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ANDREA RAOS, Le avventure dell’Allegro Leprotto e altre storie inospitali, Osimo (AN), Arcipelago itaca edizioni, 2017, pp. 156, € 15,00.

 

Uno dei dati immediatamente visi­bili dell’ultimo libro di poesia di Andrea Raos è la propensione della sua scrittu­ra a stabilire un rapporto imprescindibile con l’ordine dell’accadimento. Nell’in­troduzione in versi al capitolo iniziale della raccolta, intitolato In un battito spiega le ali, l’autore spiega: «Il primo capitolo, questo, è uno spazio esposto / alla trasformazione: il suo titolo espri­me l’apertura al possibile». E ancora: «Il mio obiettivo è che da qui qualcosa riesca / in un battito a spiegare le ali; /e che questo volo invisibile / apra la via per ciò che verrà dopo». Come si vede, la vocazione evenemenziale sem­bra declinarsi, qui, secondo una mo­dalità specifica: l’idea del testo come apertura, slancio, gesto che si affaccia verso il non conosciuto, verso lo spazio del possibile; o ancor meglio: la parola come impulso che intende provocare, che fa accadere ed assieme si espone (come qualsiasi azione si dia nel presen­te) a ciò che ancora non è.

A questa propensione, che costitu­isce una dominante dell’intera raccol­ta, se ne oppone però una di segno apparentemente opposto. Ne risulta una duplicità che comincia a delinear­si già dal primo capitolo, con le poe­sie giapponesi di Yoshitsune. Si tratta di poesie che Raos ha studiato nella sua tesi di dottorato, e che ripropo­ne qui tradotte, riservando loro quasi l’intero spazio del capitolo. Yoshitsune le ha scritte secondo la modalità com­positiva dello honkadori, termine che significa – spiega Raos – «ripresa di una poesia appartenente al canone». I componimenti dialogano, dunque, con dei testi classici di cui rappresentano le variazioni. Non solo: l’autore giappo­nese organizza poi la sequenza delle sue riprese in modo da suggerire una storia (la vicenda sentimentale di due amanti), una «narrazione per isole flut­tuanti / in cui si alternano pieni e vuoti». Bisogna infine considerare che tutte le poesie erano già state scritte in prece­denza dal loro autore: ripresentandole, quindi, egli racconta anche la propria storia, e la sequenza dei suoi testi di­viene anche «autografia», «antologia di sé». Tre livelli, dunque, su ognuno dei quali si attiva una dialettica specifica, quella fra l’ora scritturale e la dimensio­ne del passato: «Le poesie e le parole sono isole», suggerisce Raos. Il bianco che le circonda è innanzitutto lo spazio vuoto entro cui si costruiscono le ipo­tesi e le interpretazioni del lettore sulla storia dei due amanti («tra questi due attimi sta al lettore immaginare cosa accade»). Da un lato, dunque, il testo-isola, visto come impulso, come ciò che accadendo fa accadere, poiché genera connessioni, rapporti di senso che si costruiscono, al momento della lettura, nel mare bianco degli intervalli. Dall’altra il passato, il racconto, di una storia accaduta ed insieme della storia dell’autore attraverso la sua scrittura (l’autografo). Così come, su un altro piano, da una parte ci sono i testi de­positati nel canone, dall’altro l’adesso delle variazioni che li riattiva. Si an­nuncia insomma qui, la dinamica che pare innervare l’intero libro di Raos: il binomio tra il farsi, al presente, della scrittura – la sua energia di flusso che travolge il lettore senza direzione pre­stabilita apparente – e il racconto del già accaduto, lo sguardo retrospettivo, la storia di un mutamento.

I setti capitoli del libro sono aggre­gati attorno ad un tema maggiore, così descritto da Raos : « […] il ridiventare un umano / dopo essere a lungo stato un animale». Per niente semplice co­gliere le manifestazioni del tema così annunciato. Esistono tuttavia delle tracce: prima fra tutte la presenza di un animale, il leprotto, sorta di figura di mediazione dell’autore. Ogni capi­tolo è introdotto da un episodio che lo vede protagonista, a tratteggiare ironicamente una favola, in cui l’ire­nismo fiabesco si rovescia spesso nell’espressione della disillusione, della caduta dall’incanto (a partire dalla sua prima apparizione, quando il leprotto decide di scoprire «com’è fatto il cie­lo» scoprendo che «dietro» la sua volta «C’erano solo il freddo e il niente»). E non è forse un caso che nell’ultimo ca­pitolo il leprotto scompaia, e Raos lasci spazio ad una rievocazione esplicita­mente autobiografica. In ogni caso, se un processo di mutazione può essere individuato, questo non si dà certo nel­la forma del racconto inteso nella sua accezione ordinaria. E non solo per la natura esplosa ed antilineare del libro, ma perché all’idea della narrazione come riproposizione del concluso, si oppone, appunto, la forza sprigionan­te del linguaggio. Si guardi ad esempio alle sequenze in prosa che occupano i capitoli tre e quattro. Nella prima, un impianto narrativo riconoscibile dà conto di un fatto biografico (la visita del personaggio narrante all’ospedale). Ben presto la scena diventa scena del linguaggio ed assieme della deriva ana­logica del narratore: «Sputo finalmente ed è bagnato e doloroso come se pian­gessi dalla bocca. Cola al suolo una palla vischiosa […] con al suo centro un centro minuscolo nero di buio, buio di niente, cavo di nero. Chino lo sguar­do in avanti incastonato nello sputo // Lo guardo e si allarga a trasformarsi in giada nera. // lo guardo ancora e di­venta un masso di pietra pomice liscia­ta dal fuoco // Continuo a guardarlo è l’ambulanza di fronte, la porta a vetri e il banco informazioni..». La forza di trazione del racconto non è più la co­erenza rappresentativa, ma una sor­ta di processo anamorfico in farsi, lo slittamento fino alla con-fusione delle identità delle cose, dove protagonisti diventano forme e colori vicini all’astra­zione. Da notare, di passaggio, come sia il sovrapporsi delle identità, sia la volontà di nominare il colore e la ma­teria del percepito, rappresentino due motivi costanti del libro.

La dialettica accennata sopra si fa ancora più evidente nelle pagine de La ruota dentata, ripresa dell’omonomo racconto lungo di Rȳunosuke, di cui Raos ricalca l’onirismo della narrazione. Il racconto si costituisce come una se­quenza di incontri, di apparizioni, fan­tasmi, che convocano riferimenti alla realtà biografica dell’autore, alla cultura pop, alla tradizione letteraria italiana: accadimenti successivi, che sorgono imprevisti allo sguardo del personaggio, e, con lui, del lettore. Anziché configu­rare il racconto il narratore è assediato dagli individui e le forme che lo abitano, esposto a ciò che la lingua, di volta in volta, schiude: «così sono guardato / mai guarito dalle cose» conclude una delle poesie del sesto capitolo, Come mai, dove appaiono quasi esclusiva­mente poesie in versi. Ed è interessante notare come in quelle di maggiore tra­sparenza semantica, torni a livello te­matico il riferimento al presente come continua disposizione al non prevedibile («Vado a dormire forse torno domani / se ritorna domani»), l’idea dell’esisten­za come esposizione a ciò che muta incessantemente («…e vedo / che le cose accadono / e non sono mai le stesse»). Altre poesie sono composte secondo modalità di disaggregazione del linguaggio tendenti a quella forma installativa propria alla recente poesia di ricerca. Si accampano, così, nella pagina singoli termini isolati, come si volesse abolire l’espressione dei nessi logici fra le parole, oppure sintagmi più estesi. Altrove, accanto a più spiazzanti forzature morfosintattiche (ad esempio: «avevi annienta»), è il singolo verso a presentarsi come stralcio, estrapolato da un prima ed un dopo testuali scom­parsi («apertamente come non so sce­gliere / nel cielovuotoveleno»). Forte è la tentazione di applicare l’immagine dell’isola, utilizzata da Raos per i com­ponimenti giapponesi, agli elementi lin­guistici di queste poesie: parole come isole, fra le quali chi legge è indotto a gettare ponti, a rispondere all’interpel­lazione del senso.

 

(Giovanni Solinas)


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