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VALERIO MAGRELLI, Il sangue amaro, Torino, Einaudi, 2014, pp. 149, € 13,00.


È ripartita in dodici sezioni l’ultima raccolta poetica di Valerio Magrelli, dodici come i mesi di un anno e come i fogli di un calendario; e questa analogia fondamentale pare confermata dalla presenza, in sesta posizione, di un gruppo di testi esplicitamente modellati nella forma dell’almanacco, mese per mese, intitolato Annopenanno. Questa epigrafe – con uno dei numerosi bisticci e giochi di parole presenti nell’opera – precisa ulteriormente il senso del libro, retto in buona parte da una meditazione sul tempo attraversata dalla schisi tra andamento ciclico e traiettoria rettilinea, e ne espone inoltre una delle cifre patiche più importanti: quella ‘pena’, disposta sull’arco che va dal dolore al furore, legata all’osservazione del tempo e, in misura non minore, dei suoi abitatori. È un acre e definitivo disgusto per la vita il sentimento primario espresso dal Sangue amaro, una rabbiosa invettiva, con poche attenuazioni, che assume movenze quasi gnostiche nel giudicare malvagia e tarata l’esistenza terrena (ad esempio in Babbo Natale gnostico), e convoca addirittura il profeta Geremia per dolersi degli orrori e delle vergogne cui l’ingresso nel mondo costringe ad assistere (in Natale delle Ceneri). È chiaro allora che la negazione investe sì l’esistenza biologica dell’individuo in quanto tale, ma anche, insieme, la conformazione della scena storico-politica: è personale, e insieme collettiva. E se nel Sangue Amaro, la breve poesia eponima, può risuonare con chiarezza il Mauvais sang rimbaudiano (prima prosa di Une saison en enfer), ciò avviene solo a patto di riconoscere preventivamente impossibile, illusoria, ogni alterità dal mondo tanto esecrato. Né «negro» né «bestia» in fuga, Magrelli, come si dichiarava con sprezzante orgoglio Rimbaud; e il Sangue Amaro, prendendo idealmente luogo tra Negroamaro e Sangue di Giuda, può essere soltanto meticolosamente imbottigliato sul posto: «C’è chi fa il pane. / Io faccio Sangue Amaro. / C’è chi fa profilati d’alluminio. / Io faccio Sangue Amaro. / C’è chi fa progetti per lo sviluppo aziendale. / Io faccio Sangue Amaro. / Io mi faccio il Sangue Amaro. / È una specialità della casa, sin dal lontano 1957». Rifugio definitivo dal mondo non può che essere la morte; e rifugio momentaneo, l’ambito del privato, se non addirittura del domestico, soggetto peraltro alle effrazioni più diverse, e temute.
A una prima lettura ciò che emerge con più forza dalle pagine è proprio questo tenore emotivo, prima ancora di un ben delineato volto o territorio testuale da cartografare con gli strumenti della critica. Nessuna raccolta di Magrelli era stata infatti così varia fino a ora, ed è evidente lo sforzo dell’autore nello studiare un ordinamento nuovo per materiali usciti precedentemente, in un’alta percentuale di casi, su giornali e riviste. La dettagliata nota al testo dà conto peraltro di tutti i luoghi di provenienza, che comprendono anche plaquettes (è il caso del già citato Annopenanno, uscito da Empiria nel 2012 come calendario per il 2013, e dell’ ‘ipertesto’ La lettura è crudele, testo di 11 versi ciascuno dei quali dà origine a una poesia che lo espande e lo spiega, per un totale di dodici testi, già pubblicato dalle Edizioni d’if nel 2008), poesia per musica o piuttosto per spettacolo/installazione (come la terza serie del libro, La lezione del fiume); e il fatto che Magrelli metta in bella mostra la natura composita del suo libro, e precisamente il suo originarsi, in misura importante, da ‘occasioni’ pubbliche, di natura vuoi politico-culturale vuoi più strettamente artistica, non è affatto privo d’importanza. Nell’ultima poesia della quinta sezione (Cave!), intitolata, con un raddoppiamento paronomastico e pressoché parodistico ma ben provvisto di senso, Cave cavie!, Magrelli formula una metafora credo decisiva per le sue costruzioni in versi, definendole appunto «cavie […] per qualche esperimento concepite », e «topolini vivissimi» – continuando – «allarmati / da che?». Nella messa a frutto del repertorio linguistico clinicosperimentale che gli è propria da molto tempo, l’autore afferma chiaramente di destinare i suoi testi, uno per uno, e diversi caso per caso, all’experimentum mundi; a confrontarsi il meno indirettamente possibile con i molti veleni e i rari momenti pacificati della realtà.
Bisogna osservare a questo punto che Il sangue amaro accentua una tendenza in opera nella poesia di Magrelli, insieme sui livelli formale e tematico, almeno a partire da Didascalie per la lettura di un giornale, del 1999, e certo non senza rapporti con l’apertura alla prosa avviata già negli Esercizi di tiptologia e poi consolidata nel quartetto di libri in prosa che comprende Nel condominio di carne, La vicevita, Addio al calcio e Geologia di un padre, usciti nel decennio 2003-2013. Se la prosa è diventata lo spazio di espansione di un discorso sempre più idiosincratico sui confini tra corpo proprio e improprio e sulla questione dell’eredità familiare e genetica, che solo attraversando questa regione ultrapersonale può affacciarsi sulla scena storica e sociale, la poesia si è fatta sempre più disponibile, certo anche per una tensione etico-civica molto manifesta in Magrelli a partire dagli anni Novanta, ad aprirsi al mondo e a parlare ‘direttamente’ (come in Italia pochi altri poeti fanno) di avvenimenti della scena politica e sociale contemporanea, legandoli dialetticamente ad altri più privati. Questo rapporto può condurci a interpretare una netta differenziazione metrico-stilistica ben visibile all’interno della raccolta. Le dodici sezioni alternano in maniera non rigida i due caratteri appena ricordati, quello pubblico e politico e quello privato, più libero, agganciando entrambi, nella maggior parte dei casi, a un io poetante e ragionante che è tra le cifre più riconoscibili della scrittura magrelliana. I testi della prima sfera sono, con molta evidenza, anche quelli formalmente più chiusi, vincolati: è in quest’area che Magrelli concentra, per esempio, i sonetti, con diverse varianti; è qui che si vede il lavoro più intenso sulle rime, sia al centro che alla fine del verso, accompagnato dall’uso frequente di misure metriche doppie (specialmente il doppio settenario); ed è ancora qui che si registra la più alta concentrazione di calembour, paronomasie, altri stratagemmi retorico-figurali come l’acrostico, nella sdegnata poesia sui funerali di stato accordati a Mike Bongiorno e negati a Sanguineti (in questo caso l’acrostico – che restituisce il nome del noto uomo di tv – è forse omaggio formale proprio a Sanguineti, che così tanti ne ha inseriti nelle sue poesie). Un esempio molto estremo è la poesia in tre quartine Welcome, nella sezione «Otto volte Natale», in doppi settenari con quattro parole-rima per verso, le prime due quartine a fungere da stanze e la terza da congedo con un meccanismo analogo alla retrogradazione incrociata. Si direbbe che più Magrelli si confronta con uno scenario di corpi e anime plastificati, dove ogni forma di pensiero critico è stata dismessa in favore dell’adorazione di denaro e spettacolo, più sente il bisogno di indurire la fibra del suo dettato: allora metrica e stile sono i tondini di ferro che armano il cemento del testo, per dargli un impatto, anche sonoro e memoriale, più violento. Molto meno parossistico, e mantenuto a un alto livello di decoro formale, è l’impasto metrico e sintattico dell’altro versante della raccolta: di base il verso è mantenuto nei pressi dell’endecasillabo, ma non mancano escursioni anche notevoli verso il basso e verso l’alto; la sintassi si attesta generalmente su un grado medio di complessità e serve senza strappi un registro ragionativo-descrittivo. In questi casi, quando la poesia si distanzia un po’ dalla sua antimateria, con la quale pure aveva sentito il bisogno di misurarsi, il dettato si distende anche nei testi più dolorosi e accorati. Niente di più lontano, tuttavia, di un’opposizione frontale tra intimo e estraneo e tra poetico e antipoetico. Ricorre con frequenza nelle pagine di questo Magrelli un’immagine, quella del circuito – della stessa famiglia dell’anello, lo «strange loop» come lo chiama il Douglas Hofstaedter citato in un esergo – che regge l’andamento calendariale, che aiuta a comprendere il rapporto tra i poli messi in tensione dalla psicomachia del libro. La poesia finale, Sul circuito sanguigno, è a tal proposito molto chiara: «È come nel sistema circolatorio: / il sangue è sempre lo stesso, / ma prima va, poi viene. // Noi lo chiamiamo odio, ma è solo sofferenza, / la vena che riporta / il dono delle arterie alla partenza». Se esplicitiamo il primo termine di paragone, qui taciuto, postulando che sia il rapporto tra il soggetto e il suo altro, su varie scale, e portando così alla luce un criterio di proporzionalità e transitività molto caro al metaforismo di Magrelli (il soggetto si rapporta al mondo così come il sangue circola nel corpo biologico del soggetto), allora ogni semplicistico dualismo svanisce.
Resta da capire che cosa, in questa metafora prolungata, svolga la funzione del cuore, il propulsore del sangue. Qual è dunque il nucleo più intimo, e il primo motore, dell’esperienza? Anche in questo caso la risposta è nei versi, precisamente in quelli della poesia più bella dell’intero libro, Raccoglimento (ancora nell’ultima sezione), la cui lettura costringe a reinterpretare l’idea che regge l’opera, quel disgusto di sé e della vita di cui si è già parlato. Raccoglimento, che riscrive il baudelairiano Recueillement, contaminandolo con l’A se stesso leopardiano (e così con un intero genere di poesia, l’invocazione al proprio cuore, che risale almeno alla Grecia antica), ci insegna che il motore è proprio la ferita, il difetto, la tara fondamentale del corpo e dello spirito, che solo secondo un’idea infantilmente gnostica potrebbe essere separabile dalla scintilla di luce della ‘vera anima’. Alla radice dell’io non c’è alcun nucleo di identità sostanziale, ma solo quell’orribile incrinatura da cui pure dipende ogni bene possibile: «e in questo Grande Sfascio, l’unica cosa intatta resti tu / mia ferita, mio Graal, codice a barre / di un estraneo che è leso, che è fallato, / costretto a essere me. / Mia debolezza, talpa del nemico, / creaturina indifesa che mi rendi indifeso, / il solo, vero premio della morte / sarà saperti morta insieme a me, / mio motore, / mio orrore, / mia consustanziale sconfitta».

(Federico Francucci)

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