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Malinconia e sogno

Di Ivo Andric´

 

In: Semicerchio (02/2016) “30 anni”, pp. 40-47.

 

Traduzione di Poesie scelte a cura di Stevka Šmitran

 

I. Ivo Andric´ è senza dubbio lo scrittore jugoslavo più tradotto in italiano. Da un lato ciò è dovuto al fatto che egli sia l’unico Nobel dei Balcani e dall’altro che la sua opera rappresenti lo specchio della Bosnia, «piccola terra in mezzo al mondo». Alcuni dei suoi racconti sono stati persino ritradotti, mentre rare sono le pubblicazioni delle sue poesie, apparse sulle riviste, in un’antologia e in una monografia.

Ecco dunque, adesso venirci incontro da lontano il poeta Andric´, forse perché la sua malinconia non solo sapeva parlare e non aveva confini allora, ma a quanto pare, anche oggi dice tanto. È allettante scoprire Andric´ lirico dopo ottant’anni, sapendo quanto temesse il tempo per la sua lingua:

 

Penso che non ci sia scrittore che non abbia pensato cosa ne penserà il lettore di me tra cento anni. Anche a me è successo, ma la domanda non riguarda il senso, bensì la forma, la lingua, lo stile, la scrittura […] Vedo questo mio lettore nel 2038 e [...] insieme a lui rido sommessamente e innocentemente, rido al mio scritto e a quello scritto di cento anni prima e a quello che sarà scritto tra cento anni, e rido di tutti gli scritti, di tutte le parole, di tutte le espressioni, e di ogni lettore, di ogni giudizio e, infine, di ogni sorriso, prendendo tutto quel che passa come una forma del sacrificio e del segno del destino.

 

Ma se una lingua nello stile può risentire gli effetti innovativi nel tempo, in poesia esso concentra maggiormente quel mistero lessicale, rendendolo intramontabile. Perché la poesia per l’intensità delle sue componenti formali e contenutistiche rispecchia uno stato d’animo che resta unico e irripetibile nella sua forma avvolgente. C’è in questo costrutto fondante quella valenza taluna o tal’altra che ricorda un poeta o che, in linea di massima, riassume un percorso poetico. Insomma, un denominatore ‘oggettivo’ affine alla sua lirica o, in alcuni casi, il poeta di tale lirica o di tale raccolta che ‘riassume’ la poetica del poeta.

Ivo Andric´, dalla sua prima poesia pubblicata Al crepuscolo (1911), poi inclusa nella raccolta Ex Ponto (1918), fu definito il poeta del dolore, della sofferenza, dell’infelicità, confermati anche nella seconda raccolta Inquietudini (Nembi) (1920).

 

Erano i semi, come si vedrà in seguito, di un sentimento molto più estremo ed estremista, – data anche la sua attività nell’organizzazione rivoluzionaria della «Giovane Bosnia» – e, se si vuole più ‘creativo’ di qualsiasi altra tecnica poetica, la sola che Andric´ perfezionerà per il resto della sua vita, rimmensa, la sconfinata malinconia.

Ma andiamo per ordine. Il primo codice di questo cammino va ricercato nel titolo stesso della raccolta e, cioè Ex Ponto, quell’invisus («odioso») loci dove Ovidio fu confinato dall’imperatore Augusto dal 9-18, l’anno della sua morte. Quella di Andric´ è altra epoca e altri sono gli avvenimenti storici: la Prima guerra mondiale e l’assassinio dell’Arciduca d’Austria a Sarajevo che segna la fine dei tre imperi: l’austro-ungarico, il russo e l’ottomano. Anche per lui la storia sarà il luogo dove si rappresentano i destini dell’uomo in cui ogni biografia individuale attraversa le stesse sue fasi fino alle somiglianze metaforiche riconosciute come identità. A causa della sua attività rivoluzionaria Andric´ fu messo in prigione prima (Spalato e Maribor) e confinato poi (Ovcarevo e Zenica) nel periodo tra il 1914 e il 19176  dove compone la prima parte della raccolta Ex Ponto. L’angusto spazio fa dire allo spirito di Ovidio: «Non so cosa fare e cosa volere o non volere» e a quello di Andric´:

 

Non so dove vanno questi giorni miei /Né dove mi portano queste notti.

 

 

Il senso di tutte le costrizioni conosce un unico linguaggio fatto di negazioni e da tanti «non so». Chiariti i riferimenti ovidiani e quindi il titolo della raccolta Andriciana che ci hanno fatto allontanare per un attimo dai nostri propositi introduttivi, ritengo debbano essere ripresi e immediatamente rivelati: parlerò di poesie scelte di Andric´ in italiano. È la prima volta che una simile silloge vede la luce sotto la volta di questo cielo. Dopo ottant’anni Andric´ poeta in italiano. Il nettare slavo in calice di Murano. Il tempo di una traduzione, come la poesia stessa, è destinato anche esso a rimanere ‘oscuro’, ma non le coincidenze che lo accompagnano. Se non è un caso che Andric´ abbia parlato quella koiné bosniaca, comincio a credere che è un caso che la parli anch’io. Ecco perché sto omettendo l’uso abituale del pluralis modestiae. Una volontà la mia di ripristinare un’altra comunicazione che ne aprirà delle altre – di confronti, paragoni e comparazioni a livello linguistico, stilistico, traduttivo.

 

II. Il nostro è un percorso interpretativo sulla «visione terrificante» di uno dei più grandi scrittori di questo secolo, coscienti che esso sia un timone nello studio della poesia di Andric´ e considerandola una stupefacente risorsa creativa. La malinconia slava, intesa in tutta la sua nobiltà, è quasi un modo di rappresentarsi al mondo. Un residuo di celebri ballate medievali note in tutta Europa nel XIX secolo che parlano dell’effimero umano nel grande guscio del mondo. La malinconia è la consapevolezza di quella imperfezione che l’uomo in punta di piedi cerca di colmare, ricreando miracolosi colori, profumi, emozioni. Tutto è, naturalmente, al vaglio di una ‘narrazione’ tanto individualistica quanto universale che agisce nel tempo reale e che per questo può durare in eterno. Questa è una coscienza non romantica e, se è consentito dire, più olfattiva, più afferrabile. Ivo Andric´, il «povero bosniaco» – come egli stesso si definisce in una poesia, presto ha sperimentato la malinconia attraverso la propria esperienza e quella del suo popolo. Certamente, in questo senso molto hanno contribuito anche le letture di Kierkegaard che per primo avvertì la caduta dell’Occidente e si fece promotore di una grande rivalutazione di malinconia, in cui ha amato il mondo, amando la propria malinconia.

In Andric´ la malinconia è una lotta contro le ostilità di uomini e di tempi. In giovinezza la Grande guerra e la terribile scuola di carneficina che dava una colorazione rossa al respiro, al pensiero, alla parola. E ai sentimenti che, al tormento e alle privazioni, troveranno infinite gradazioni. Il tutto insieme è stretto nella morsa delle domande esistenziali sul destino e sulla morte. E, soprattutto, sul ruolo dell’uomo e sul suo giudizio inutile, inconcludente, mutevole. Questi cocci di malinconia, non indipendenti dai fatti storici ma determinati dal suo carattere schivo, Andric´ li raccoglie in una lingua dai toni cupi. All’inizio, cosciente della sofferenza ma incredulo nell’accettarla, si chiede:

 

Perché ad ogni tocco della vita /Se ne ode nell'animo un’eco -/Il dolore?

 

per poi dare una definizione del mondo:

 

Tutto quel che vedo è poesia.

 

Anche l’approdo a questa conclusione seguiva lo stesso percorso tragico:

 

Per me e per l’epoca mia non ci son parole: 

Passi infiniti nella stretta cella, 

Negli occhi spauriti, i giorni, 

Uno dopo l’altro, 

L’inferno furibondo del mio tempo, rottura 

E fine del mondo.

 

Questo dolore sovrano «spinge Tanima a risorgere e quando la parola poetica reagisce lo trasforma in arte, in poesia»:

 

Nel canto della miseria,

Della fame, del forsennato dolore che da sempre

 Colma terra e mare.

 

Il dolore mai abbandonerà le stagioni di Andric´, forse avrà toni più stringati e meno elaborati, rivestendo il verso di un’aura « di pathos biblico».

Il suo tempo interiore possiede «colori della mente» come dice Goethe, ed è tinto di nero o di rosso, ma è spesso scandito anche dal silenzio delle ombre e nascosto nell’oscurità.

 

III. Quello che è, invece, molto evidenziato riguarda l’opposizione tra malinconia e sogno. Questi termini poeticamente valgono non come segni estremi distintivi, seppur con diverse disposizioni tensive, ma come un insieme di contemplazione e di significato:

 

Viaggio, come viaggiavo 

Innumerevoli volte nel greve sogno, 

Sulle buie strade, al nord, 

Con i miei custodi accanto, 

Tacciono e vegliano le spade.

 

Nel cammino della sofferenza, Andric´ incontra la malinconia accanto al sogno in tutte le sue forme che non si manifestano e non brillano che di luce spenta:

 

I sogni perdono il volto 

Nell’eterna bruma.

Immenso cielo e abisso del sogno,

 

o di un rosso-sangue che conferma ancora una volta il tormento e l’angoscia:

 

E se l’inconscio è fine e inizio 

Di questo breve sogno,

Perché mi desti col tuo rosso al mattino?

 

Non un barlume di speranza nel sogno, né alcuna concessione alla gioia:

 

Così è questa vita. Queste le ore del destino. 

E questo il sogno tanto atteso 

Con in se l’oblio del respiro.

 

Questa ricerca del sogno, nei connotati che lo vedono subordinato a tutta una serie di tristi presagi, finisce per essere soffocata sul nascere:

 

Sotto l’aspetto ingannevole

 Ero pur sempre, lo sono ancora 

Il canto del grande sogno 

Quel sogno che come bufera di neve ricopre e 

Spegne tema e mare.

 

Nemmeno il sogno di artista; solo un sogno informe, amorfo, svuotato da ogni sua forma di «desiderio» o di «attese». Andric´ è sognatore senza sogni. Ha svuotato ogni significato alla parola del futuro, dando alla sua assenza quelle valenze che coincidono con ciò che rappresenta la malinconia. Con tutto ciò resta tuttavia aperta la simbologia religiosa, per alcuni o amorosa per altri, delle poesie Sogno di Maria e Nel mese di marzo, legate al sogno e non slegate dalla loro forma implicita di malinconia.

Nella prima poesia, la mancanza di un incontro si sente come un’ossessione che mai potrà essere colmata:

 

Non ho mai visto il Tuo volto, 

Ma tutta la luce del sole, 

L’unica che illumina il mio cammino

 Arriva dalle tue mani.

Il destino. Gelo, vento e timore.

Un solo felice 

Messaggio nel mio angolo 

Arriva dalla Tua bocca.

(...)

La vita così è trascorsa.

Mai ho visto il Tuo volto.

 

In questi versi suona una trepidazione sentimentale? Un dilemma al quale si è cercato di rispondere, con risultati che aumentano ancora di più il dubbio. Come si apprende dalla biografia Andriciana, dopo l’arrivo a Zagabria nell’autunno del 1912 quando si iscrive alla Facoltà di filosofia, egli conosce e frequenta la giovane Eugenija Gojmerac che muore ventenne nel 1915. Quando per motivi politici lasciò Zagabria continuò gli studi a Cracovia e poi a Graz dove si laureò e prese il dottorato di ricerca. A Cracovia, da quel poco che si è mai potuto capire della vita privata di Andric´, secondo P.Palavestra una traccia di un amore ideale, forse si cela dietro Halina Irzykowski, che potrebbe essere diventata «Jelena, donna che non esiste» diventato il titolo di un racconto e l’indefinibile figura femminile.

 

Ma torniamo alla seconda poesia che parla sibillino:

Maria che guarda col capo chino

 La mia partenza per un lungo viaggio

 Avvolto nella nebbia; 

Il mio mantello bagnato e pesante

 La mia strada senza ritorno. Il pianto di Maria 

***

Quella minuscola e nota misura di cose terrene 

Ed il misero splendore del tutto che passa

Non tocca più il mio pensiero.

 

Quello che conta, a parte le segretezze volute e mantenute, è che queste poesie posseggono quella grande concretezza di immagini, coniate con ammalianti vocaboli orientali e riprese dai poeti che verranno in seguito. Anche in queste espressioni il sogno riprende, forse più consistentemente, le infinite variabili - e questa paronimia richiede, a sua volta, molteplicità di modi di approccio. E la nostra consiste nel lasciare fruire il sogno nella sua immensa molteplicità correiazionata nella sua evocazione, sempre e comunque, a «mostrare-sprigionare» la malinconia. Anche se parla di un paradigma misterioso (l’«oggetto psichico» di Lacan), ribadisce non le sue potenzialità ma le sue mancanze che gravitano attorno ad un linguaggio scarno e, se spiegato, offeso nelle sue radici. In sostanza, e questo è lo scopo raggiunto di Andric, il sogno non si preannuncia, non pondera concretezza di alcun genere, consiste come parola-frase, cioè nell’idioma e funziona come unità all’interno di questo. A questo, poi, vanno aggiunte le parole inter-posizionali quali la salvezza (dell’anima) e la solitudine (dell’uomo) che ricalcano il sogno «ad occhi aperti» corrispondente alla realtà e alle sue ferite.

 

IV. Accanto al sogno, nello sconfinato giardino del dolore, non a caso appare l’uomo ed il suo mistero messo vicino agli alberi, alle montagne, fiori, cielo e nuvole, dotati di forze sconosciute. Un mondo inanimato a cui Andric attribuisce tutta l’energia poetica. È qui che Andric inserisce un distintivo, forse dovuto al destino, il solo di cui l’uomo sente il bisogno, di cui prova sete, per rimanere nel suo linguaggio –, e che si chiama arte. L’arte che sopravvive ed è l’unica eredità che l’uomo lascia. E perché un’arte sia tale e vada «oltre» c’è sempre bisogno che al suo interno ci sia un «significante», una parola-simbolo – trattandosi di poesia per l’appunto, quello che Mallarmé chiama «linguaggio umano riportato al suo ritmo essenziale».

La parola-simbolo per Andric è most (cuprija) «il ponte» che, non solo è dotata di un potere mistico con infinite risoluzioni contenutistiche ma è altrettanto, nel tempo, diventata «reale» nella sua accezione poetica universale. La poesia, per essere tale, è racchiusa nella sua fortezza i cui fili e la cui tessitura conosce solo il poeta, ma è la forza divina che stabilisce il suo infinito. Non a caso Andric, accanto alla parola «ponte» nel cui contesto convivono malinconia e sogno, aggiunge la tematica di Dio (come ricerca estrema) che come dice Vico utilizza le azioni di ogni singolo essere ai propri scopi.

 

V. Quanto, e in che misura, i due antidoti malinconia e sogno, – l’uno presente e avvolgente, l’altro assente e pensato, potranno entrare nella loro forma primigenia in lingua italiana? E, in sostanza, il tragico nell’io umano è traducibile nelle sue infinite sfumature?

Andric stesso diceva che la traduzione ha un che di magico: «prendere il lettore per mano e portarlo nei luoghi e nei posti che non avrebbe mai attraversato e fargli vedere cose e oggetti che altrimenti non avrebbe mai visto, sono virtù e grandi capacità». Sapremo trasferire quel costante quanto tenibile inabissarsi nel profondo dell’anima di un poeta e del suo tempo da dove si apprende a piene mani? Sapremo trasmettere e difendere l’intimo e l’umano del poeta anche se, oppure nel caso che, conosciamo tutti gli strumenti linguistici senza conoscere la sua storia e la cultura? Vale a dire, quale peso nella traduzione hanno tutti questi fattori? Perché la traduzione non è soltanto il passaggio dalla poesia come forma di comunicazione alla poesia come forma di manifestazione, uno spostamento da un codice linguistico all’altro, per quanto anche di questo si tratti, ma una simmetria di tracciati prestabiliti e innovativi quelli che sono automatici e quelli che si costruiscono ad hoc. Quanto tutte queste componenti siano importanti per la vita di una poesia, lo confermano i versi di un nostro contemporaneo, il poeta Tadeusz Rozvewicz: «Adamo io / non posso rivolgermi / a Bacone / Lui non conosce il polacco / io non conosco l’inglese / diglielo, o Adamo / diglielo, / ti prego ‘in inglese’». E una delle più riuscite parabole sulla traduzione che sposta il discorso sulla teoria della poesia di lingue «minori».

In tutta la storia del tradurre e della relativa teoria, da quella di San Girolamo e della sua Vulgata tradotta dall’originale ebraico a quella di Orazio che ha il merito di aver trasferito in poesia latina i metri di Archiloco, risultano particolarmente interessanti le traduzioni fatte da poeti. Si pensi, per citarne soltanto alcuni, alla traduzione di Diderot da parte di Goethe e ai poeti traduttori da Rilke a Brecht, da Joyce a Auden, da Brodskij a Pinsky, per citare gli ultimi. Lo stesso Andric giovanissimo tradusse alcune poesie di Whitman. Ciò è, forse, dovuto al fatto che la «poesia è l’unica forma che fa uso di tutte le risorse del linguaggio», o che «per tradurla, bisogna non solo averla sentita ma identificata tanto nei fini come nei mezzi». Di fronte alla poesia di Andric mi sentivo «nel miracolo della parola» per dirla con Ungaretti e non potevo tralasciare né quello che «sentivo» in una né quello che «pensavo» nell’altra lingua. Leggendo la poesia di Andric Una bella donna giovane, mi è venuto in mente il sonetto di Cecco Angiolieri e subito ho cominciato a tradurla e a fare confronti su come due poeti di lingue diverse e di epoche differenti potessero, invece, dire il verso tanto simile. Sentiamo il ritmo di queste strofe:

 

Fossi io acqua 

Che tanti disseta

 E tutti se ne vanno contenti e puri 

Con la propria fortuna 

Che eguale non ce n’è al mondo.

Fossi io liquore

 Che bevono nelle bettole, 

Cercando fortuna nel sorriso e oblio nel canto 

E che esaudisca i loro desideri, folli e audaci, 

Col frenetico sussurro delle ore notturne, nel fumo

 Del bagordo.

 

Fossi io veleno

 Bevanda per quelli che non arriveranno

 A vedere il tramonto del sole, 

Staccando la vita dalla radice in un lampo,

 Nell’oblio cancellare pensieri, uomini e mondi

 Senza più lasciare traccia.

 

Confrontiamo ora questi versi con la prima quartina di Angiolieri:

 

S’i’ fosse foco, arderei ’l mondo; 

s’i’ fosse vento, lo tempesterei; 

s’i’ fosse acqua, i’ l’annegherei; 

s’i’ fosse Dio, mandereil’en profondo.

 

Rivediamo pure tutto quello che serve alla nostra comparazione l’ironia di Angiolieri e la malinconia di Andric, ricreiamo un paragone linguistico, ma restiamo ancora col suono che ha a che fare con l’ispirazione stessa. Quella di Andric ha tutte le valenze di ballate popolari che, ai fini del nostro confronto, con il loro tema sintattico e la risoluzione semantica parlano la lingua epica. Si tratta della trasposizione di un ritmo popolare e di una parola iniziale breve e ripetuta ad ogni inizio della strofa. Questa accurata scelta di vocaboli e sintassi, ripresi dalla poesia popolare, si legano ad una volontà di trasferirli nella lingua letteraria e di rinnovarla. Ma non è tutto. Bisogna seguire le immagini che iniziano con una pacatezza estrema e poi man mano non solo crescono nella gradazione, ma capovolgono la situazione, dando un immagine negativa e catastrofica, secondo lo schema antitetico presente nei canti popolari. Certo è, però, che tutte queste considerazioni non sono visibili a prima vista, non sono affatto visibili, senza uno studio ‘a monte’ preesistente. La poesia deve uscire dalla traduzione da quella realtà perduta. O, come dice giustamente Benjamin «redimere nella propria quella pura lingua che è racchiusa in un’altra; o, prigioniera nell’opera, liberarla nella traduzione - è questo il compito del traduttore». 

È superfluo, a questo punto, dare altre spiegazioni sulle differenze tra la poesia di Andric ed il sonetto di Cecco Angiolieri.

Parlare di una traduzione in manoscritto e comparare nell’interpretare, risulta stimolante per l’effetto che l’immediata costruzione-traduzione offre, ma non solo. C’è anche il fattore più intimo e più privato, come in tutte le cose del cuore; tutte le proprietà metaforiche specifiche della lingua serbo-croata sono riscritte in italiano, che attraverso la traduzione «tendono al rapporto più intimo» che «essa stessa non può certo rivelare o istituire questo rapporto segreto; ma può rappresentarlo in quanto lo realizza in forma embrionale o intensiva». Il rilievo semantico con le metafore della solitudine e del tormento, nella loro infinita purezza prendono il volo come l’«uccello» di Andric:

 

A sera, mi sembra l’attimo in cui come

 L’uccello dallo sguardo incomprensibile

 Io volerò, con un urlo, da questo mondo.

 

Poi continua, senza alcuna varietà ritmica:

 

La pietra può solo

 Sprofondare.

Il sipario cala una sola volta. 

Come la sorte dell’uccello 

Volato via.

 

Questa metafora, tra le più antiche come sappiamo, col suo contenuto poetico principale può essere intesa «come tensione fra la struttura semantica della lingua dell’arte e la lingua parlata», dati i suoi significati a cui il tempo ha lasciato tutti i dubbi originari.

L’essenziale è, non tanto spiegare il «valore poetico»  che è fondamentale per una traduzione, quanto l’unitarietà stilistica della raccolta, data l’inscindibilità di «poesie scelte» in cui si trovano adesso i versi di Andric. Hanno già il destino della raccolta. I versi, composti in grandi e in piccole strofe, sono organizzati senza alcuna disciplina metrica, come vuole la tradizione modernista. Nel compiere una loro ricreazione si è coinvolti nel profondo del proprio idioletto per restare «fedeli» quanto «liberi» nella traduzione in cui il «traduttore si avvicina sempre di più alla propria intenzione: riprodurre il significato dell’autore o produrre sul lettore esattamente l’effetto voluto; qui coincidono traduzione semantica e comunicativa».

 

VI. Sembra, tuttavia, che ogni costruzione grammaticale e lessicale miri, non tanto alle soluzioni al loro interno, quanto a rendere tutte le forme di malinconia che oggi vive nelle sue forme depressive e al sogno che sempre più assomiglia a una visione mitologicocristiana - infallibile teorema di ogni tempo. Questi i toni dominanti che al suo interno inseriscono la solitudine dell’uomo che di fronte ai grandi dubbi si pone solo, disarmato. Può solo proferire: «Il silenzio è d’oro» oppure «Tacere è sicurezza». Le basi di questa filosofia sono state poste nell’essenzialità dei versi nel tempo riconfermati, scarni, ossuti, classici. È qui che il poeta neutralizza la «storicità» e il «tempo», esula dalle sue leggi misteriose e si attiene alle percezioni - ascolta, guarda, agisce, rintanato nel suo angulus. Nel nulla accadere, come appaiono le visioni descritte, egli dichiara tutto il suo individualismo e, lo fa con grande espressività. Il poeta ha, semplicemente, selezionato la realtà:

 

Mi bagnava la pioggia. Ero inquieto, non amato 

Solo e tormentato.

 

Questo uomo con l’«anima cinta di serto», trova la propria immagine, non come Narciso nell’acqua trasparente, bensì in quella torbida:

 

Vedo nell’acqua scura 

La mia immagine, smunta, pallida, spersa.

 

Le poesie scritte in verso libero e mancanti di rime, subiscono d’un tratto una ‘soluzione’ stilistica di pacata narrazione per poi delinearsi definitivamente, attraverso l’aggettivo di tipo cromatico e psicologico. Questo uso costante di aggettivo opaco, – cioè scuro, oscuro, buio, cupo, tetro – aiuta a delineare il soggetto lirico, lo umanizza, mentre è alle prese con l’eterno «sacrificio» della vita; di cui non ci si può dimenticare, né fare a meno, esso è l’«io» totale.

Un interminabile soliloquio, questo, dell’«io» alle prese con il destino che, oltre ad essere misterioso è ostile e avverso, sempre. Ciò è dovuto al fatto che Andric, all’età di circa trent’anni quanti ne aveva quando ha pubblicato Ex Ponto e Inquietudini, aveva considerato la vita «già trascorsa» e il destino compiuto.

 

Io seguo l’infinita traccia lucente. 

Sono solo. Muoio anch’io.

Dal mondo si va senza salutare.

 

Propongo adesso di riprendere un lungo respiro per poter saggiare le strofe di due poesie, brevi riflessioni in cui l’abbandono a se stessi è Andricianamente senza soluzioni:

 

Il mio sguardo è arso da tutto ciò che ho visto.

Grande è il mondo, il fardello e il tedio. È notte fonda. L’uomo è solo.

 

S’ode una canzone 

Dalle alture del fresco

 Della luce, della purezza, dell’immensità, parla. 

Ve lo scrivo perché sappiate

 Che io, morendo, infelice canto.

 

Brevi schizzi attraversati da quel brivido di morte che abbiamo imparato a conoscere. Lo stesso poi tenta di inserire nel lungo poema Cosa sogno e cosa mi accade, composto da dieci poesie singole di diversa lunghezza dove ogni stretta di mano, ogni cenno di sorriso è desolazione. Tutto è silenzio e, quando anche esso sarà esaurito, l’alfabeto imparato sarà una lingua morta.

 

Si dileguano le benedizioni.

Si perdono i doni nei giorni e nel mare; 

Svaniscono le cicatrici delle ferite e degli abbracci... 

Per sempre!

 

Celebrazione della fine che si fa sempre più pressante. L’organicità dell’universo crepita e il poeta non si limita più a formulare la caduta come un fatto di tempo indeterminato e distante. Bisogna, perciò, delineare quell’orizzonte che sempre più si assottigliava e sempre meno era suo. Il confine fisico è dato dal confine dell’«essere»:

 

L’orizzonte si assottiglia, diviene sempre più chiaro 

E, per la luce sempre più invisibile.

Sempre più in fretta e più vicino si fa l’attimo 

Quando non ci sarà più nemmeno l’orizzonte, 

Perché non ci saranno più gli occhi 

A guardarlo.

 

Questa poesia è stata scritta nel 1970 e con altre due poesie, l’una scritta nello stesso anno e l’altra nel 1973 – due anni prima della morte di Andric –, e che esamineremo più avanti, fanno parte della raccolta intitolata Cosa sogno e cosa mi accade e pubblicata nel 1976.

Portano, in silenzio, il segreto del vissuto. Non una competizione con esso, non un commento su di sé.

 

Settembre,

Un prezioso bicchiere inclinato 

Al cui bordo il vino attinge.

Più forti e più profondi sono i battiti del cuore,

 Il presagio del sangue inquieto 

Che l’autunno fecondo porterà:

Dipartita, sparizione, fine.

 

L’epilogo di un mitteleuropeo che abbandona, sapendo del distacco dell’anima dal corpo. La lettura è prolungata e tutto di nuovo si riconduce alla comunicazione dei versi giovanili che sempre più prendono corpo anche nella loro ricezione extralinguistica. Ed, infine, la «straordinaria voglia di infinito» come diceva Brodskij, «un'elevazione in piena regola, anzi un’epifania, un decollo totale di chiaro stampo ecclesiastico». Il poeta trascrive, riproducendo nei dettagli lo stordimento della fine vicina:

 

Né dei né preghiere!

A volte però sento

 Un bisbiglio in me simile ad una prece.

 L’eterno e sempre vivo desiderio

 Si risveglia nell ’ anima

 E in silenzio chiede un po’ di spazio

In uno degli sconfinati giardini del paradiso

 Dove alfine troverei quello 

Che invano qui ho cercato:

L’immenso, l’infinito, l’orizzonte chiaro, 

Un po’ di libero respiro.

 

Già nella terzina introduttiva si avverte l’intenzione di ‘narrare’ e di esporre i concetti con i versi di lunghezza ineguale come anche con l’uso di parole lunghe. Si nota che il ritmo dipende da queste lunghezze con i loro accenti differenti, e che queste parole-simbolo ingrossano e straripano in piena: L’immenso, l’infinito, l’orizzonte chiaro. Una tale perfezione formale, non curata e non studiata, ma piena di regole preconcette, istintive. Ritorna l'antitesi slava anche qui in piena regola, quasi come tipo di metafora «non trasmissibile». C’è, naturalmente, come dice Lacan l’«io» umano che non si mette in competizione se non con se stesso per giungere a delle prestazioni straordinarie. La volontà è svincolata da esegesi terrena, ha mete più rassicuranti. L’unica salvazione è l’anima che ha saputo elevare malinconia e sogno fino alle forme estreme, dando un contributo autonomo e originale alla poesia slava nel contesto di quella europea. Da questa differisce per quel suo mito tragico che indica, nella sconfitta, ogni possibile uscita dalla disperazione. Ma il fallimento rimane una conquista per i posteri. Anche Andric insiste nel confermare questa etica medievale e, il suo esempio serve come un ulteriore ampliamento e accrescimento del mito che si mescola con il sacro. Era già successo nel passato, in altri poeti e in altre composizioni liriche che il sogno potesse essere un’illusione o la sua rimozione, ma qui rappresenta l’eterno. Per averlo, bisogna conquistarlo, «un po’ di libero respiro». Il sogno come fine di malinconia e come vita migliore, per tutti. Il sogno come capacità dell’anima a sconfinare, qualunque sia stato il vissuto, qualunque esito si possa immaginare.

Andric sa che, ogni dubbio che ha affinato la sua interiorità, ogni debolezza che conosceva il suo pensiero possono, a questo punto, essere ripercorsi da altri. Sotto la parola sogno si cela la dignità che ognuno, con le proprie emozioni, le esperienze e verità, può raggiungere, dando il suo contributo all’umanità.


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Tandem. Dialoghi poetici a Bibliotecanova

6 maggio 2023
Blog sulla traduzione

9 gennaio 2023
Addio a Charles Simic

9 dicembre 2022
Semicerchio a "Più libri più liberi", Roma

15 ottobre 2022
Hodoeporica al Salon de la Revue di Parigi

13 maggio 2022
Carteggio Ripellino-Holan su Semicerchio. Roma 13 maggio

26 ottobre 2021
Nuovo premio ai traduttori di "Semicerchio"

16 ottobre 2021
Immaginare Dante. Università di Siena, 21 ottobre

11 ottobre 2021
La Divina Commedia nelle lingue orientali

8 ottobre 2021
Dante: riletture e traduzioni in lingua romanza. Firenze, Institut Français

21 settembre 2021
HODOEPORICA al Festival "Voci lontane Voci sorelle"

11 giugno 2021
Laboratorio Poesia in prosa

4 giugno 2021
Antologie europee di poesia giovane

28 maggio 2021
Le riviste in tempo di pandemia

28 maggio 2021
De Francesco: Laboratorio di traduzione da poesia barocca

21 maggio 2021
Jhumpa Lahiri intervistata da Antonella Francini

11 maggio 2021
Hodoeporica. Presentazione di "Semicerchio" 63 su Youtube

7 maggio 2021
Jorie Graham a dialogo con la sua traduttrice italiana

23 aprile 2021
La poesia di Franco Buffoni in spagnolo

22 marzo 2021
Scuola aperta di Semicerchio aprile-giugno 2021

19 giugno 2020
Poesia russa: incontro finale del Virtual Lab di Semicerchio

1 giugno 2020
Call for papers: Semicerchio 63 "Gli ospiti del caso"

30 aprile 2020
Laboratori digitali della Scuola Semicerchio

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