivere e a resistere alla morte, nasce in modo misterioso e non esiste senza i lettori perché «chi mi leggerà poi / se per caso il mio Lettore muore?» (p. 133). Lamarque ribalta infine il titolo della raccolta d’esordio di Patrizia Cavalli, Le mie poesie non cambieranno il mondo (Einaudi, 1974), raccolta aperta da un componimento con cui la poetessa originaria di Todi sottolineava il valore forte della poesia come gioco, come attività estranea alla storia. Lamarque, approfondendo il campo semantico invernale che domina la raccolta, arriva invece alla conclusione che «Invece sì, invece forse sì, / le mie poesie lo cambieranno un poco / il mondo. / […] ma come un nevicare lento lento lento.» (p. 134).
Alla coesione della raccolta contribuisce la capacità della poetessa di rovesciare il tono disarmante e semplice dei suoi versi in un senso tragico dell’esistere. Ma i suoi testi suggeriscono anche al lettore la possibilità di trovare nella poesia un po’ di consolazione alla morte e alla crudeltà della vita. Forse per questo uno degli stilemi stilistici più importanti della scrittura della Lamarque, accanto al ricorso alle parentesi, è il frequente uso del punto di domanda: spia di una predilezione per lo stile parlato e dunque di una forte tensione comunicativa, segno di un dialogo tra voci diverse, spesso attraversato da impennate di stupore, ma anche, soprattutto quanto è usato a fine componimento, constatazione dell’impossibilità di spiegare il vivere e le sue ferite, o ancora possibilità aperta di guardare e sentire il mondo in modo diverso, «in punta di vita» (p. 127).

(Ambra Zorat)

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