« indietro Poesia catalana classica di Ausias March In: Semicerchio LV (02/2016) “30 anni” pp.116-119. José María Micó (Barcellona, 1961) insegna Letteratura spagnola all’Universitat Pompeu Fabra e vi ha promosso il primo Master in Creazione Letteraria. Nella sua opera filologica, edizioni di grandi classici – Mateo Alemán, Cervantes, Quevedo – con rilevanti contributi su Góngora; fra le traduzioni, le Satire di Ariosto (Barcelona, Peninsula 1999) e l’Orlando furioso (Madrid, Espasa-Blu 2005; 20102), Premio Internazionale Diego Valeri (2005) e Nazionale per la Traduzione in Spagna e in Italia (2006 e 2007). Micó traduttore estende l’assonanza – rima delle vocali in clausola attecchita in Spagna prima di quella piena e mai smessa – a una trama fonosemantica interna con inedita naturalezza. Recente lo studio comparativo Las razones del poeta. Forma poética e historia literaria, de Dante a Borges (Madrid, Gredos 2008). I suoi libri di poesia, La espera (1992, Premio Hiperión), Letras para cantar (Pamplona, Pamiela 1997), Camino de ronda (Tusquets, Barcelona 1998), Verdades y milongas (DVD 2002) e La sangre de los fósiles (Barcelona, Tusquets 2005), sono antologizzati in Prima stazione. Poesie scelte 1992-2005, a cura di Francesco Luti (Firenze, Polistampa 2008). Tema prediletto il tempo, che l’effigie della forma trattiene corrispondendo a delicate evanescenze dello spirito. La familiarità letteraria con l’Italia, in corso la versione della Commedia dantesca, fruttifica nella lingua: fra gli ultimi inediti la poesia (in autotraduzione) Ancora una notte orribile («Láminas» 11b, 2010, <http:// www.jmmj.eu>). Fra le grandi letterature minoritarie, quella catalana trova in Ausias March un archetipo, secondo Micó, che ha tradotto anche il coevo Jordi de Sant Jordi (Poesía, Barcino-DVD 2009). March ha un’ottima edizione con commento e traduzione di servizio di Costanzo Di Girolamo (Pagine del Canzoniere, Luni, Milano 1998). Queste prime traduzioni italiane di Micó anticipano il progetto di una versione calibrata anche sulla musica del verso, che segue quella spagnola (Páginas del Cancionero, Valencia, Pre-Textos 2004). Lucia Valori
Circa ottanta anni dopo la morte di Ausias March (Valenza, 1400-1459), il poeta Juan Boscán scrisse che appresso i trovatori provenzali «vennero fuori molti ottimi autori catalani, tra cui il più eccellente è Osias March, in onore del quale, se io ora mi trattenessi un po’, non potrei tornare così presto a quelloche ho per le mani». Non è facile, certo, fare giustizia in un breve spazio ai meriti straordinari di chi è stato definito – cito l’autorevole giudizio di Costanzo Di Girolamo – «il più grande poeta lirico europeo del quindicesimo secolo». Detto a proposito dello stesso secolo di François Villon e di Jorge Manrique può sembrare un’esagerazione, ma non lo è affatto, perché March, molto apprezzato in vita (per il Marchese di Santillana era un «grande trovatore e uomo di altissimo spirito»), si guadagnò ben presto lo status di classico e fu, dopo il Petrarca, l’autore più letto, rispettato ed imitato dai poeti spagnoli del Rinascimento, con Garcilaso de la Vega in testa. La biografia del poeta è tipica di un signore feudale: servizi al suo re, campagne militari, spedizioni marittime, figli bastardi, ed anche litigi, sfide e vendette. Quando decise di ritirarsi nei pressi di Gandia per prendersi cura dei suoi beni e per scrivere delle poesie, la prosa letteraria in catalano aveva quasi duecento anni di storia, ma la lingua della poesia era ancora quella occitanica. In un certo senso, si può dire che l’ultimo dei trovatori è stato un altro valenzano, il suo amico Jordi de Sant Jordi; tuttavia, l’importanza di Ausias March come il primo poeta della letteratura catalana (e primo va inteso sia cronologicamente che qualitativamente) non è dovu-a ad alcune circostanze storiche particolari, ma a qualcosa di molto più elementare e meno logico: l’imprevedibile incoerenza del genio. Non è che March avesse l’intenzione di fare qualcosa di diverso da quello che hanno fatto i trovatori: in sostanza continuava a parlare di amore a seguito delle stesse convenzioni generiche e degli stessi requisiti formali (tra cui l’adorazione di qualche donna nascosta sotto il rispettivo senhal: Piena di senno, Giglio tra i cardi, ecc.), ma la sua voce è sempre dirompente, perturbatrice e inconfondibile, anche quando finisce inevitabilmente smorzata nelle traduzioni. L’amore in March non è soltanto un tema letterario, in quanto raggiunge vari gradi di preoccupazione filosofica o dottrinale e, soprattutto, si presenta come il risultato della esperienza di un particolare uomo, un uomo così concreto che viene individuato senza equivoco: «Jo sóc aquest que em dic Ausias March». Un uomo che ci confessa le sue angosce e ci espone i suoi dolori, non proprio in termini di semplice sincerità biografica, ma di consapevole autenticità d’espressione, che è ciò che richiede l’arte della poesia. Il tormento d’amore e la paradossale speranza nella morte lasciano il segno sulla carne dell’uomo: nell’impeto sessuale del giovane in vigore, nel disagio dell’innamorato malinconico, nella decrepitezza dell’anziano malato. E nell’aria torbida di March plana di continuo l’avvoltoio dell’impossibile soddisfazione del proprio desiderio, tra l’altro a causa della difficoltà di raggiungere l’amore «misto», quello composto sia di appetito bestiale che di anelito spirituale: «La carne vuole carne, e non c’è scampo». La vecchia divisione tematica dell’opera di March in canti d’amore, canti morali e canti di morte attenua l’unità discorsiva dell’insieme (128 poesie per un totale di circa 10.000 versi) e mette in evidenza, forse anche troppo, l’unicità del Canto spirituale, un capolavoro della poesia penitenziale, pezzo disarticolato e convulso come tanti altri dell’autore e come conviene ad un uomo perplesso che chiede aiuto a Dio perché non è molto convinto della propria devozione: Dammi, Signore, il fuoco della fede sicché bruci la parte ancora fredda. L’unità e la grandezza di March risiedono principalmente in quello che potremmo chiamare un atteggiamento di espressione, in un linguaggio ricco di elissi e di anacoluti che esaspera i grammatici e fa disperare i traduttori, ma che non cessa mai di stupirci per via della sua scarna forza. A volte è complesso e concettoso, a volte esplicito ed imbarazzante, e spesso si mostra ornato con efficaci paragoni tratti dalla vita quotidiana: il biscaglino che si è ammalato in Germania e non sa esprimersi nella lingua del posto, la madre che avvelena il figlio per non contrariarlo, il giovane servo in cerca delle carezze del suo padrone, il mare che bolle come una pentola in forno, il dottore che sbaglia la cura, il ballerino che inciampa... Sono particolari e personaggi di un mondo figurato e sono anche le vie di uscita di un’anima in costante ebollizione. Ausias March è un poeta moderno perché riuscì a intuire e a mostrare che la poesia non consiste soltanto nel disporre «delle belle parole qualificative / per esprimere amore illimitato» (lo dico con due versi di Ángel González, che pure lo sapeva) e perché la sua opera continua a ispirare i poeti di oggi. Al lettore italiano che va alla ricerca del poeta più alto e più profondo della letteratura catalana e vuole capire, oltre i confini della lingua, la natura e le conseguenze della creazione poetica, basta cominciare dall’inizio: cioè, da Ausias March.
I
Així com cell qui en lo somni·s delita e son delit de foll pensament ve, ne pren a mi: que·l temps passat me té l’imaginar, que altre bé no hi habita, sentint estar en aguait ma dolor, sabent de cert que en ses mans he de jaure. Temps d’avenir en negun bé·m pot caure; ço que és no-res a mi és lo millor.
Del temps passat me trop en gran amor, amant no-res pus és ja tot finit. D’aquest pensar me sojorn e·m delit, mas quan lo perd, s’esforça ma dolor: sí com aquell qui és jutjat a mort e de llong temps la sap e s’aconhorta, e creure·l fan que li serà estorta, e·l fan morir sens un punt de record.
Plagués a Déu que mon pensar fos mort e que passàs ma vida en dorment. Malament viu qui té son pensament per enemic, fent-li d’enuigs report, e com lo vol d’algun plaer servir li’n pren així com dona ab son infant que, si verí li’n demana plorant, ha tan poc seny que no·l sap contradir.
Fóra millor ma dolor soferir que no mesclar poca part de plaer entre aquells mals qui·m giten de saber. Com del pensat plaer me cové eixir, las!, mon delit dolor se converteix, dobla’s l’afany aprés d’un poc repòs: sí co·l malalt que per un plasent mos tot son menjar en dolor se nodreix;
com l’ermità qui enyorament no·l creix d’aquells amics que havia en lo món, essent llong temps que en lloc poblat no fon, fortuït cas un d’ells li apareix qui los passats plaers li renovella, sí que·l passat present li fa tornar, mas com se’n part, l’és forçat congoixar. Lo bé com fuig ab grans crits mal apella.
Plena de seny, quan amor és molt vella, absença és lo verme que la gasta, si fermetat durament no contrasta e creure poc si l’envejós consella.
I
Come colui che gode in mezzo al sogno e il suo piacer non è che un pensier folle, così succede a me: nella mia mente, colma del tempo andato, non c’è altro, sapendo che il dolore sta in agguato e per certo cadrò nelle sue mani. L’avvenire non può portarmi bene; quel che è nulla è per me quanto di meglio.
Io sono un grande amante del passato, che è amare il nulla, perché è già finito; questo pensier mi dà molto piacere, ma se va via cresce il mio dolore, come succede al condannato a morte che da tempo lo sa e se ne rincuora: se gli dicono poi che avrà la grazia, lo mandano a morir senza ricordi.
Volesse Dio morto il mio pensiero e che passassi la vita dormendo! Vive male chi ha la mente contro, facendogli rapporto di ogni pena, e se mai un piacere gli concede, fa come madre con il suo bambino: è così folle che, se lui piangendo chiede un veleno, lei non glielo nega.
Sarebbe meglio reggere il dolore che mescolare un poco di piacere ai mali che capire non mi fanno se devo uscire del piacer sognato. Ahimé, la gioia si converte in pena; dopo un breve riposo, il cruccio è doppio, come il malato che un boccone anela e nutrisce soltanto il suo dolore.
O come l’eremita, che da quando vive da solo ha smesso di rimpiangere tutti gli amici che nel mondo aveva, ma se capita un giorno uno di loro, gli rinnova i piaceri di una volta e gli rende presente il suo passato; quando parte, lo lascia nell’angoscia: il bene in fuga chiama urlando il male.
Piena di senno, se l’amore è vecchio, l’assenza è il verme che lo rode e guasta, se non si oppone ferma la costanza senza mai dare retta all’invidioso.
LXVIII No·m pren així com al petit vailet qui va cercant senyor qui festa·l faça, tenint-lo cald en lo temps de la glaça e fresc d’estiu com la calor se met, preant molt poc la valor del senyor e concebent desalt de sa manera, veent molt clar que té mala carrera de canviar son estat en major.
Jo són aquell qui en lo temps de tempesta, quan les més gents festegen prop los focs, e pusc haver ab ells los propis jocs, vaig sobre neu, descalç, ab nua testa, servint senyor qui jamés fon vassall ne·l venc esment de fer mai homenatge; en tot lleig fet hagué lo cor salvatge; solament diu que bon guardó no·m fall.
Plena de seny, lleigs desigs de mi tall. Herbes no·s fan males en mon ribatge: sia entés com dins en mon coratge los pensaments no·m devallen avall. (da Páginas del Cancionero, 2004) LXVIII Non faccio come il piccolo valletto in cerca di un signore che lo coccoli, lo tenga al caldo quando arriva il freddo e al fresco quando c’è l’afa d’estate: lui stima molto poco il suo signore e prova spregio per le sue maniere, vedendo chiaro che è cattiva strada per far cambiare in meglio il proprio stato.
Io sono quel che in tempo di tempesta, quando tutti fan festa accanto al fuoco e io potrei goder con loro, vado a testa nuda e scalzo sulla neve; servo un signor che non fu mai vassallo e che a nessuno volle fare omaggio; ebbe il cuore ribelle alle viltà e mi dice soltanto che avrò un premio.
Piena di senno, taglio i brutti impulsi: nel mio campo non crescono le erbacce: sia capito che dentro il mio cuore i pensieri non scendono mai in basso.
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