« indietro DEREK WALCOTT, The Prodigal, New York, Farrar Straus and Giroux 2004, pp. 105, $ 20.
L’ultimo libro di Derek Walcott, uscito lo scorso ottobre, è il libro di un uomo anziano, che tira le somme sulla vita, cede per l’ultima volta alla tentazione del rimorso e delle occasioni mancate, e suggella il suo testamento con un ritorno a casa: un rinnovato voto di fedeltà alle isole espresso nella consapevolezza che la vera casa del prodigo è l’orizzonte (p. 104), perché il figliol prodigo, in questo caso, è un poeta, e allora è il verso l’orizzonte della sua felicità: «The line is my horizon / I cannot be happier than this» (p. 92). Un verso il cui orizzonte è diventato, sembra per sempre, la cadenza prosastica di una misura lunga e irregolare, che si articola liberamente nelle sezioni dei diciotto capitoli delle tre parti che compongono il volume.
The Prodigal si apre allo stesso modo di Another Life, il primo grande poema autobiografico di Walcott: con la sovrapposizione dell’immagine di un libro aperto a quella del paesaggio, che prende a scorrere, qui, dalla finestra di un treno diretto in Pennsylvania. Apparentemente, è il mondo a passare in successione rapida davanti agli occhi del poeta, ma nella più pura tradizione emersoniana – e prima ancora, in quella dei poeti coloniali americani – le cose diventano immediatamente simboli dello spirito e le scene che Walcott osserva diventano pezzi di vita trascorsa. Perché «l’uomo è un analogista», scriveva Emerson, «e il mondo è un libro aperto di emblemi».
Così la luce del New Jersey è italiana, e le sue case di mattoni rosa investiti dalla penombra del tramonto sembrano Siena (p. 3). Al ritmo di un treno che diventa, immediatamente, metro, Walcott annota un diario di viaggio attraverso l’Europa: la Svizzera, la Spagna, la Germania, Londra, Stoccolma, Parigi, ma soprattutto, l’Italia: Roma, Milano, Genova, Venezia, Parma, Pescara, Amalfi. Il poema è dedicato a Luigi Sampietro, lo studioso che in Italia riconobbe la grandezza della poesia di Walcott prima che questa conquistasse il Nobel, nel 1992, e che è diventato un caro amico; ed è un omaggio all’Italia, alla bellezza delle sue donne, delle sue città, e dei suoi pittori, abilmente condensati, attraverso una galleria di ritratti, in un amore ambiguo e intero, a cui contribuisce anche la comunanza nell’arte poetica (p. 32): «women who contain their cities» (p. 48), «Yet what was adored, / the city or its women? Aren’t they the same... / in the love that has no epoch?» (p. 79).
I temi sono quelli di sempre: il dubbio, sempre in agguato, che la sua forma di ‘pendolarismo’ tra S. Lucia e gli Stati Uniti, e la sua ammirazione per l’arte europea siano stati, in realtà, un tradimento dell’isola (p. 6); il compianto di Brodsky; il tema della luce che si svolge e avvolge, come una grande metafora tentacolare, la sua intera produzione. Ma soprattutto, i temi sono quelli dei libri dell’ultimo decennio, espressi ormai liberamente dal punto di vista corretto, fisiologico, di un uomo di 75 anni: la paura di invecchiare, l’ansia di non aver compiuto un’opera e adempiuto a una vocazione, o agli altri, comuni, doveri di ogni mortale. Il protagonista di The Prodigal si specchia, con la sua solita passione per i giochi di parole e le tessiture sonore che ormai sono diventati un riflesso incondizionato per Walcott, nel suo ospite fiorentino, un vecchio gentiluomo dalle mani punteggiate di macchie e gli occhi acquosi: «Diabetic, dying, my double» (p. 17). È un uomo che «contiene molte assenze», ha perso molte donne, e ha dei rimpianti, come quello di non aver avuto tempo di innamorarsi di Firenze (p. 4).
La metafora del viaggio in treno, allora, rilascia la sua connotazione elegiaca: se c’è una «dolce meditazione, in un treno / perfino su certi dolori» (p. 4), la meditazione di Walcott sulla sua vita commuove in questo libro per l’urgenza della sua prospettiva finale, che ci comunica l’intensità, in se stessa dolorosa, del senso della sua ricchezza, che mescola perdite e conquiste in un sentimento solo di sovrabbondanza, e di riconoscenza per quella sovrabbondanza. Un uomo che «non ha più nient’altro / di cui scrivere se non la gratitudine» (p. 66); che si autoesorta ad essere felice della salute mentale preservata e riconoscente perché «ogni arte resta difficile da praticare», e che in quello che sarà, dichiaratamente, il suo ultimo libro, vuole porre ogni luogo «come se fosse appena stato fatto, già vecchio, / ma di nuovo nuovo perché appena nominato» (p. 99).
The Prodigal ribadisce la scelta esistenziale di Walcott per mezzo dello stesso espediente metaforico di Tiepolo’s Hound: se là il protagonista si riappropriava delle origini della sua ispirazione attraverso la rivelazione epifanica dell’incontro con un bastardino nero, aborigeno, che sostituiva al bianco levriero, esotico, come simbolo dell’ideale estetico inseguito per tutto il libro, qui l’incontro con dei veri delfini, nel mare che unisce la Martinica a Saint Vincent, fa rompere le acque a una leggenda che rinasce con loro e riempie il cuore di gioia, scacciando dalla mente l’ossessione per i delfini di pietra delle fontane di un’Italia che lo ha divorato (pp. 103-104), «the widening love of Italy growing stronger / against my will with sunlight in Milan...» (p. 26). La pace che all’inizio del libro è immensa e proviene dalla consapevolezza di volersi fermare nel proprio ideale artistico, ormai desueto, inchiodandovi l’arte e la gioia (p. 6), alla fine del libro viene dall’accettazione del commiato, dalla consapevolezza che la luce che si è inseguita per tutta la vita proviene dall’orizzonte del mare: brilla, e guida, dal limitare «di quell’altra sponda» (p. 105).
Paola Loreto
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