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VERA LÚCIA DE OLIVEIRA, A chuva nos ruídos,São Paulo, Escrituras 2004, pp. 160, s.i.p.

Come scrive Luciana Stegagno Picchio, citata in quest’antologia poetica di Vera Lúcia de Oliveira, «i poeti lacerati dalle parole e dalla non appartenenza, in termini concreti, ad un luogo specifico, sono a volte i più grandi ed i più intensi: precisamente perché sanno innalzarsi al di sopra delle tradizioni e delle convenzioni e attingere al cielo puro e astratto dell’universalità». Il commento della critica italiana veste con esattezza il percorso poetico di questa poetessa brasiliana radicata da più di vent’anni in Italia, e che, come lei stessa osserva in coda al libro, scrive attualmente in due lingue, risultato raggiunto non solamente grazie ad una scelta estetica quanto piuttosto grazie ad un’imposizione esistenziale.

L’antologia, che seleziona unicamente poesie scritte in portoghese, rappresenta un importante contrappunto alle pubblicazioni realizzate in Italia, dove Vera Lúcia de Oliveira è anche nota per il suo lavoro di traduttrice e di professoressa universitaria. Il libro presenta al pubblico brasiliano l’interessante percorso poetico della poetessa, attraversato, sin dall’inizio, da una ferita muta che continua a far male, perché, come scrive in Pedras, «digerisco versi che non sono parole / sono pietre» (p. 117). La sua voce, «propensa ai tagli» (p. 86) si chiede «quale buco nero inghiottisce / tutto?», e afferma che «marcire in un altro paese / è un dolore che giammai soddisfa» (p. 111), come a indicare che una delle radici del dolore è esattamente la scissione alla quale si riferiva Stegagno Picchio.

Esiste, tuttavia, un dolore anteriore all’esilio, un dolore che è impronta esistenziale, e che si paragona a quello di un torturato: «il corpo di un torturato / scava attraverso i secoli / la sua intensità di dolore e morte» (p. 66). Questo dolore esistenziale fiorisce con particolare concretezza nel libro Tempo de doer, dove prende corpo e riempie la casa, le camere, il tempo. È significativa, a questo proposito, la poesia Casa abandonada (p.50), in cui l’io poetico appare come passivo spettatore del passaggio del tempo: «muta / come il dolore incollato alla lingua muta / come in membri paralitici / incollata l’/ oppressione / come la pazzia / la malattia / alle porte che non seminano / buchi // muta / e densa come un mattone che ha ingoiato la storia».

Nell’ultimo libro, inedito in portoghese, Pássaros convulsos, questa caratteristica diventa l’elemento distintivo della poesia di Vera Lúcia de Oliveira, una poesia intensa, con le parole a transitare come su un filo spinato, attente per non ferirsi mortalmente. Poesie come Obsessão danno un ottimo esempio della dolorosa processione di parole in agguato: «giro attorno a cose / sbucciando cardi // all’interno il torsolo / si conficca / all’interno la pietra / addensa il suo bastone / il feto / si conficca / l’amore elabora / la sua ossessione» (p. 18). Il dolore, che in raccolte anteriori era forse una circostanza personale, si universalizza, e passa a costituire lo sfondo dell’esistenza. La poesia che dà titolo all’ultima raccolta, Pássaros convulsos (p. 26) è forse uno dei più intensi esempi di questa metafisica del dolore, sottile ed insidiosa, espressa dalle parole scelte con cura da Vera Lúcia de Oliveira: «si scontrano contro i pali / gli uccelli / distillati dalla notte / sidistruggono in voli innaturali // battono contro le ossa / sorde / contro i battenti / che non ascoltano il sangue / scorrere nell’oscurità». Un’antologia, la sua, che viene a riempire il vuoto lasciato dietro sé dalla sua forma di esilio, un vuoto del quale l’autrice si serve, come molti altri poeti «in esilio dentro la lingua», per trasformare il dolore in parola.

Prisca Augustoni


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