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ANDREA INGLESE, La grande anitra, postfazione di Cecilia Bello Minciacchi, Salerno-Milano, Oèdipus, 2014, pp. 141, € 11,00.


Dei tre tempi del libro, è l’invenzione geniale del primo che, oltre a dare il titolo all’insieme, pone le regole per la lettura di tutto il meccanismo, una sorta di giuoco dell’anitra, se pensiamo al sanguinetiano giuoco dell’oca, e che di sanguinetiano porta l’impronta forte dell’autore come grande burattinaio del caos. Il poeta/ narratore, perché proprio di questa istituzione letteraria si tratta, si trova all’interno di una grande anatra cotta, luogo ad alto potenziale simbolico e accompagnato da due altri personaggi: «Siamo dentro un’anatra cotta / come Giona nel ventre della balena ma è un’anitra cotta / io Minnie e il guardiano notturno». È il cronotopo di tutta la prima parte, intitolata e firmata: «Le mie meditazioni di A. I.». La consistenza e le possibili simbologie dell’anatra si svelano per gradi ma con precisione. Disossata da una mano invisibile, l’anatra rappresenta una possibile utopia («da millenni non pensavo più all’innocenza / qui le istituzioni sono pochissime / a tutte le ore mi posso masturbare volendo»), da subito però imperfetta dato che, come sottolinea Bello Minciacchi nel ‘racconto critico’ che accompagna il testo, non vi sono azzerate le differenze sociali: «Il guardiano notturno è di origine popolare / io sono di origine borghese […] ogni volta che lo incontro cerco di capire / se siamo in un punto qualsiasi della lotta di classe // quanto riuscirà a guadagnare lo stronzo? / sono sicuro che nell’anitrone lo pagano bene». La figura femminile è termine medio e oggetto delle mire sessuali dei due: «Minnie ci gira intorno quatta come una gatta svogliata / nel suo caso direi: razza giamaicana livello educativo piccolo-borghese». Ben presto plana il dubbio che il luogo celi una fregatura: «non sarà invece anche l’anitrone / il solito dispositivo globalizzato?». Il dubbio è legittimo, dato che mentre fioccano le interpretazioni sulla sua natura («Qui nell’anitra / è venuto meno il senso», «Big Duck non è Big Duck», è un’«astronave aliena biomorfa», «una metafora importante / di qualcosa che ignoriamo» etc.), piove nella storia il misterioso Gordon, una sorta di manager tagliateste: «è l’uomo medio d’élite / è un rappresentante del capitale umano», «Gordon dice che l’anitra è la chiesa-azienda molecolare / che in essa realizziamo / l’Esclusivo Progetto Umano Spirituale / che tutto avviene attraverso il rischio / che noi siamo il nostro primo denaro / e su questo denaro si costruisce / la nostra chiaroveggenza». Il ‘fuori’ preme definitivamente sul dentro dell’«anitra-metropoli, favela, eldorado». Il discorso di Gordon (il cui nome, se rinvia al Flash Gordon eroe ‘buono’, ha qui il sapore del tradimento) ci precipita in una dimensione utopico/distopica tipica del cinema di fantascienza, genere pure evocato dall’autore quando considera i suoi ‘personaggi’ rimpiccioliti, alla Asimov, nel corpo dell’anitra (sempre che non sia questa che si è allargata a dismisura come continente Anàtide), o quando li sovrappone agli attori della riduzione hollywoodiana di cartone e paccottiglia di un classico come il Viaggio al centro della terra. Il film, evocato nei dettagli della sceneggiatura, assume a sua volta il ruolo epico di un classico («siamo alle meditazioni metafisiche / in forma popolare, cinematografica »), con mossa dunque apertamente post-moderna. Di fantasmagoria post-moderna possiamo peraltro parlare anche per i testi dove si montano insieme la Fairy Queen di Purcell, la ‘video-opera’ Cremaster 5 di Matthew Barney (con Ursula Andress), il mago Houdini secondo le fattezze cinematografiche di Tony Curtis, o ancora per l’infilata «& Baba Vanga & Govinda & Jeff Skilling di Enron» che presiede a una visione da incubo alla Giuseppe Genna: «è qui che il male esorbita / si lascia completamente devastare / si porge interamente corpo e spirito / si è motore e produzione / si fanno utili pezzi / nel malessere perfettamente conclamato / cercando di essere più addentro più morti / in stato di morte produttiva / una potente prima macchina / per devastare oltre la propria / ogni altrui vita». Il disturbo post-moderno appare dunque come qualcosa di più che una tecnica narrativa: esprime una diagnosi con una causa ben precisa, il capitalismo (ed è suggestivo l’accostamento fatto da Bello Minciacchi del discorso di Gordon con il benjaminiano Capitalismo come religione). Il capitale stesso si staglia su tutto con l’evidenza figurale di un’allegoria, figura questa invece di sostanza modernista, come l’Usura nel Pound di Sanguineti e, in prossimità della formazione milanese di Inglese, pensiamo all’epopea della Forbice (tra chi ha ricchezze e potere e chi non le ha) di Giancarlo Majorino.
Alla ‘scrittura mondo’ delle Meditazioni di A. I., succede la scrittura frozen di «Le mie visioni di Minnie», galleria di testi/ quadro definiti da una cornice tipografica nera (elemento tematizzato in termini illusionistici: «La cornice di forma goticofantastica è di color bronzo, lumeggiata d’oro»). È il trionfo dello sguardo senza soggetto, un’ekphrasis cumulativa (quanto Inglese sia legato al procedimento lo ha mostrato in Commiato da Andromeda, valigerosse, 2011) dove si stipano oggetti degni di Wunderkammern barocche con condimento di imprese latine, per comporre vere e proprie allegorie visive: «Il Marchese di Villacerf, a gambe nude, polpacci quasi interamente immersi, che ride. L’Eresia, giovinetta, che tiene sollevati tra pollice e indice i suoi orecchini a pendaglio, d’oro bianco. L’Europa, alta su tacchi a lama di coltello, donna matura e maestosa, contempla con piacere un oggetto che le promette riposo». Lo sguardo, insomma, è di per sé potenzialmente desiderante e per questo in grado di dare trasparenza estetica agli oggetti rappresentati, dalla decadente, soddisfatta Europa nel boudoir, all’ ‘argentato’ in alta definizione (come in una foto di Salgado) dove vediamo: «L’insegna del National Industrial Conference Board. Sedici monoblocchi prefabbricati. Transenne, sentieri sterrati, cumuli d’immondizia. Sipari di abeti. Gruppo umano di torbiera, con lavoratori nomadi: turkmeni, karakalpachi, uzbechi, kazachi, persiani, curdi, belugi e altri senza provenienza e destinazione». L’allegoria suprema è dunque la stessa del discorso di Gordon anche se riposa qui in una composizione floreale: «Ai quattro angoli quattro simboli. Il primo per l’inverno è un fiore chiamato Foraneve, con questo motto: NIL FLORERE VETAT. Questo fiore cresce in mezzo alla neve nonostante i rigori dell’inverno: esso può dirsi della gloria dello Sviluppo Economico».
L’ultima sezione, «Le mie poesie di Guardiano notturno» è composta da venti testi tutti introdotti da una didascalia ‘interna’ che recita: «In questa poesia» («In questa poesia / il mondo non è così come appare», «In questa poesia / per salire sulla magnolia servono bambini» etc.). Proletario di origine, il Guardiano notturno, è quasi un poeta lirico anche se dice ‘io’ con parsimonia. Domina invece una pura école du regard, la contabilità di quello che c’è e non c’è («manca la musica dei rami / mancano le orbite dei dodecaedri / manca la forza gravitazionale all’interno delle catapulte»); ha la fame di mordere in un mondo naturale e sociale questa volta più simile al vero, senza interdirsi di far scendere a volte anche la lama del giudizio (a proposito dei rapporti tra i sessi: «hanno appreso questo equilibrio / la statica l’ingegneria dell’infelicità»). Sono poesie di pura energia cumulativa che resuscitano la forma della prima fase della poesia di Inglese riassumibile come la forma testuale di saturazione realizzata da Inglese negli Inventari (Zona, 2011). Nemmeno in quest’ultimo caso siamo però usciti dall’anitra. Le tre stazioni del libro non sono infatti le tappe di un viaggio oltremondano con un’uscita finale (anche se il Guardiano evoca alla fine la visione di un «continente spettrale»). Si tratta semmai di una favola beckettiana, una trilogia il cui spazio globale, l’anatra, è il luogo vuoto dell’Innommable dove il narratore, l’affabulante servitore della necessità universale del discorso, vede passare in orbite concentriche attorno a sé e con la regolarità di sagome meccaniche, i personaggi delle altre parti della trilogia (come qui viene il sospetto al narratore che i compagni di viaggio siano figure impagliate e che «hanno messo / a tutti un motorino silenzioso»). Anche qui ‘è necessario che il discorso si faccia’ e si tratta di un discorso che è dotato di una connotazione stilistica forte, garante, quasi, della quota di partecipazione del soggetto per entrare nell’opera. Del resto, dalla caverna platonica dell’anitra emerge forte proprio l’io autoriale, l’istituzione più malmenata ogni volta che la poesia contemporanea tenta di trovare un’uscita dal Novecento. Proprio «il rimando al Cartesio delle Meditazioni metafisiche», quasi esplicito nel titolo della prima parte, suggerisce a Bello Minciacchi che «per via cartesiana, dall’esplorazione di quest’anatra ben cucinata emerge in primo luogo il senso cartesiano dell’io penso, del cogito, sterzata brillante, soluzione efficace alla collocazione/presenza dell’io all’interno del testo letterario, questione dibattuta ancora oggi». Avremmo insomma a che fare, si può aggiungere, con un recupero di Cartesio da accostare a quello recente di Durs Grünbein che in Il tuffatore cartesiano. Tre meditazioni (2008) elegge il ‘pensiero poetico’ a guida per esplorare le caverne del pensiero psichico che percorrono i corpi stessi degli uomini. C’è da credere che il ‘ritorno a Cartesio’ possa aprire la strada a qualcosa di più che alla riconsiderazione per via poetica della relazione tra anima e corpo: a una possibile teoria degli affetti e delle passioni. Resta quanto fortemente questo io sia qui radicato nella sociologia dell’anatra. L’origine borghese del personaggio A. I. ne delinea a tutto tondo lo statuto di intellettuale la cui funzione produttiva di discorso è oramai fuori sincronia rispetto all’elaborazione generale dei discorsi contemporanei. Ne risulta quel ‘blaterare sagacemente’ un po’ sanguinetiano (ma per Sanguineti lo strappo non è ancora definitivo) a cui è condannato l’intellettuale ormai allontanato da ogni tipo di funzione produttiva, ‘blaterare’ così definito dallo stesso Inglese a proposito della poesia di Vincenzo Ostuni (postfazione a Faldone zero venti, Roma, 2012) e a cui ha dato voce nei monologhi in versi delle sue Lettere alla reinserzione culturale del disoccupato (Italic-Pequod, 2013). La preoccupazione dell’impossibile reinserimento è peraltro sempre presente anche all’interno dell’anitra: «la missione là fuori / è sempre stata l’inserimento / ’chiama-fatti chiamare-chiama-fatti chiamare-chiama…’». Ma è un blaterare, lo sottolineiamo ancora, che, oltre l’analisi affilata, punta molto sulla bellezza del discorso poetico. Basti ricordare da ultimo la variazione lucreziana (il poeta materialista per eccellenza: Inglese ha partecipato al progetto di traduzione collettiva del De rerum natura su cui vedi F. Stella in «Semicerchio» 50-1, 2014): «perché il colore che meglio si diffonde / è l’oro non in lingotti la polvere / d’oro la nube dorata e bisogna / averci il vino e la brocca / agitarli con movimenti semplici / un via vai della mano calma / sull’impugnatura le molecole del vino / che viaggiano in correnti circolari / senza diffusioni entropiche sui bordi». L’illusione creata dalla lingua che la luce dell’oro valga più dei lingotti non copre comunque mai la domanda non fatta: quando l’anatra cotta verrà mangiata cosa sarà dei suoi provvisori abitanti? Saranno, saremo tutti mangiati.

(Fabio Zinelli)

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