« indietro December in Florence di Josif Brodskij
In: Semicerchio LV (02/2016) "30 anni", pp. 33-35.
He has not returned to his old Florence even after having died Anna Akhmatova
I The doors take in air, exhale steam; you, however, [won’t be back to the shallowed Arno where, like a new kind of quadruped, idle couples follow the river bend. Doors bang, beasts hit the slabs. Indeed, the atmosphere of this city retains a bit of the dark forest. It is a beautiful city where at certain age one simply raises the collar to disengage from passing humans and dulls the gaze.
II Sunk in raw twilight, the pupil blinks but gulps the memory-numbing pills of opaque streetlamps. Yards off from where the Signoria looms, the doorway, centuries later, suggests the best cause of expulsion: one can’t exist by a volcano and show no fist, though it won’t unclench when its owner dies. For death is always a second Florence in terms of size and its architecture of Paradise.
III Cats check at noon under benches to see if the [shadows are black, while the Old Bridge (new after repair), where Cellini is peering at the hills’ blue glare, buzzes with heavy trading in bric-a-brac. Flotsam is combed by the arching brick.
And the passing beauty’s loose golden lock, as she rummages through the hawkers’ herd, flares up suddenly under the arcade like an angelic vestige in the kingdom of the dark [haired.
IV A man gets reduced to pen’s rustle on paper, to wedges, ringlets of letters, and also, due to the slippery surface, to commas and full stops. [True, often, in some common word, the unwitting pen strays into drawing – while tackling an “M” – some eyebrows: ink is more honest than blood. And a face, with moist words inside out to dry what has just been said, smirks like crumpled paper absorbed by shade.
V Quays resemble stalled trains. The damp yellow palazzi are sunk in the earth waist-down. A shape in an overcoat braves the dank mouth of a gateway, mounts the decrepit, flat, worn-out molars toward their red, inflamed palate with its sure-as-fate number 16. Voiceless, instilling fright, a little bell in the end prompts a rasping “Wait!” Two old crones let you in, each looks like the figure 8.
VI In a dusty café, in the shade of your cap, eyes pick out frescoes, nymphs, cupids on their way up. In a cage, making up for the sour terza-rima crop, a seedy goldfinch juggles his sharp cadenza. A chance ray of sunlight splattering the palazzo and the sacristy where lies Lorenzo pierces thick blinds and titillates the veinous filthy marble, tubs of snow-white verbena; and the bird’s ablaze within his wire Ravenna.
VII Taking in air, exhaling steam, the doors slam shut in Florence. One or two lives one yearns for (which is up to that faith of yours) some night in the first one you learn that love doesn’t move the stars (or the moon) enough. For it divides things in two, in half. Like the cash in your dreams. Like your idle fears of dying. If love were to shift the gears of the southern stars, they’d run to their virgin spheres.
VIII The stone nest resounds with a piercing squeal of brakes. Intersections scare your skull like crossed bones. In the low December sky the gigantic egg laid there by Brunelleschi jerks a tear from an eye experienced in the blessed domes. A traffic policeman briskly throws his hand in the air like a letter X. Loudspeakers bark about rising tax. Oh, the obstinate leaving that “living” masks!
IX There are cities one won’t see again. The sun throws its gold at their frozen windows. But all the [same there is no entry, no proper sum. There are always six bridges spanning the sluggish river. There are places where lips touched lips for the first [time ever, or pen pressed paper with real fervor. There are arcades, colonnades, iron idols that blur [your lens. There are the streetcar’s multitudes, jostling, dense, speak in the tongue of a man who’s departed thence.
1976, translated by the author
Dicembre a Firenze
Non è più tomato nella sua antica Firenze neanche dopo, da morto… Anna Akhmatova
I Le porte accolgono gli spifferi, emanano vapori, né tu, comunque, ritornerai al poco fondo Arno dove pigramente alcune coppie, inusitati quadrupedi, seguono il fiume lungo la sua curva. Le porte sbatacchiano, e bestie pesticciano l’asfalto. Permane in questa città qualcosa della selva oscura. Ed è una bella città, dove a una certa età tutti, incuranti, tirano su il colletto, come per astrarsi dalla folla umana, portando il fuoco dello sguardo altrove.
II Annegata nell’algido tramonto la pupilla vede e non vede, coperta a tratti da battiti di palpebre, inghiotte le pillole di fiochi lampioni, che appannano i ricordi; poco distante dal luogo ove torreggia la mole della Signoria un andito rammenta, a distanza secolare, la causa [ottima d’esilio: che non è dato vivere prossimi al vulcano senza [mostrare i pugni (destinati a non aprirsi neppure quando chi li strinse è morto). Poiché nelle sue forme è sempre la morte una seconda Firenze, nelle sue forme e geometrie di Paradiso.
III Esplorano le ombre i gatti a mezzogiorno, sotto le [panchine, mentre Ponte Vecchio (nuovo per le riparazioni), dove Cellini scruta l’azzurrità dei poggi, ronza gremito di effimeri commerci; le campate di mattoni setacciano i detriti galleggianti, e il libero ricciolo d’oro di una bellezza che passa rovistando nel gregge degli ambulanti, divampa improvviso sotto l’arcata, v estigia d’angelo, nel regno dei brunochiomati.
IV Un uomo si riduce, si fa fruscio di penna sulla carta, diviene cunei, arabeschi di lettere, e poi si muta in virgole, in punti, poiché la superficie è [scivolosa. Sì, spesso in qualche parola comune, inconsapevole [la penna si mette a disegnare (nel vergare un’‘M’) delle sopracciglia: l’inchiostro è più onesto del sangue. E un volto che inscrive umide parole, sciorinato ad asciugare ciò che è stato appena detto sorride, sornione, come carta crespa, imbevuta d’ombra.
V Treni in rimessa i lungarni. I palazzi, umidi, gialli, sono affossati nella terra dalla vita in giù una figura incappottata sfida la bocca acquosa di un [portone, ne sale i decrepiti molari, liscissimi e consunti, si dirige verso il palato rosso, infiammato, verso il fatidico numero 16 esiziale; afono, agghiacciante, un campanellino in fondo intima un chioccio “Attenda”: due megere ti accolgono, ciascuna di loro in figura di 8.
VI In un ristoro polveroso, all’ombra del berretto, gli occhi bevono affreschi, ninfe e amorini volteggianti; in una gabbia, per bilanciare l’agra vendemmia di terza rima, un cardellino patetico gioca con arte la sua cadenza acuta; casualmente un raggio di sole schizza il palazzo e la sagrestia dove Lorenzo giace fende le imposte, spesse, fibrilla il marmo sudicio, striato, le nivee vasche di immacolata verbena. E l’uccellino è fiamma, nell’intrico della sua Ravenna.
VII Accogliendo gli spifferi, emanando vapori, le porte a Firenze si chiudono con schianto. Una o due vite desiderabili (a seconda della fede): in una notte della prima si apprende che l’amore non muove le stelle (né la luna) a sufficienza. L’amore smezza le cose, le dimidia, come le banconote in sogno, come le oziose paure [della morte. Se l’amore traslasse le meccaniche australi delle stelle riparerebbero quelle, in fuga, alle loro sfere vergini
VIII II nido di pietra ri suona di guaiti striduli di freni, gli incroci spauriscono il tuo cranio come ossa in croce. Nel basso cielo dicembrino l’immenso uovo deposto là da Brunelleschi suscita la lacrima dell’occhio che spesso ha visto le consacrate cupole. Con uno scatto un vigile brandisce le sue braccia in aria, a X. Altoparlanti abbaiano l’aumento delle tasse. Pervicace il partire che maschera il vivere.
IX Ci sono città che mai più noi rivedremo, là dove il sole dona il suo getto d’oro alle finestre gelate. Ma tuttavia non c’è guadagno, nessun ammontare, ci sono sempre sei ponti a scandire il fiume infingardo, ci sono luoghi dove labbra labbra toccarono per la [prima volta o una penna infervorata premette la pagina, ci sono gallerie, colonnati, idoli bronzei che offuscano [le lenti, ci sono moltitudini di autobus caracollanti, fitti, la cui loquela è quella dell’uomo che si è di là spiccato.
Tradotto su autorizzazione dell’Autore. Una traduzione improvvisata dell’originale russo è apparsa sulle pagine locali di “Repubblica”/Firenze nel marzo 1995.
Questo testo di Josif Brodskij, solo apparentemente agevole, non è di facile approccio per il traduttore. Basti notare, oltre alla evidente “griglia” dantesca che lo pervade (strutturale, lessicale e immaginativa), l’uso delle rime sia dell’originale russo che della traduzione d’autore in inglese; nella mia versione non ho cercato di riprodurre il modello in tal senso, ma ho preferito attestarmi su un andamento ampio, di tono prevalentemente lirico, prosodicamente sorvegliato, che sciogliesse alcuni nodi di pensiero del denso testo di partenza. Ringrazio Edoardo Zuccato e Antonella Francini, nonché gli amici della Redazione per i loro suggerimenti (N.d.T.). ¬ top of page |
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