« indietro La materia del canto Di José Ángel Valente
In: Semicerchio LV (02/2016) “30 anni”, pp. 79-85. ¿Qué son estas nubes, dime, que el viento arrastra como cabelleras al término encendido de la tarde? ¿Hiciste tú ese camino? ¿Sin mí lo hiciste? ¿Cuándo? (No amanece el cantor, 1992: II, «Paisaje con pájaros amarillos») Che sono queste nuvole, dimmi, che il vento trascina come chiome al termine acceso della sera? E tu hai fatto questa strada? Senza di me? Quando? (Non si sveglia il cantore: II, «Paesaggio con uccelli gialli»)
José Ángel Valente, nato ad Orense, in Galizia, il 25 aprile 1929, muore a Ginevra il 18 luglio 2000. Poeta, filologo, saggista e traduttore, coniuga la scrittura poetica con un’indagine e meditazione del processo creativo in un’opera complessa e di straordinario interesse per l’estetica contemporanea, discussa e insignita di prestigiosi riconoscimenti tra i quali il Premio Príncipe de Asturias de las Letras nel 1988 e il Reina Sofia de Poesía Iberoamericana nel 1998. Accomunato cronologicamente al cosiddetto gruppo poetico degli anni ’50 o «promoción de los 60», che attua una svolta antiformale nel panorama coevo, Valente esordisce nel clima di chiusura culturale della Spagna del dopoguerra con il libro A modo de esperanza (Madrid 1955, Premio Adonais 1954); l’edizione postuma di Fragmentos de un libro futuro (Madrid 2000, Premio Nacional de Poesia), scritto come diario-testamento dal 1991, palesa l’intima unione tra la vita e l’esperienza poetica da cui sono scaturiti numerosi libri quasi tutti composti all’estero. Dal 1954 al 1958 Valente insegna all’Università di Oxford, da cui riceve il titolo di Master of Arts, in seguito lavora a Ginevra e, dal 1982, a Parigi per la Oms e per l’Unesco nel settore della traduzione; toma a risiedere in Spagna dal 1985, stabilendosi nella città meridionale di Almería. La distanza, con l’apertura ad altre letterature ed arti, influisce sulla traiettoria indipendente della poetica valentiana, basata su una concezione comparativa dell’espressione artistica e dell’idea stessa di contemporaneità come dialogo che attraversa il tempo per via semiotica. La terra desolata della negazione, che l’esilio volontario rappresenta, appare insieme spazio di libertà del linguaggio, «punto zero» in cui la parola poetica, accolte l’eterodossia e l’esperienza del limite, diventa «protagonista della resurrezione», restituendo la memoria come segno della materia interiorizzata. L’«etica dell’occultamento» si traduce in fuga dalla globalità nel frammento e in un punto di vista del margine che elude la retorica decostruendo i meccanismi del discorso totalizzante e strumentale per fare spazio alla germinazione e alla risonanza dei segni in un processo ermeneutico che esperisce la presenza della poesia come forma di vita e di conoscenza in quella che Valente ha definito «una relación camal con la palabra poética».
Tutta l’opera valentiana è una scoperta del linguaggio in quanto elemento costitutivo della poesia. In corrispondenza con «estetiche della ritrazione» con cui Valente ha trovato le maggiori affinità, la scrittura abdica dalle prerogative del soggetto per identificarsi con una «entrada radical en la materia»: sostanza, argomento e questione ultima della poesia posta dalla sua stessa natura ed origine. Con l’interesse per la letteratura mistica, Valente sviluppa nella poesia il tema del «silenzio» in rapporto a una realtà primaria e costantemente ulteriore che nega la rappresentazione derivata. Creare è rinuncia all’esposizione e stato di disponibilità al «dono dell’impossibile» in cui si uniscono atteggiamento passivo e attivo, con un superamento del dualismo di corpo e spirito che rende comunicanti visibile e invisibile, scrittura e lettura, ascolto e respiro, percezione e parola in una relazione di reciprocità ed empatia in cui la materia illumina lo spazio misterioso della propria genesi componendosi in forme legate all’arte non figurativa e alla musica. Folgorazione di una prossimità sensibile e inapprensibile, la poesia rimanda al non luogo, all’inizio infinito e al movimento armonico che rivela la materia del canto come corpo dell’amore. La poesia di Valente fino al 1992 è raccolta in itinere e in più edizioni con i due titoli di Punto cero, 1972; 1980 (1954-1979) e Material memoria, 1992 (1979- 1992). Del primo periodo: A modo de esperanza,1955; Poemas a Lázaro,1960 (Premio de la Crítica); La memoria y los signos,1966; Siete representaciones,1967; Breve son, 1968; Presentación y memorial para un monumento, 1970; El inocente, 1970; Treinta y siete fragmentos, 1972, inedito che chiude la prima edizione di Punto cero; e Interior con figuras, 1976. L’insieme dei libri di Punto cero, a cui sono riconducibili le prose di El fin de la edad de piata (1973) e i saggi de Las palabras de la tribu (1971), rileva la tensione morale attribuita all’opera creativa, la lettura della storia è insieme attraversamento della morte della lingua e fondazione di uno spazio archetipico in cui la parola poetica è matrice vivente e inaccessibile al dominio del discorso predicativo. Material memoria, del 1979, apre la serie dei libri dedicati allo «stato di creazione» o «di scrittura» che elaborano, con suggestioni artistiche diverse (dalla pittura di Klee e di Antoni Tàpies al genere musicale della ‘lezione di tenebre’ nato dal rito sinagogale del canto delle lettere), la sintesi di fisico e metafisico espressa con il simbolo della «mandorla» che dalla filosofia ermetica arriva alla poesia di Celan: Tres lecciones de tinieblas,1980 (Premio de la Crítica); Mandorla, 1982; El fulgor, 1984, e Al dios del lugar,1989. In questo ambito sono importanti le prose di Nueve enunciaciones (1982), in cui si compie un’operazione di svuotamento della retorica dell’io, e i saggi intorno alla mistica, La piedra y el centro (1982) e Variaciones sobre el pájaro y la red (1991). Le Cántigas de alén (1980-1995), scritte fuori di Spagna nella lingua madre galega vietata dal franchismo, sono un’opera aperta a sé, con quattro edizioni accresciute, sul leit-motiv dell’alterità che crea una scrittura di confine nelle ultime raccolte. No amanece el cantor (1992) e Fragmentos de un libro futuro (2000), entrambi Premio Nacional de Poesia, sono libri dell’esplorazione della morte e dell’inattualità, in cui dimensioni sovrapposte ma eterogenee s’incontrano nel segno estremo di una scomparsa, trasparenza di ombre, cancellarsi di forme in puro canto. L’opera di Valente ha avuto negli ultimi anni molte edizioni e riedizioni parziali e continua a ricevere speciale attenzione di studio da parte di altri poeti. Le Obras completas vengono ora riunite da Galaxia Gutenberg/Círculo de Lectores di Barcellona, con esteso studio introduttivo, apparato essenziale e consistenti appendici: il vol. I Poesía y prosa (2006), da cui sono tratte le poesie che presentiamo, include l’opera di creazione (verso, prosa narrativa e drammatica, traduzioni); in appendice i testi sparsi e una scelta degli inediti più significativi conservati in forma compiuta, tra i quali l’intera raccolta poetica di progettato esordio Nada está escrito (1952-53) e numerose poesie. Il vol. II Ensayos, a cura di Claudio Rodríguez Fer, raccoglierà l’opera critica, con scritti memorabili di difficile reperimento e ulteriori complementi. Andrés Sánchez Robayna, direttore delle Obras,ha curato anche l’ottima scelta di El fulgor. Antologia poetica (1953-2000) (ivi 2002, edizione aggiornata con le ultime poesie; la prima era del 1998). In stampa il presente contributo, è uscito il volume Per isole remote. Poesie: 1953-2000, con studio introduttivo, traduzione e cura di Pietro Taravacci e postfazione di Massimo Cacciari (Metauro, Pesaro 2008). Fra i saggi recenti, da citare Limos del verbo di Antonio Domínguez Rey (Verbum, Madrid 2002), risultato di un lungo esercizio esegetico dell’opera valentiana; Valente: texto y contexto di Antonio Gamoneda è una lettura e un’indagine che riguarda l’evoluzione dei generi a partire dalle relazioni fra la poetica valentiana e la contemporaneità (di cui fa parte anche l’autore, coetaneo di Valente e Premio Reina Sofia nel 2006): il libro è edito dall’Università di Santiago de Compostela (Cátedra José Ángel Valente, 2007) che custodisce l’archivio e la biblioteca dello scrittore. L’ultima lettura di Valente in pubblico è raccolta da Amalia Iglesias Serna con un’intervista del 1989-90 nel volume Palabra y materia (Círculo de Bellas Artes, Madrid 2006) con CD audio annesso, in cui il processo compositivo si può seguire nei commenti e dalla voce del poeta.
« Serán ceniza...» Cruzo un desierto y su secreta desolación sin nombre. El corazón tiene la sequedad de la piedra y los estallidos nocturnos de su materia o de su nada.
Hay una luz remota, sin embargo, y sé que no estoy solo; aunque después de tanto y tanto no haya ni un solo pensamiento capaz contra la muerte, no estoy solo.
Toco esta mano al fin que comparte mi vida y en ella me confirmo y tiento cuanto amo, lo levanto hacia el cielo y aunque sea ceniza lo proclamo: ceniza. Aunque sea ceniza cuanto tengo hasta ahora, cuanto se me ha tendido a modo de esperanza.
«Saranno cenere...» Attraverso un deserto di segreta desolazione senza nome. Il cuore ha la secchezza della pietra e gli schianti notturni della sua materia o del suo nulla. C’è una luce remota, tuttavia, e so che non sono solo; benché dopo tanto e tanto ancora non esista pensiero che valga contro la morte, non sono solo.
Prendo infine la mano che è con me nella vita e a lei mi affido e tocco quanto amo, lo alzo verso il cielo e benché sia cenere, dico questo: cenere. Benché sia cenere quanto ho fino ad ora, quanto mi è stato stato dato a modo di speranza.
Da A modo de esperanza,1955 (A modo di speranza)
Objeto del poema Te pongo aquí rodeado de nombres: merodeo.
Te pongo aquí cercado de palabras y nubes: me confundo.
Como un ladrón me acerco: tú me llamas, en tus límites cierto, en tu exactitud conforme. Vuelvo. Toco (el ojo es engañoso) hasta saber la forma. La repito, la entierro en mí, la olvido, hablo de lugares comunes, pongo mi vida en las esquinas: no guardo mi secreto Yaces y te comparto, hasta que un día simple irrumpes con atributos de claridad, desde tu misma manantial excelencia.
Oggetto della poesia Ti metto qui circondato di nomi: mi aggiro.
Ti metto qui assediato di parole e di nubi: mi confondo.
Mi accosto come un ladro: tu mi chiami, nei tuoi limiti certo, alla tua esattezza conforme. Giro. Tocco
(è ingannevole l’occhio) fino a che so la forma. La ripeto, la seppellisco in me, la dimentico, parlo di luoghi comuni, metto la mia vita per le strade: non serbo il mio segreto. Giaci e ti condivido, fino a che un giorno semplicemente irrompi con attributi di chiarità, dalla tua stessa sorgiva eccellenza.
El cántaro El cántaro que tiene la suprema realidad de la forma, creado de la tierra para que el ojo pueda contemplar la frescura.
El cántaro que existe conteniendo, hueco de contener se quebraría inánime. Su forma existe sólo así, sonora y respirada. El hondo cántaro de clara curvatura, bella y servil: el cántaro y el canto.
Il vaso Il vaso che ha superlativa realtà di forma, affinché l’occhio possa vedere la frescura.
Il vaso che ha esistenza se contiene vuoto di contenere andrebbe infranto inanime. Esiste solo così la sua forma, sonora e respirata. Il vaso fondo dalla curvatura chiara, bella e servile: il vaso e il verso. Il vaso fondo Da Poemas a Lázaro,1960 (Poesie a Lazzaro)
Poeta en tiempo de miseria Hablaba de prisa. Hablaba sin oír ni ver ni hablar. Hablaba como el que huye, emboscado de pronto entre falsos follajes de simpatía e irrealidad.
Hablaba sin puntuación y sin silencios, intercalando en cada pausa gestos de ensayada [alegría para evitar acaso la furtiva pregunta, la solidaridad con su pasado, su desnuda verdad. Hablaba como queriendo borrar su vida ante un [testigo incómodo, para lo cual se rodeaba de secundarios seres que de sus desperdicios alimentaban una grosera vanidad. Compraba así el silencio a duro precio, la posición estable a duro precio, el derecho a la vida a duro precio, a duro precio el pan.
Metal noble tal vez que el martillo batiera para causa más pura. Poeta en tiempo de miseria, en tiempo de mentira y de infidelidad.
Poeta in tempo di miseria Parlava in fretta. Parlava senza udire, vedere, parlare. Parlava come chi fugge, imboscato di colpo tra false fronde di simpatia e irrealtà.
Parlava senza punteggiatura né silenzi, i ntercalando in ogni pausa gesti di studiata gaiezza per evitare forse la domanda furtiva, la solidarietà con il passato, la sua nuda verità.
Parlava come a voler cancellare la sua vita davanti a un [testimone scomodo e si circondava per questo di esseri succedanei che dei suoi avanzi alimentavano una rozza vanità.
Così comprava il silenzio a duro prezzo, la propria sicurezza a duro prezzo, il diritto alla vita a duro prezzo, a duro prezzo il pane.
Metallo nobile battuto forse dal martello per una causa più pura. Poeta in tempo di miseria, in tempo di menzogna e d’infedeltà.
Da La memoria y los signos,1966 (La memoria e i segni)
Picasso-Guernica-Picasso: 1973 No el sol, sino la súbita bombilla pálida ilumina la artificial materia de la muerte.
El espacio infinito de una sola agonía, las repentinas formas rotas en mil pedazos de vida violenta sobre la superficie lívida del gris.
No el sol, sino la pálida bombilla eléctrica del frío horror que hizo nacer el gris coagulado de Guernica.
Nadie puede tender sobre tal sueño el manto de la noche, callar tal grito, tal lámpara exinguir que alumbra la explosión de la muerte interminable, la cámara interior donde no puede reposar ni morir en el gris de Guernica la memoria.
Picasso-Guernica-Picasso: 1973 Non il sole, l’improvvisa lampadina pallida illumina la materia artificiale della morte.
L’infinito spazio di una sola agonia, le repentine forme rotte in mille pezzi di vita violenta sulla superficie livida del grigio.
Non il sole, la pallida lampadina elettrica del freddo orrore che fece nascere il grigio coagulato di Guernica.
Nessuno su quel sogno può stendere il manto della notte, ridurre al silenzio quel grido, quella lampada estinguere che abbaglia l’esplosione della morte interminabile, il fotogramma interiore in cui non può riposare né morire nel grigio di Guemica l a memoria.
Da Interior con figuras,1976 (Interno con figure)
Como el oscuro pez del fondo Como el oscuro pez del fondo gira en el limo húmedo y sin forma, desciende tú a lo que nunca duerme sumergido como el oscuro pez del fondo Ven al hálito.
Come l’oscuro pesce di fondo Come l’oscuro pesce di fondo gira nel limo umido ed informe, immergiti in quello che non dorme mai sommerso come l’oscuro pesce di fondo. Vieni all’alito Luego del despertar Luego del despertar y mientras aún estabas en las lindes del día yo escribía palabras sobre todo tu cuerpo.
Luego vino la noche y las borró. Tú me reconociste sin embargo.
Entonces dije con el aliento sólo de mi voz idénticas palabras sobre tu mismo cuerpo y nunca nadie pudo más tocarlas sin quemarse en el halo de fuego.
Dopo il risveglio Dopo il risveglio e mentre ancora stavi sul limitare del giorno io ti scrivevo parole su tutto il corpo.
Dopo venne la notte, le cancellò. Tu, però, mi riconoscesti.
Allora dissi con il respiro solo della voce identiche parole sul tuo stesso corpo e mai nessuno più poté toccarle senza bruciarsi nella scia del fuoco.
Da Material memoria, 1979 (Memoria materiale)
Mandorla Estás oscura en tu concavidad y en tu secreta sombra contenida, inserita en ti.
Acaricié tu sangre. Me entraste al fondo de tu noche ebrio de claridad.
Mandorla.
Mandorla Oscura stai nella concavità ed in segreta ombra contenuta, in te inscritta.
Ti carezzai il sangue. Tu mi facesti entrare nel profondo della notte ebbro di chiarità.
Mandorla.
Hera Paestum. Mil novecientos setenta y tres. En Paestum puse la planta oscura de la profanación en el umbral secreto de la diosa y vomité palabras líquidas y negras en cuanta sombra allí pudiera guardar la huella de sus pliegues de oro.
De antiguo opté por la lechuza, no por tus ojos de ternera. Conserva tú nupcial el lecho de la persecución y la venganza. Sobreviven Tiresias, Semele e lo. Tú no, vindicativa.
Ofrecí bilis negra en el umbral del templo. Gusté del agrio sabor de la blasfemia. Paestum. También mueren los dioses, venerable.
Era Paestum. Millenovecento settantatré. A Paestum posi l’orma scura della profanazione sulla soglia segreta della dea e vomitai parole nere e liquide in tutta l’ombra che lì potesse serbare traccia dei suoi panneggi d’oro.
Da tempi antichi optai per la civetta, non per i tuoi occhi bovini. Tienti nuziale il letto della persecuzione e la vendetta. Sopravvivono Io, Tiresia e Semele. Non tu, vendicativa.
Offrii nera bile sulla soglia del tempio. Gustai il sapore aspro della bestemmia. Paestum. Anche gli dèi, venerabile, muoiono.
Da Mandorla, 1982 (Mandorla)
XXVIII A los recintos últimos del alma nocturno entraste, cuerpo, para que no pudiera morir, para llevarla en tus desnudos brazos a la raya del sol, en el ardiente confin del día o de la luz que ya se avecinaban.
(Epitalamio)
XXVIII Negli ultimi recinti dell’anima notturno entrasti, corpo, perché non potesse morire, per portarla sulle tue nude braccia alla linea del sole, sull’ardente confíne del giorno o della luce che ormai si avvicinavano.
(Epitalamio) Da El fulgor, 1984 (Il fulgore) (Testi tratti da: José Ángel Valente, Obras completas. I Poesía y prosa, Edición de Andrés Sánchez Robayna, Galaxia Gutenberg / Circulo de Lectores, Barcelona 2006. Traduzioni di Lucia Valori). ¬ top of page |
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