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Voci della lirica bizantina

di Gianfranco Agosti

 

In: Semicerchio LV (02/2016) “30 anni”, pp.120-127.

 

Includere la poesia bizantina in una tavola rotonda dedicata alla traduzione della lirica medievale non era cosa affatto scontata, e non tanto perché oggi nessuno sottoscriverebbe più i recisi giudizi dei classicisti, come quelli di Giorgio Pasquali sulla mancanza di originalità della letteratura bizantina (parole che hanno avuto tanto peso in Italia)o di Romilly Jenkins (Ğuna letteratura in cui non c’è nulla che si possa leggere per il puro piacere letterarioğ), visto che gli studi sulla letteratura, e in particolare sulla poesia, a Bisanzio sono in una fase di grande crescita. Ma la conoscenza presso un più ampio pubblico di questo enorme patrimonio letterario è ancora scarsa, e ‘bizantino’ rimane sinonimo di artificioso, se non di infidamente complicato.

Certo, l’alterità delle categorie estetiche dei bizantini non facilita un approccio diretto au plaisir du texte. E proprio nell’idea di lirica la distanza si avverte maggiormente: quella che per noi è quasi scontata, la visione della lirica come espressione del soggettivo, del mondo interno dell’animo che riflette e si arresta presso di sé (das Sichaussprechen), esprimendosi in una poesia intimistica, è fondamentalmente estranea al mondo bizantino. Per l’estetica classica, che a Bisanzio i teorici continuano a esperire, è piuttosto il modo della narrazione a essere determinante al pari degli oggetti di imitazione e del modo di imitare (ciò che dà luogo alla distinzione fra opere narrative, drammatiche e miste, secondo quanto dice Aristotele). A ciò si aggiunge l’importanza data alla mimesi della realtà, che rende difficile capire chi sia l’io che parla, la persona loquens che non necessariamente coincide con l’autore.

Al pari della poesia classica (si pensi ai lirici greci arcaici) occorre sempre guardarsi dalla facile identificazione fra poesia e autore, anche quando il poeta sembra parlare con accenti personali – specie in assenza di dati biografici sicuri. Ad esempio, i carmi del XII secolo che vanno sotto il nome di Ptochoprodromica (cioè poesie del Prodromo pitocco) sono dei divertissements letterari che mettono alla berlina la società costantinopolitana e gli ambienti monastici (rappresentati come corrotti): il quarto mette in scena un poeta povero e affamato, che lamenta la propria misera condizione sociale, secondo una tradizione che in Grecia risale ad Ipponatte, e difficilmente si può pensare a una identità fra poeta e situazione descritta. Anche nel caso di autobiografismi che appaiono sinceri il filtro delle convenzioni letterarie e ideologiche consiglia prudenza: nella seconda metà del IX secolo, uno sconosciuto poeta di carmi anacreontici, Elia sincello (segretario), descrive con accenti accorati la sua vicenda di monaco messo alla prova dalla perdita di un confratello e caduto nella tentazione carnale. Anacr. 2.45-56 Ciccolella:

 

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Guido un infelice giovane, padre di passioni, per mia grande sventura, che di nuovo come prima mi fa schiavo d’ignominie. Ahimè infelice, mi mostrai sterile albero selvatico, e per questo temo il taglio che troppo vicino incombe. Me infelice che farò, indugiando nel peccato, poiché per me il tempo trascorse avanzando di nascosto come un ladro?

Elia prosegue deplorando la propria funesta passione per il novizio, che gli causerà la condanna eterna di fronte al tribunale divino. Ma la fosca e disarmante confessione termina con una preghiera al Cristo, perché eserciti la sua misericordia verso il peccatore e un invito agli ‘uomini pii’ a condividere con Elia il lamento (vv. 89-92):

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Elia esorta i confratelli a partecipare al suo dolore recitando una anacreontica di lamento (??????c) nello stile di quello che a Bisanzio era considerato il modello insuperato di questo genere di canto, Sofronio di Gerusalemme (vissuto fra la fine del VI e i primi decenni del VII secolo). L’autore esplicita dunque il tipo di poesia che ha composto, un carme ‘trenetico’, di lamento, uno dei sottogeneri più diffusi della poesia religiosa a Bisanzio, caratterizzato da un repertorio costante di immagini e di situazioni convenzionali (attese cioè dal pubblico). È difficile dunque distinguere quanto nel carme di Elia è riproposizione di strutture collaudate e quanto è veramente personale; la dimensione di exemplum morale che viene esplicitata nei due distici finali mostra come la poesia fosse concepita dal suo autore con una funzione didascalica, che poco a che fare col nostro concetto di lirica.

Ma questo non implica che il lettore moderno non possa apprezzare nei testi bizantini un certo tasso più o meno elevato di lirismo, secondo i canoni modervni. Si tratta solo di sapere dove cercare. A Bisanzio i generi letterari continuano ad avere una precisa fisionomia, che si rifletteva non solo sulla selezione dei modelli classici da imitare, ma anche sulla modalità di esecuzione (particolarmente importante nel caso dell’innografia, anch’essa in versi ma legata alla musica e alla performance liturgica). Se con ‘lirica’ intendiamo la poesia in prima persona, secondo le modalità enunciative ed imitative classiche, sarà facile trovare della lirica nella poesia religiosa di tipo innico (come gli inni di Sinesio all’inizio del V secolo, o quelli di Simeone il Nuovo Teologo nel X), nell’elegia in metri classici, nei carmi anacreontici, e persino nell’epigramma.

Premesse tardoantiche

La poesia bizantina affonda le sue radici nella tarda antichità (III-VI sec.), periodo che vede l’elaborazione di una estetica nuova rispetto a quella classica, e di cui molti aspetti passeranno a Bisanzio (non a caso Averincev definisce il periodo come antico-bizantino). Prendiamo l’elegia: se in Occidente la tradizione romana aveva innestato in questo genere la soggettività, in Oriente è solo nel IV sec. che Gregorio di Nazianzo compie un passo decisivo, trasformando l’elegia in un carme di riflessione esistenziale, in cui la natura agisce da correlativo oggettivo dell’angoscia del poeta (carme I.II.14). È un lungo poemetto di 132 versi, per il cui inizio si è evocato Petrarca (sono i versi qui riprodotti); nella parte centrale Gregorio descrive il suo spleen, fino a quando il pensiero di Dio e della salvezza non gli ridona serenità facendogli riconoscere l’umana ??????f?e???. Un testo difficile per un traduttore, messo a dura prova da una lingua che riplasma i modelli classici, concen- trando su ogni parola un sovrasenso di significato al contempo filosofico e religioso (è l’aspetto cristiano più vitale di quello ‘stile prezioso’ che è tipico della poesia tardoantica). Gregorio è ancora per il grande pubblico italiano un poeta tutto da scoprire: a fronte di ottime edizioni scientifiche, con commenti molto accurati, ed anche di una completa traduzione in prosa, si sente la mancanza di una antologia che lo valorizzi nelle sue potenzialità poetiche.

Gregorio di Nazianzo, Poesie 2.1.14, PG 37.755- 765, vv. 1-26

 

 

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Ieri, oppresso dalle mie pene, solo in disparte dagli

altri

me ne stavo in un bosco ombroso, rodendomi il

cuore;

poiché amo questo rimedio negli affanni:

tacito, parlare solo col mio cuore.

Le aure sussurravano insieme con i canori uccelli,                                       5

donando dai rami un dolce torpore

anche al cuore molto afflitto; e dagli alberi,

le cicale dal petto canoro, armoniose, amiche del

sole

facevano risuonare di canti tutto il bosco.

Accanto, fresca acqua sfiorava i piedi,                                                        10

lene fluendo pel rorido bosco. Ma io

così rimanevo, in preda a violento dolore, com’ero.

Non mi curavo di quelle cose, poiché l’animo,

quando sia ingombro

di affanni, non ama accogliere godimento;

ma solitario, la mente sconvolta da un turbine,                                              15

tale contesa avevo di opposte parole:

chi fui, chi sono, che cosa sarò? Non so bene;

e nemmeno chi sia superiore a me in sapienza.

Ma avvolto di nebbia qua e là,

vado errando, senza avere nulla, nemmeno in sogno, di ciò che bramo.

Tutti noi invero siamo abietti ed erranti, sui quali 20

è sospesa fosca nube di pesante carne;

ma di me è più sapiente chi più degli altri

inganna la menzogna loquace del suo cuore.

Io sono. Spiega, che cosa vuol dire questo?

Qualcosa di me passò via:                                                                                   25

altra cosa sono ora, altra sarò, se pure sarò.

 

 

Il carme di Gregorio non è isolato: nell’età di Giustiniano l’epigrammista Agazia (Anthologia Palatina 5.292 = epigr. 5 Viansino) durante un suo viaggio lontano da Costantinopoli ha inviato all’amico Paolo Silenziario un biglietto poetico per esprimere in toni assai simili la nostalgia per gli affetti amicali e amorosi, proiettandola sullo sfondo di un paesaggio idealizzato (che ammicca alle ambientazioni teocritee).

Ma il lettore può imbattersi in passi che volentieri ascriverà a un soffuso lirismo, provenienti da generi meno attesi come la poesia epica. Nelle Dionisiache di Nonno di Panopoli, un poeta egiziano del V secolo che ha avuto l’ambizione di comporre un poema epico su Dioniso in 48 libri, rivaleggiando con Omero e sperimentando suggestioni provenienti da tutti i generi letterari della grecità, non manca la descrizione di un notturno in cui è descritta la pena d’amore di un guerriero Indiano per una bella Baccante: un passo che ha attratto più di un traduttore (Dionisiache 33.263-281). Com’è sua abitudine, Nonno prende le mosse da un prestigioso modello (in questo caso un passo delle Argonautiche di Apollonio Rodio, 3.744750) per poi proseguire su una strada autonoma. Un traduttore di grande finezza come Filippo Maria Pontani, in uno dei suoi ‘esperimenti’ di traduzione da Nonno non ha resistito a enfatizzare la vocazione lirica di questi versi:

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p?cc?` pa?????ct??c?? ?´??? e?ct?e??et? ????e?c

 

L’angoscia era un ronzio caparbio. Si struggeva

Al ricordo di lei: nel buio più brucianti si fanno faville

d’amore.

Già nereggiava tacito il cono d’una tenebra

Senza nubi, balzando col suo palpito d’ombra:

e livellò le cose in un silenzio lungo, allibito.

Né viandante dell’India accelerava

per la città l’orma del passo;

né donna operosa toccava il suo travaglio usato.

Presso la lampa amica della rocca, sbandava

Dal noto girotondo fra le mani il fuso,

né dondolava il suo perpetuo moto

al tratto ballerino dello stame.

Presso la lampa amica della veglia, dormiva

L’industriosa donna, con la testa

Pesa. Un serpente strisciò cheto, e giacque.

Afferrata col capo la ritrattile coda,

prono sul ventre sonnacchioso

contraeva la scia lunga del dorso.

E un altero elefante, presso un muro,

ritto, poggiato a un albero, dormiva.

Solo, insonne, smaniato, strisciando col passo

felpato, si struggeva Morrèo; e sempre

all’abbrivo tornava la sua ronda

La scelta di rendere ?????c con Ğlampağ, di lirizzare la descrizione del movimento della spola, che nell’originale è condotta con precisione quasi scientifica, e quella di modernizzare i sentimenti di Morreo in una Ğangosciağ, sortiscono nell’insieme un effetto che è assai interessante, anche se non corrisponde esattamente al tono epico dei versi greci. Un bell’esempio di traduzione infedele, se si vuole, ma che rende un ottimo servigio alla poesia di Nonno.

 

Voci liriche della media età bizantina

Esiste un periodo in cui nella poesia bizantina la voce del poeta si affaccia più decisamente e io poetico e autore si identificano: nel IX e X sec., in concomitanza con la rinascita culturale nell’età dei Macedoni e poi successivamente col cambiamento del rapporto col potere nell’XI sotto i Comneni, i poeti bizantini affermano la propria personalità in modo più deciso. Poeti come Giovanni Geometra, il suo maestro Giovanni Mauropode, e poi Cristoforo di Mitilene, Psello mettono il proprio soggetto in primo piano nella produzione poetica. Nella lirica religiosa la poesia mistica non canta solo la creazione, ma descrive il tentativo dell’anima di attingere con gli occhi della mente, attraverso la luce, la sorgente della luce. Questa dimensione trascendente, che si traduce in un linguaggio immaginifico e sublime, ha avuto il suo cantore più ispirato in Simeone il Nuovo Teologo, vissuto fra la metà del X e i primi decenni dell’XI sec., il più importante poeta mistico di Bisanzio, non inferiore ai grandi esponenti della poesia mistica occidentale. Autore di una ricca raccolta di poesia (che superano i diecimila versi), indicata complessivamente col titolo di Inni degli amori divini, Simeone mette al centro della sua innodica la metafisica della luce, l’unione mistica che permette il totale abbandono all’agapi, adottando un linguaggio apparso talora di incomprensibile novità ai suoi contemporanei. Una poesia che non è né liturgica né dogmatica: piuttosto si tratta di una personalissima esperienza della grazia, di un arduo tentativo di tradurre in ritmo poetico l’esperienza ineffabile. Un grande poeta, di cui non disponiamo ancora in italiano di una moderna traduzione (compito peraltro non facile per un traduttore). Leggiamo l’inizio dell’Inno 38.1-22

Quale strada potrò seguire, quale sentiero evitare?

Quale scala salirò, da quale porta entrerò?

Come aprirò la porta e di quale stanza?

Come sarà la casa in cui troverò

Colui che tiene nel palmo della mano l’universo?

Quale monte salirò, in quale plaga,

in quale caverna camminerò a tentoni,

quale palude traverserò per esser degno

di vedere e di afferrare Colui che è dovunque

che è inafferrabile, che è invisibile?

In quale inferno scenderò, in quale cielo

salirò, ai confini di quale mare

potrò trovare Colui che è ovunque inaccessibile,

colui che è senza confini, che non si può toccare,

immateriale nella materia, creatore nel creato,

incorruttibile nella corruzione. Dimmi, come lo troverò?

Come posso uscire dal mondo, io che sono nel

mondo,

come posso unirmi all’immateriale,

io che sono avvinto alla materia.

Come posso entrare nell’incorrotto,

io che sono tutto corruzione.

Io che sono nella morte come posso accostarmi

alla vita,

come posso avvicinarmi all’immortale,

io che sono un morto.

Io, interamente paglia, come oserò accostarmi al

fuoco?

Accennavo sopra che fra i generi che accolgono momenti lirici l’epigramma ha avuto un ruolo di primo piano. Sempre nel X sec., Giovanni Geometra, nei suoi carmi in metri classici (che sono solo una piccola parte della sua produzione) riprende i temi e il tono di Gregorio di Nazianzo, specie negli epigrammi elegiaci. Come Gregorio ha infatti composto una serie di poemi a se stesso (e??c e?a?t??), in cui il soggetto lirico si afferma con decisione, sia pure dietro il riuso di topoi letterari e biblici (che per i Bizantini non erano un impedimento alla creazione poetica, ma semmai l’imprescindibile langue di riferimento). Ecco tuttavia un esempio del primo caso (carm. 75 van Opstall):

 

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Il cupo suono del mare e le infinite ombre della terra

a testa alta le ho percorse intrepido, quando volli.

Ma è quel viaggio per mare che temo di affrontare,

quando lascerò la vita. So che questo viaggio lungo

e indicibile conduce al cielo, un viaggio arduo,

oscuro, inaccessibile.

Allora il fardello della carne mi peserà – come la ruggine

che grava sul ferro –, gravame che le tristi e lunghe

cure, le angosce della mia esistenza

e la macchia del cibo che parve dolce agli antenati,

hanno creato.

Un secolo più tardi, Giovanni Mauropode, intellettuale e poeta, maestro di Psello, e collaboratore di Costantino IX Monomaco (1042-1055) fino a che non fu costretto a divenire metropolita di Eucaita (1048), ha dedicato alla propria casa un carme di riuscito patetismo (p. 47 Bollig-de Lagarde, vv. 15-28, 45-53):

 

 

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[Il tuo padrone] ti piange anche troppo, mia cara,

tu suo dolce possesso, tu focolare paterno,

tu unico dono e retaggio dei suoi.

E mi morde alle viscere e al cuore

l’amore per te, caldo e consueto:

tu infatti, carissima, sei stata per me balia e nutrice,20

tu sola precettore e maestro;

in te ho sopportato lunghe pene e travagli,

in te ho passato notti intere di veglia,

in te ho passato i giorni sudando sulle mie opere – c

orreggevo, a volte componevo di nuovo – 25

giudicando contese fra discepoli e maestri,

pronto a rispondere a tutti,

dissugandomi sulle scritture e sui libri. […]

Tuttavia salve, salve, mia seconda madre, 45

tu che mi hai allevato e nutrito,

e che da bimbo fino all’ultimo grado

mi hai cresciuto e formato.

Ora avrai altri, che educherai e nutrirai,

ad altri offrirai il tempo adatto alle lettere, 50

se pure amano le lettere: non più a me.

Addio dunque, addio anche a te, fido angolo,

in cui ho vissuto nascosto la vita precedente!

Un testo dai toni accorati e intimistici, cui si adattano anche le strutture retoriche più attese, e che ricorda il carme di addio di Alcuino al proprio monastero, o quello che Gregorio di Nazianzo ha dedicato alla chiesa dell’Anastasis a Costantinopoli.

Il rimpianto è uno dei sentimenti che più spesso si incontrano nella poesia bizantina: rimpianto per un abbandono, per una perdita dolorosa, per un mondo che non esiste più. L’ambivalenza del rapporto con i classici greci, rappresentanti di una cultura profana ma terribilmente attraenti, alimenta alcune delle poesie più belle e toccanti di questa letteratura. Val la pena, dunque, di concludere questo breve sondaggio con i dodecasillabi (evoluzione del trimetro giambico) che un uomo di chiesa e fine letterato del XII secolo, Michele Coniate, ha dedicato alla decadenza di Atene. Nominato patriarca della città, Michele descrive in una famosa lettera (l’epist. 8) con verve e raffinata cultura la delusione al suo arrivo nella città, Ğmadre della sapienzağ: povertà, imbarbarimento degli abitanti, rovina ovunque. Anche se il quadro che Michele delinea è sicuramente forzato nei toni drammatici, ciò non impedisce ai suoi versi di esprimere accenti sinceri e l’amore per l’antica paideia di cui Atene era la madre e la patria sognata. E così, come gli amanti separati dal loro oggetto d’amore, anche Michele non può far altro che tracciare un ritratto della città che ama e riempire con esso il suo vuoto.

 

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L’amore per Atene, celebre una volta,

ha scritto questi versi scherzando con le ombre,

raggelando l’ardore del desiderio.

Perché in nessun luogo mi fu possibile vedere

quella città, quella città famosa

che è scomparsa negli abissi dell’oblio

del tempo senza fine, eternamente lungo.

E io soffro le pene degli amanti, senza scampo:

non potendo avere la vera immagine del loro amore

accanto a sé, guardandone il ritratto – si dice –

consolano il fuoco della passione.

E io infelice, come un nuovo Issione,

io amo Atene, come lui amava Era,

abbracciando di nascosto una sua statua.

Soffro e parlo e scrivo!

Abito ad Atene e non vedo Atene,

ma una sudicia polvere e una vuota felicità.

Dove sono i tuoi santi luoghi, misera città?

Tutto è lasciato ai miti,

i processi, i giudici, le tribune, i voti, le leggi,

le assemblee, la persuasiva forza degli oratori,

consigli, riunioni e spedizioni

di fanti e marinai,

la Musa versicolore, la forza delle lettere.

È perita tutta la gloria di Atene,

nemmeno un fosco barlume a riconoscerla.

Ch’io sia dunque perdonato, se non potendo

guardare la città famosa degli Ateniesi

un’immagine di parole ho innalzato.

 

 

Appendice. Le principali traduzioni in Italia

Per finire, un accenno al panorama editoriale italiano. Un ruolo storico nella diffusione della conoscenza della poesia tardoantica e bizantina lo ha avuto l’antologia di Raffaele Cantarella nata per esigenze universitarie e uscita nel 1947 (e ristampata con aggiornamenti a cura di Fabrizio Conca, Milano, BUR 1992), due volumi assai ricchi che vanno dagli Oracoli Sibillini a poemi della metà del XV sec. (l’ultimo testo è un idillio pastorale allegorico-politico, che ricorda certi carmi pastorali carolingi o quelli della tradizione petrarchesca); l’ampiezza della scelta e il sicuro gusto di Canterella traduttore ne fanno ancor oggi uno strumento indispensabile per accostarsi a questa poesia (e la sua ricchezza è rimarchevole, se confrontata ad es. con l’antologia curata da B. Baldwin, An Anthology of Byzantine Poetry, Amsterdam 1985, che si presenta come una scelta fortemente autonoma, con un maggior apparato erudito, ma è senza traduzione). Recentissima l’apparizione della selezione di Francesco Tissoni, Mille anni di poesia greca. Antologia dai secoli V-XV, Alessandria, Edizioni dell’Orso 2012 (senza te- sto greco, ma con scelte originali).

Nel campo della tarda antichità gli ultimi anni hanno visto una notevole fioritura di traduzioni, sulla scia del rinnovato interesse per questo periodo del mondo antico. Le Dionisiache di Nonno sono leggibili in una traduzione completa, e anche il poema cristiano di questo autore, la Parafrasi del Vangelo di Giovanni, ha avuto varie traduzioni di singoli canti. Una silloge di anacreontiche tardoantiche e mediobizantine è stata tradotta e commentata da Federica Ciccolella. Una delle poche poetesse tardoantiche, l’imperatrice Eudocia, autrice di un poema sul martire Cipriano, una sorta di Faust ante litteram, ha avuto l’onore di ben due traduzioni (quella nel rutilante linguaggio di Enrica Salvaneschi nel 1982, e quella in prosa di Claudio Bevegni nel 2006). I bizantinisti di Napoli hanno dato un impulso vigoroso agli studi di poesia bizantina e le loro edizioni sono sempre accompagnate da traduzioni italiane. Gli Inni di Sinesio si possono leggere nell’edizione complessiva di Antonio Garzya (Torino, Utet 1990); un vero avvenimento è stata l’edizione con traduzione di tutta la produzione liturgica di Romano il Melode, senza dubbio il più noto e il miglior poeta di Bisanzio, curata da Riccardo Maisano; e del primo poeta epico di Bisanzio, Giorgio di Pisidia (VII secolo), la cui poesia profana e religiosa è stata pubblicata e tradotta di recente da Luigi Tartaglia e Fabrizio Gonnelli. Attente cure editoriali e traduzioni sono state riservate ai poeti bizantini attivi in terra d’Otranto (editi da Marcello Gigante) Nicola Callicle (Roberto Romano), ma anche alla produzione satirica (Roberto Romano). E una produzione importante come quella dei romanzi cavallereschi e dei romanzi erotici in versi è ora comodamente leggibile (edizioni di Conca e di Carolina Cupane). E anche le due versioni dell’epica del Dighenis Akritas sono state tradotte in edizioni accessibili.

 

 

 


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Iniziative
19 settembre 2024
Biblioteca Lettere Firenze: Mostra copertine Semicerchio e letture primi 70 volumi

19 settembre 2024
Il saluto del Direttore Francesco Stella

16 settembre 2024
Guida alla mostra delle copertine, rassegna stampa web, video 25 anni

21 aprile 2024
Addio ad Anna Maria Volpini

9 dicembre 2023
Semicerchio in dibattito a "Più libri più liberi"

15 ottobre 2023
Semicerchio al Salon de la Revue di Parigi

30 settembre 2023
Il saggio sulla Compagnia delle Poete presentato a Viareggio

11 settembre 2023
Presentazione di Semicerchio sulle traduzioni di Zanzotto

11 settembre 2023
Recensibili 2023

26 giugno 2023
Dante cinese e coreano, Dante spagnolo e francese, Dante disegnato

21 giugno 2023
Tandem. Dialoghi poetici a Bibliotecanova

6 maggio 2023
Blog sulla traduzione

9 gennaio 2023
Addio a Charles Simic

9 dicembre 2022
Semicerchio a "Più libri più liberi", Roma

15 ottobre 2022
Hodoeporica al Salon de la Revue di Parigi

13 maggio 2022
Carteggio Ripellino-Holan su Semicerchio. Roma 13 maggio

26 ottobre 2021
Nuovo premio ai traduttori di "Semicerchio"

16 ottobre 2021
Immaginare Dante. Università di Siena, 21 ottobre

11 ottobre 2021
La Divina Commedia nelle lingue orientali

8 ottobre 2021
Dante: riletture e traduzioni in lingua romanza. Firenze, Institut Français

21 settembre 2021
HODOEPORICA al Festival "Voci lontane Voci sorelle"

11 giugno 2021
Laboratorio Poesia in prosa

4 giugno 2021
Antologie europee di poesia giovane

28 maggio 2021
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28 maggio 2021
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11 maggio 2021
Hodoeporica. Presentazione di "Semicerchio" 63 su Youtube

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Jorie Graham a dialogo con la sua traduttrice italiana

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La poesia di Franco Buffoni in spagnolo

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Scuola aperta di Semicerchio aprile-giugno 2021

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Poesia russa: incontro finale del Virtual Lab di Semicerchio

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Call for papers: Semicerchio 63 "Gli ospiti del caso"

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Laboratori digitali della Scuola Semicerchio

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