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Il passaggio di Enea di Giorgio Caproni Di Maurizio Bettini
In un giorno del 1983, penso che fosse più o meno questa stagione, Lorenzo Greco mi chiese se sarei voluto venire a Livorno per conoscere Giorgio Caproni. Lo aveva invitato presso la Fondazione Franco Antonicelli, di cui era allora direttore – una fondazione molto viva, e molto attiva, in quegli anni. Naturalmente andai, e con una certa emozione. Non ricordo più il contenuto esatto della nostra conversazione. Ricordo però che io avrei ascoltato molto volentieri Caproni mentre parlava di poesia, della sua in particolare, e di letteratura contemporanea. Ma non andò così. Quando Caproni scoprì che ero latinista, si mise infatti a parlare dell’Eneide di Virgilio. Tenne a dirmi, più volte, che conosceva questo poema, e che Virgilio lo interessava molto. Sul momento non potei accorgermene, ma in realtà Caproni, parlando dell’Eneide, mi stava parlando della sua poesia. Mi stava parlando in particolare –- ora mi è chiaro – del suo «Il passaggio di Enea», le tre poesie che concludono la raccolta omonima. E delle quali vorrei adesso discutere brevemente. Le vicende biografiche che hanno portato Caproni alla composizione di queste tre poesie sono abbastanza note. E sono state del resto dettagliatamente chiarite da un ottimo contributo di Franco Contorbia. Tutto è legato all’impressione suscitata in Caproni da un piccolo monumento – sito a Genova in Piazza Bandiera, e opera di Francesco Baratta (1726) – che rappresenta appunto Enea con il vecchio Anchise sulle spalle e il piccolo Ascanio per mano. Caproni è tornato numerose volte su questo suo incontro con Enea (quello del monumento), in vari contributi a giornali e riviste, per sottolineare esplicitamente il carattere simbolico della presenza di Enea – proprio di Enea – in una delle piazze più bombardate d’Italia. Quanto all’arché poetica de «Il passaggio di Enea», Caproni la esplicita invece direttamente nella poesia che lo inaugura, Didascalia (vv. 1-16):
Fu in una casa rossa: la Casa Cantoniera. Mi ci trovai una sera di tenebra, e pareva scossa la mente da un transitare continuo, come il mare.
Sentivo foglie secche, nel buio, scricchiolare. Attraversando le stecche delle persiane, del mare avevano la luminescenza scheletri di luci rare.
Erano lampi erranti d’ammotorati viandanti. Frusciavano in me l’idea che fosse il passaggio di Enea.
Dunque Caproni ode fruscii di macchine, ne vede i fari riflessi sul soffitto, e pensa che lì avanti a lui, presso quel mare che in realtà non c’è, Enea stia consumando il suo «passaggio». Il seguito della lettura chiarisce – se fosse necessario – a quale passaggio di Enea Caproni propriamente si riferisce. Si tratta di quello descritto da Virgilio alla fine del secondo libro dell’Eneide, quando Enea, con Anchise sulle spalle e Ascanio per mano – nella notte ha ormai perduto la moglie Creusa – cerca scampo per sé e per i suoi fuggendo verso la costa che giace sotto il monte Ida: per imbarcarsi da lì sulle navi che lo porteranno lontano da Troia distrutta. Un gruppo di esuli dal cuore straziato, spinti dalla speranza (invero disperata) di chi fugge dalla rovina senza sapere se, per caso, non debba attendersene una peggiore. E comunque, con la certezza che quel dolore non si cancellerà mai più (IV vv. 1-16):
Nel pulsare del sangue del tuo Enea solo nella catastrofe, cui sgalla il piede ossuto la rossa fumea bassa che arrazza il lido – Enea che in spalla un passato che crolla tenta invano di porre in salvo, e al rullo d’un tamburo ch’è uno schianto di mura, per la mano ha ancora così gracile un futuro da non reggersi ritto. Nell’avvampo funebre d’una fuga su una rena che scotta ancora di sangue, che scampo può mai esserti il mare (la falena verde dei fari bianchi) se con lui senti di soprassalto che nel punto, d’estrema solitudine, sei giunto più esatto e incerto dei nostri anni bui?
Ecco dunque il fuggiasco del secondo libro dell’Eneide che – per il tramite del monumento di Piazza Bandiera – si è reincarnato nei versi di Caproni. Nell’Epilogo, la terza poesia che compone la sezione intitolata «Il passaggio di Enea», Virgilio tornerà ancora ad affacciarsi – anche se non si tratta più di Enea, questa volta, ma di Palinuro. La quartina contiene infatti una chiara allusione al timoniere virgiliano. La ripresa era finora sfuggita (per quanto ne so) agli studiosi di Caproni, ed è merito di Alessandro Fo averla individuata e segnalata in un bel contributo che ho avuto la fortuna di leggere ancora inedito. Ma dato che la ripresa virgiliana, come dicevo, non è delle più immediate, sarà opportuno leggere prima il testo di Virgilio. Enea incontra l’ombra di Palinuro nell’Ade, nel sesto libro, e ode il racconto della disgrazia che ha colpito il suo timoniere. Caduto in mare mentre osservava il corso delle stelle, per tre notti Palinuro era stato sballottato dai flutti, finché il quarto giorno scorse davanti a sé la costa italiana. Aveva allora nuotato faticosamente verso la riva, e certo si sarebbe salvato, se genti crudeli non lo avessero sorpreso mentre, con la veste madida d’acqua, si aggrappava disperatamente con le mani alle asperità della riva:
madida cum veste gravatum prensantemque uncis manibus capita aspera montis
Non c’è dubbio che Caproni avesse in mente questo passo virgiliano, basta rileggere l’ultima quartina dell’Epilogo (vv. 23-26):
Avevo raggiunto la rena, ma senza avere più lena. Forse era il peso, nei panni, dell’acqua dei miei anni.
Proprio come quella di Palinuro, anche la veste di Caproni era appesantita dall’acqua, «madida cum veste gravatum», seppure l’acqua che trattiene il poeta moderno è quella – metaforica, ma non meno pesante – degli anni trascorsi. Come nota ancora Alessandro Fo, questi due versi virgiliani erano stati cari anche a Gadda, che li citava come esempio di forza del linguaggio poetico in uno scritto dal titolo Matematica e prosa. Di mio, aggiungerei forse che, dopo l’agnizione di Fo, il lettore de «Il Passaggio di Enea» non potrà più fare a meno di immaginare Palinuro / Caproni mentre raggiunge la sua «rena» procedendo – paradossalmente – in due direzioni contrastanti: dalla terra verso il mare, secondo il versus esplicitamente dichiarato nei versi che precedono questa quartina; ma anche dal mare verso la terra, secondo quello implicito nell’allusione virgiliana. Caproni è un Palinuro naufragato in terra, la sua lena l’ha persa nel disperato tentativo di avvicinarsi al mare, non in quello di uscirne. Ma lasciamo Palinuro per tornare ad Enea. Fra le molte dichiarazioni di Caproni riguardo al suo incontro con la statua di Piazza Bandiera, vorrei soffermarmi in particolare su una. Si tratta di un articolo dal titolo Noi, Enea, apparso ne «La fiera letteraria» del 1949:
«Io ho girato molte città d’Italia, ma Enea non l’ho conosciuto altrove. Perlomeno non ho incontrato l’unico Enea possibile, l’unico Enea veramente vivo nella sua solitudine e nella sua umanità. L’unico Enea insomma che meritava davvero un monumento in mezzo a una piazza, simbolo unico di tutta l’umanità moderna, in questo tempo in cui l’uomo è veramente solo sopra la terra con sulle spalle il peso d’una tradizione ch’egli tenta di sostenere mentre questa non lo sostiene più, e con per mano una speranza ancor troppo piccola e vacillante per potercisi appoggiare e che tuttavia egli deve portare a salvamento».
Enea dunque come simbolo della tragica congiuntura in cui si è venuta a trovare l’umanità moderna. Alle spalle la guerra, il crollo non solo di alcuni regimi politici ma addirittura di un’intera civiltà – quella che non ha saputo prevenire e scongiurare gli orrori che l’Europa ha appena attraversato; di fronte un futuro gracile e incerto, forse ingannevole; quanto allo scenario presente, esso è costituito solo da rovine. Si tratta più o meno della situazione evocata nel testo poetico, in particolare dove si dice:
Enea che in spalla un passato che crolla tenta invano di porre in salvo, e al rullo di un tamburo ch’è uno schianto di mura, per la mano ha ancora così gracile un futuro da non reggersi ritto.
Nel paragrafo in prosa, però, c’è una frase che ci colpisce, anzi, un verbo: «incontrare». «Enea» dice Caproni «non l’ho conosciuto altrove. Perlomeno non ho incontrato l’unico Enea possibile…». Vorrei dunque provare a mostrare che gli anni in cui Caproni scrive queste cose – a cavallo della fine della seconda guerra mondiale – sono per l’appunto gli anni in cui si può incontrare Enea: o per meglio dire, anni in cui ci si guarda esplicitamente intorno per incontrare l’eroe virgiliano. E il fatto che questo incontro con Enea lo si ricercasse non solo in Italia, ma anche in Germania e negli Stati Uniti, e più o meno esattamente negli stessi termini, getta solo un ulteriore fascio di luce sull’importanza della poesia di Caproni. Più o meno nello stesso periodo, infatti, in cui Caproni contemplava la statua di Enea in Piazza Bandiera a Genova, la popolazione tedesca fuggiva in lunghe colonne dalla Prussia orientale, incalzata dalla vittoria russa. Un giovane slesiano, Heinz Piontek, descrisse questo viaggio disperato in una lirica potente, che ha per titolo Die Verstreuten, cioè «I dispersi». Si tratta di un testo poetico la cui forma metrica, che si richiama all’esametro, può indurre l’antipatico sospetto di classicismo. Ma questa impressione si dilegua anche a una prima lettura. Il merito di aver fatto conoscere questa lirica in Italia, e anche, non minore, quello di averla tradotta, va a Marino Barchiesi:
Abbiamo ficcato nei sacchi pane e argento, disserrato [la porta. Quando la notte cominciò a lampeggiare, corremmo [senz’armi alle stalle e via, su strade di topi migranti. Lamiera sventrata e freddo: la terra dei vinti. Si andava a passo d’uomo. Una ragazza partorì fra le ruote del carro. Un cieco incespicava dietro persone di buon cuore aggrappato a una corda, e gridava all’aria: «dove [siamo?» E poi: Dobbiamo aspettare i crocicchi Noi non abbiamo documenti … Non potevamo accendere un fuoco. Non potevamo lasciare la colonna senza permesso.
Commenta Barchiesi: «dietro gli esuli, la loro terra svanisce nel fuoco degli eserciti; davanti a loro, una meta incerta, intorno a loro il caos primordiale, null’altro che tenebre, cenere e angoscia. E il caos è anche dentro di loro». Ma leggiamo ancora Piontek:
Le nostre file si assottigliavano e scorrevano con [ombre sottili; no perdette l’altro. L’oriente, come una saga [fiammeggiante, era annientato dietro gli eserciti. Esso era strazio, e volo di ceneri sulla desolazione, e buio, come una [volta. Ed ecco che, nella chiusa dell’ode, si realizza un incontro inatteso: Ma ci raggiunse uno, che conduceva con sé un ragazzo; [era un uomo robusto, con l’uniforme strinata dai soli d’estate, e portava sulle spalle un vecchio, il debole padre. Allora fu giorno davanti ai nostri occhi, con luce di [foglie di rosa.
Nella Prussia orientale devastata dalla guerra, Piontek ha incontrato Enea, lo stesso Enea che Caproni ha incontrato a Genova. Se qui era un monumento un po’ scolastico, caro un dì alle belle bisagnine che lavavano i loro ortaggi nella fontana, là era invece un reduce tedesco dall’uniforme strinata. Ma non importa, è sempre lui, Enea. Nelle vampe dei bombardamenti, fra rovine e desolazioni, ecco comparire l’uomo col passato sulle spalle e il futuro per mano. Un lampo di luce rosata – Piontek ha letto Omero, oltre che Virgilio – si diffonde sulla colonna dei vinti. Enea, la guida dei dispersi, il profugo capace di immaginare che per sé e per i suoi ci sia ancora una possibilità di vita, è l’icona della speranza.
Speranza dolorosa, naturalmente, come può esserlo una speranza virgiliana. Ma speranza. Rimaniamo nello stesso, drammatico, torno di tempo. Mentre Robert Lowell, un altro poeta ‘virgiliano’ dei più noti, è in prigione in America per aver protestato contro gli inutili bombardamenti che il suo paese ha scaricato sulle stremate città tedesche, Allan Tate – un «man of letters» appassionato lettore di T.S. Eliot – scrive una poesia che ha per noi un titolo molto significativo: Aeneas at Washington. Come viaggia, Enea, in quegli anni! Da Genova alla Prussia orientale, a Washington … La poesia inizia con crudezza:
Con i miei occhi ho veduto, nella follia della strage, Neottolemo, al suo fianco i neri Atridì, Ecuba e le cento figlie, Priamo abbattuto, il suo sangue insozzare i sacri fuochi.
«I myself saw», tutto ciò l’ho visto io, con i miei stessi occhi. Come può sperare di sopravvivere, chi ha visto tutto questo? Ma gli americani forse lo sanno:
Era il tempo in cui la civiltà dominata dai pochi cadde nelle mani dei molti e crollò, fra il clamore degli uomini e il clangore delle armi: afferrai il cibo freddo, alzai il mio vecchio padre sulle spalle, tra il fumo mi diressi per mare verso un nuovo mondo recando in salvo poche cose: un ricordo indistruttibile, se lo è il tempo, un amore di cose passate, sottile come l’esitazione dell’amore che si dilegua
Tate guarda a Troia dall’altro capo del mondo. Visto da Washington, il gesto di Enea che abbandona le rovine fumanti di Troia e porta con sé il padre e il figlio, è quello dell’immigrante, del colono, che fugge dal crollo della sua civiltà animato dalla speranza di «un nuovo mondo». Pur se il seguito della lirica chiarirà come, per Tate, anche il sogno americano abbia in realtà già consumato il proprio fallimento. Ecco dunque due incontri con Enea (altri se ne potrebbero probabilmente aggiungere) da affiancare a quello di Caproni: e tutti nello stesso giro di anni. Enea è veramente un personaggio chiave per comprendere lo spirito, non solo poetico, di quel tragico periodo, è veramente l’eroe che, come ebbe a scrivere ancora Caproni, «simboleggia un po’ il destino della mia generazione». A questo punto, chi ha un po’ di familiarità con la storia degli studi classici non potrà far a meno di pensare che, proprio in quegli anni, anche i filologi professionisti e i critici letterari, non solo i poeti, stavano riscoprendo l’importanza artistica e culturale dell’ Eneide. Nella prima metà del novecento, infatti, specialmente in Inghilterra, Virgilio non era stato troppo ben giudicato dai classicisti. Per usare l’espressione usata da Matthew Arnold, la sua opera era apparsa ‘inadeguata’ a descrivere la civiltà romana al suo apogeo. Quasi che l’Eneide – specie se confrontata con quanto avevano saputo ‘dire’ della Grecia classica i grandi tragici o gli storiografi – non fosse in grado di rappresentare degnamente lo splendore politico e culturale dell’età in cui era stata concepita, quella di Augusto. Dunque non può essere un caso che, nel 1944, T. S. Eliot, nel «Presidential Adress» alla Virgilian Society, dichiarasse invece la assoluta «maturità» dell’opera vigiliana. Inaugurando così una formula critica – il classico come opera «matura», come opera capace sintetizzare per intero il senso di un’epoca – che tanta fortuna era destinata ad avere in seguito soprattutto nel mondo anglosassone e tedesco. Perché questo cambiamento dalla «inadeguatezza» alla «maturità»? Perché l’Eneide, che solo pochi decenni prima Arnold aveva ritenuto impari a rappresentare degnamente il proprio tempo, adesso diveniva un caposaldo della pienezza e della maturità? Il fatto è che l’Eneide appariva ora improvvisamente, persino drammaticamente, adeguata a descrivere la congiuntura in cui si trovava la civiltà europea contemporanea. Incapace di descrivere la Roma di Augusto, Virgilio si dimostrava capace di descrivere noi. La pietà per i vinti, il disagio dei vincitori, l’orrore per la morte e per la desolazione, il senso di nausea che nasce di fronte alla caduta di Lauso, Pallante, Eurialo, Niso – i giovani coperti di sangue – tutto questo faceva dell’Eneide un poema assolutamente ‘postbellico’. Un poema che, proprio nella sua interna frantumazione ideologica e poetica, era l’unico capace di rispecchiare un mondo oggettivamente in frantumi. L’affacciarsi di Enea, con Anchise sulle spalle e Ascanio per mano – l’Enea incontrato contemporaneamente da Caproni, da Piontek e da Tate – si rivelava un incontro capitale per tutta la generazione a cavallo della guerra. I grandi testi sono tali proprio perché servono non solo a riassumere il passato, ma anche a capire il presente, e a immaginare il futuro. Da questo punto di vista (ma solo da questo), non credo che si debba nutrire alcun sospetto verso il cosiddetto ‘abuso’ dei classici – anzi, mi pare che sia questo l’unico ‘uso’ sensato che se ne possa fare. Così è anche per l’Eneide, un poema che – a mio giudizio – non ha affatto esaurito la sua capacità di figurazione, e prefigurazione, delle vicende storiche che le hanno attribuito le generazioni passate. L’Eneide basta usarla, basta abusarne, come fanno i poeti e i veri critici letterari. O semplicemente i buoni lettori. Anche per questo mi dispiacerebbe molto – ma credo che sarebbe dispiaciuto anche a Caproni – se nel futuro i giovani fossero destinati ad entrare in scuole in cui non si leggesse più neppure un verso di Virgilio. Per scongiurare questo pericolo, e insieme per mostrare – se ce ne fosse bisogno – che l’Eneide è ancora ben viva, vorrei citare per concludere pochi versi di un poeta contemporaneo, recente vincitore di un premio «Viareggio». Si chiama Tiziano Rossi, e la sua raccolta, che ha per titolo Gente di Corsa – potrebbe esserci un titolo più contemporaneo di questo? – è apparsa assieme al cambio di millennio:
Detto immigrato: sopra questo ovest (strano catrame, bagnato impiantito) fumando sigaretta guardingo si trapianta ignoto Enea, che mica lo si canta.
Eccoci dunque proiettati fra gli slavi o i nordafricani del terzo millennio, i nuovi esiliati con la sigaretta perennemente fra le labbra, sospettosi della terra che li accoglie. Ma dietro di loro, dice Tiziano Rossi, c’è sempre Enea, ci sono sempre le fiamme di Troia. Anche se, almeno per ora, nessuno sembra seriamente intenzionato a ‘cantare’ questo ennesimo incontro con l’eroe di Virgilio.
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