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Malena, Gricel, María: un nome di donna nel tango della Década de oro


di Nicola Contegreco

In: «Semicerchio» LVII (2017/2), Uncreative poetry, pp. 34-49.


1. Nome di donna, nome di tango: breve excursus dalle origini agli anni ’40

Il tango, una donna, il suo nome: la presenza femminile ha rappresentato nel tempo, anche perché radicata nell’immagine stereotipata dell’abbraccio con l’uomo, una delle fonti più prolifiche per la poesia del tango. Una galleria variegata e multiforme di amanti, minas e madri (ma di queste ultime non ci occuperemo in questo saggio) ha segnato il cammino frastagliato e sentimentale dell’esperienza dell’uomo, inteso come maschio, finendo per occupare una parte sostanziale all’interno dell’infinito canzoniere dei letristas argentini. Si parte dalla prima in assoluto di queste figure di donna che fu La morocha di Ángel Villoldo del 1905, seguita a ruota da molte altre a contribuire con i propri brandelli di vita a questa vasta mitologia del tango e alla costruzione di un immaginario universale intorno al simbolico femminile, comunque quasi sempre filtrato da una prospettiva maschile. Solo una piccola parte dei testi è, infatti, declinata al femminile e il capostipite, anche in questo caso, è sempre La morocha, cui seguirono Haragán di Romero ed Herrera, Madreselva di Amadori, e Guapo sin grupo ancora di Manuel Romero, fino alla Arrabalera di Cátulo Castillo del 1950, in «una sorta di educazione sentimentale per la compagna del guappo» come scrisse la studiosa Meri Lao. Tale era, infatti, la rappresentazione della donna nei versi del tango delle origini.
Lo scenario preferito è quello di una Buenos Aires multietnica ed in continua espansione urbanistica e culturale: qui sarà soprattutto il lunfardo, idioma fortemente contaminato dalla lingua degli emigranti, in primo luogo italiani, e già gergo dei sottoproletari portuali – nonché dei carcerati e dei diseredati –, a prestare il suo caratteristico vocabolario funzionando come una sorta di lingua ufficiale della musica rioplatense. Le eroine che di volta in volta prendono vita in questi versi muovono le loro esistenze grame e spesso desolate in ambienti che saranno raccontati e celebrati da molti poeti e scrittori tra i quali un posto di rilievo è quello occupato da Celedonio Flores, uno dei maggiori osservatori della realtà di periferia e dei suoi protagonisti. Nei versi di El negro Cele, i personaggi femminili non sono esattamente delle educande e le relazioni che intrattengono sono quelle che le vedono legate sentimentalmente con il personaggio maschile più influente dello scenario arrabalero ovvero il boss del quartiere, quasi sempre protettore e magnaccia. Ecco, quindi, che il tango attinge a piene mani a questa patria concreta e lirica allo stesso tempo, connaturata alle radici di Buenos Aires, plasmando nell’utero metropolitano di questa città complessa il teatro ideale per una sfilata di personaggi archetipici, figure e ombre che si articolano in un immaginario mitico-simbolico: sono personaggi femminili come la milonguera, ma anche maschili come il guapo e il compadrito.
Nonostante la funzione mitopoietica dell’arrabal e l’ampio impiego delle sue componenti fisiche ed umane, in questa prima fase storica le parole del tango restano ancora molto relegate ai margini di una cultura non specificamente popolare e, prima che la letteratura colta possa degnarsi di una qualche minima attenzione nei confronti della lirica tanghera, dovranno ancora passare molti anni. In sostanza, si dovrà attendere il decorso di una serie di sviluppi diversi intorno a questo genere, non solo a livello musicale – pensiamo alle grandi orchestre di Troilo e Canaro o a Francisco Fiorentino, Edmundo Rivero, Héctor Mauré e Nelly Omar (solo per citare i cantanti più rappresentativi) – e coreutico, ma in special modo nelle intenzioni del letrista, ovvero nella forza lirica delle parole. Ciò avverrà gradualmente nei lustri successivi, in quella gloriosa epoca che verrà denominata proprio Década de oro del tango (periodo che si fa risalire agli anni Quaranta ma che, verosimilmente, trova le sue origini a partire dalla seconda metà degli anni Trenta): in questi anni si determineranno i cambiamenti che porteranno alla fondazione del tango moderno, soprattutto attraverso la generazione di poeti come Homero Manzi, Cátulo Castillo, José María Contursi e Homero Expósito, il cui lavoro va ad affiancarsi a quello di Discépolo e Cadícamo, due importanti autori che avevano già creato testi esemplari diversi anni prima. La grande poesia del tango, quella che riscatterà definitivamente questo genere, è indissolubilmente legata ai loro nomi: si tratta di intellettuali influenzati dalla poetica del modernismo e dalla tematica del barrio introdotta in poesia da Evaristo Carriego; la loro attenzione verterà sulla trattazione di temi come l’amore e la solitudine, l’abbandono e la nostalgia, in una comune reinvenzione, attraverso il codice espressivo delle passioni, della musica popolare argentina. Tale estuario cui giunge la poesia del tango parte in realtà da sorgenti più lontane nel tempo. Allo sviluppo della direttrice poetica che trova nell’autore di Misas herejes e de La canción del barrio un tramite determinante, avevano infatti già contribuito in modo notevole due nomi tra i più rappresentativi della generazione precedente, modificando da dentro il soggetto e la struttura formale del tango e arrivando alla formulazione del cosiddetto tango-canción: il già citato Celedonio Flores e Pascual Contursi che rappresentano, dunque, il punto d’origine da cui, come scrive Oscar Conde «volvió a surgir el espíritu de Carriego […] Lo significativo a mi modo de ver es, por cierto, que los primeros letristas se mirasen en el espejo de la poética carreguiana».
Il tango, nel fiorire della Década de oro, va proseguendo il proprio processo di evoluzione, esce dai bordelli, dai bassifondi e dalle periferie urbane, così come dai cabaret dell’epoca, per espandersi attraverso tutti i ceti sociali nei diversi ambienti cittadini e per radicarsi, infine, anche in Europa, a Parigi soprattutto; pure il mondo del teatro si accorge di questo fenomeno sempre più popolare, ed è così che un poeta e scrittore raffinato come Discépolo, che ha letto Pirandello e conosce la carica rivoluzionaria del linguaggio delle avanguardie letterarie, inizia a scrivere testi di canzoni in cui emerge una particolare attenzione per tematiche di tipo sociale. Il tango e la letteratura continueranno ancora ad intrecciarsi, sino ai giorni nostri, attraverso l’attenzione di poeti e scrittori del calibro di Borges, Cortázar e Ferrer, e la produzione di testi lirici inerenti a motivi conduttori diversi, ma quasi sempre riconducibili ad una matrice esistenzialista ed intimista. Allo stesso modo anche l’immagine della donna verrà a riformularsi uscendo dai cliché e dalla proiezione maschilista dei primi decenni ed elevandosi a profonda materia ispiratrice, corpo d’amore impenitente, ‘potenza’ che può frantumare semplicemente con il suo essere il ‘potere’ istituzionalizzato del maschio.
Uno dei punti di osservazione privilegiati nella poetica del tango è quello che vede l’immagine della donna fortemente connaturata con il tema dell’assenza. È un binomio che costituisce uno dei motivi più sentiti, uno di quelli che caratterizzano meglio questa musica, anche sotto il profilo degli stereotipi, poiché in grado di rendere la poesia e la musica del tango un sistema di segni che va al di là delle latitudini australi del Sudamerica e che può diventare linguaggio universale. L’assenza rende più struggente la fine del sentimento nutrito verso l’oggetto che sparisce; nell’assenza si concretizza meglio il senso di quello che c’è stato, essendo essa stessa, come ci ricordano le parole del filosofo Jean Baudrillard, nucleo e forma della seduzione:

Effetto prismatico della seduzione. Altro spazio di rifrazione. Essa consiste non nell’apparenza semplice, non nell’assenza pura, ma nell’eclissi di una presenza. La sua unica strategia consiste nell’esserci/non esserci, assicurando così una sorta di lampeggiamento intermittente, di dispositivo ipnotico che cristallizza l’attenzione al di là di ogni effetto di senso. Qui l’assenza seduce la presenza. […] nella seduzione la donna non ha corpo proprio, né desiderio proprio. Ma cos’è il corpo e cos’è il desiderio? Lei non ci crede, ci gioca. Non avendo corpo proprio, si fa apparenza pura, costruzione artificiale in cui il desiderio dell’altro si lascia prendere.

Il tema del tempo che non torna, del corpo amato che diventa fantasma che la memoria non trattiene, del malessere che fa sentire perduti di fronte all’assenza e alla distanza, rimanda all’antico dolore del nostos poiché «in ogni nostalgia l’anima è straniera sulla terra». In termini agostiniani si direbbe che è il “passato del presente” a costituire il background tematico della nostalgia. Attraverso la poesia si possono cogliere gli abissi in cui l’anima sprofonda nel dolore del ritorno e dai quali riaffiorano le ombre e le luci degli eventi di ciò che il passato ha cercato di tenere nascosto. Tale possibilità si realizza percorrendo la direzione che porta al cuore attraverso il lavoro della memoria: ricordare, infatti, significa proprio questo, riportare al cuore (re e cordis). Ma nel tango ciò che incancrenisce il sentimento alla fine di una relazione è quella variante relativa della nostalgia che chiamiamo rimpianto. Vediamo di rilevarne le differenze. La nostalgia è un sentimento che sembra connaturato in maniera radicale all’essere porteño, cioè all’abitante di Buenos Aires. È la sua stessa natura di abitante di una terra la cui umanità è il prodotto di diverse e continue migrazioni da altri continenti a ricostruirsi dentro un’identità plurale. È l’espressione di un altrove che, attraverso la separazione dalla propria origine, trova radici in un humus che gli è senza dubbio vitale ma che, allo stesso tempo, ne modifica la natura primitiva: «La condizione umana di un qualsiasi soggetto suppone l’attraversamento dell’esperienza traumatica della separazione, ossia l’essere umano non è mai uno, ed inoltre, la divisione è fondamento e condizione per la costituzione soggettiva di qualsiasi persona». Mentre la nostalgia è la dimora del passato che non torna, è il desiderio profondo e struggente di persone, luoghi e contesti trascorsi che si vorrebbe far rivivere, il rimpianto, pur possedendone le stesse tonalità acute e dolorose se ne discosta in alcuni tratti. Se consideriamo il desiderio di un’esperienza umana ormai passata che ci ha trasmesso gioia e benessere, nel caso del rimpianto non si può non ricondurre quella perdita ad una componente di responsabilità propria: nel rimpianto, infatti, si ricorda piangendo poiché si rimpiange, appunto, quel passato che avremmo potuto mantenere anche nel presente, ma che non siamo stati in grado di preservare dall’impeto della nostra pars destruens, dalla superbia o dall’inettitudine ad amare. Certo, la comprensione dei fatti e delle contingenze prima o poi arriva, ma spesso solo quando è troppo tardi per tornare sui propri passi: nel rimpianto non è solo la nostalgia a tormentarci poiché c’è una lacerazione più profonda che ci affligge ed è quella della colpa. La persona che si è perduta attraverso questo meccanismo infelice rivive col suo essere, pervicacemente e saldamente, dentro il segno che meglio la rappresenta, ovvero il proprio nome, ma anche attraverso la rielaborazione poetica che esso riesce ad articolare sull’esperienza e sulla memoria, poiché è propria della poesia la capacità di rendere concreta e vitale la relazione tra parola e cosa nominata: «Solo là dove per una cosa è stata trovata la parola, la cosa è una cosa. Solo così essa è. Dobbiamo perciò sottolineare: nessuna cosa è dove la parola, cioè il nome, manca. È la parola che procura l’essere alla cosa. […] l’essere di qualunque cosa che è abita nella parola».
E dunque quali sono i nomi di donna che hanno legato il loro ricordo al mondo del tango? Si potrebbe partire da lontano, dalla Ivette di Pascual Contursi, ad esempio, mina che in un tango del risentimento datato 1919 rivive nei ricordi fumosi di un uomo abbandonato, o dalla Beba di Celedonio Flores, oggetto del desiderio che frantuma ogni illusione, cui si affiancano la bella Margot, anche lei uscita dalla penna di El negro Cele (e dalla musica di Gardel e José Razzano), in cui le parole del vecchio magnaccia sputano rancore lunfardo su colei che lo ha piantato nel tentativo vano di scalare la società, e l’indimenticabile Madame Ivonne di Cadícamo, maîtresse d’alto bordo che lascia la sua Montmartre per seguire un insincero amore argentino: qualcuno, infatti, le dirà che la Cruz del Sur […] fue como el sino de tu suerte e ora che il tempo ha ormai logorato la sua bellezza, di ciò che era stata non resta altro che un’ombra desolata. La lunga galleria potrebbe continuare e far riaffiorare dal mantice del bandoneón altre creature fascinose ed enigmatiche come la seducente Claudinette di Julián Centeya, che scompare coi suoi grandi occhi neri nella bruma notturna di una Parigi del ’40, o come la misteriosa Mariana di Homero Manzi che tanto ricorda la famosa Malena dello stesso autore. E poi ci sono anche la Verdemar di José María Contursi, figura simbolica di un autore per cui la perdita della propria donna - meridiana e ago magnetico – ha significato disorientamento esistenziale, la Rubí , ancora di Cadícamo, dove si narra, su un’articolata melodia composta dal fedele Cobián nel 1944, dei tempi ormai andati, ma utilizzando in chiave lirica il comune struggimento del ‘noi’, come nel capolavoro Los mareados degli stessi autori, e Rosicler, del poeta Francisco García Jiménez, il cui ricordo nella mente di uomo disperato si muta in parole come La vida es este río que me arrastra en su corriente, blando y yacente, lívida imagen, ma in questo fiume di ombre, che scorre senza argini, ve n’è ancora un’ultima di parola: il nome di lei, dulce nombre de un amor; fino ad arrivare, scorrendo i decenni, a quella Alejandra del grande scrittore Ernesto Sábato (tango scritto su musica di Aníbal Troilo) che riprende l’oscuro e complesso personaggio femminile del suo Sobre héroes y tumbas, vasto e metafisico romanzo del 1961, forse la sua opera più nota.
In questo elenco mancano però tre figure di donna che hanno dato vita ad altrettanti capolavori del tango entrando, ormai di fatto, nella leggenda. Malena, Gricel e María, incarnano forse in maniera più completa il senso della poetica del tango della Década e, proprio per questo motivo, nei paragrafi che seguono, sono stati scelti per un’analisi di più ampio respiro che guarda allo stesso tempo alla forma, al testo e al contesto in cui sono nati.

2. Malena, l’umore del tango

Malena canta el tango como ninguna 
y en cada verso pone su corazón. 
A yuyo del suburbio su voz perfuma, 
Malena tiene pena de bandoneón. 
Tal vez allá, en la infancia, su voz de alondra 
tomó ese tono oscuro de callejón; 
o acaso aquel romance que sólo nombra 
cuando se pone triste con el alcohol…
Malena canta el tango con voz de sombra, 
Malena tiene pena de bandoneón.

Tu canción
tiene el frío del último encuentro. 
Tu canción 
se hace amarga en la sal del recuerdo. 
Yo no sé.
si tu voz es la flor de una pena, 
sólo sé
que al rumor de tus tangos, Malena, 
te siento más buena, 
más buena que yo.

Tus ojos son oscuros como el olvido;
tus labios, apretados como el rencor, 
tus manos, dos palomas que sienten frío; 
tus venas tienen sangre de bandoneón. 
Tus tangos son criaturas abandonadas
que cruzan sobre el barro del callejón
cuando todas las puertas están cerradas
y ladran los fantasmas de la canción. 
Malena canta el tango con voz quebrada, 
Malena tiene pena de bandoneón

[Malena canta il tango come nessuna/ ed in ogni verso mette il suo cuore./ Di erbacce di sobborgo la sua voce profuma,/ Malena ha la pena del bandoneón./ Forse una volta, nell’infanzia, la sua voce di allodola/ prese quel tono cupo dei vicoli,/ o magari quell’amore che ancora nomina/ quando diventa triste con l’alcol…/ Malena canta il tango con voce d’ombra,/ Malena ha la pena del bandoneon.// La tua canzone/ ha il freddo dell’ultimo incontro./ La tua canzone/ si fa amara nel sale del ricordo. /Io non so/ se dalla tua voce fiorisce una pena,/ so solo / che al suono dei tuoi tanghi, Malena,/ ti sento più buona,/ più buona di me.// I tuoi occhi sono scuri come l’oblio;/ le tue labbra serrate come il rancore,/ le tue mani sono due colombe infreddolite;/ nelle tue vene scorre sangue di bandoneón…/ I tuoi tanghi sono creature abbandonate/ che attraversano il fango della strada/ quando tutte le porte sono chiuse/ e latrano i fantasmi della canzone./ Malena canta il tango con voce spezzata,/ Malena ha la pena del bandoneón].

Con Malena ci troviamo di fronte ad uno dei più pregevoli tanghi della Década de Oro degli anni Quaranta. Sia la capacità espressiva dei versi che la musica, nella sua compiutezza formale, donano a questo brano una tessitura densa ed ispirata, cui contribuisce il fatto che il personaggio cantato nel tango è la rievocazione fisica e spirituale di una donna realmente vista e sentita in un anonimo, fumoso locale notturno, nascosto in chissà quali vicoli.
La Malena del tango di Homero Manzi (nome d’arte di Homero Nicolás Manzione Prestera), poeta che «en lugar de ser hombre de letras he decidido hacer letras para los hombres» può essere riconosciuta con molta probabilità nelle sembianze di María Elena Torteloro, figlia di genitori spagnoli ma nata nella provincia di Santa Fe in Argentina il 30 aprile del 1913. Con il nome d’arte di Malena de Toledo si esibiva come cantante in giro per locali e cabaret e fu proprio in uno di questi, probabilmente a Porto Alegre, dove si era trasferita fin da bambina a causa del lavoro di console spagnolo conferito al padre nella città brasiliana, che Manzi, di ritorno da un viaggio in Messico verso la fine del 1941, ne ascoltò la timbrica insolita e l’approccio profondo al tango. Il poeta era impegnato nel partecipare, in giro per l’America Latina, a conferenze sui temi del nazionalismo e dei diritti che autori e compositori avrebbero dovuto acquisire per proteggere il loro lavoro intellettuale. Fu proprio la lontananza da Buenos Aires, forse, e la tensione emotiva di trovarsi ad ascoltare la musica della propria terra tra gente straniera a rendere quella famosa notte insolitamente magica e foriera di suggestioni e ispirazioni. Profondamente colpito da quell’ascolto, Manzi crollò sotto le frasi e il lirismo esecutivo della giovane donna e, attraverso quel sentimento così estemporaneo, calò la propria ispirazione in un testo a lei dedicato. I versi nacquero durante il viaggio di ritorno in aereo, poi furono presto inviati al pianista Lucio Demare, insieme al quale poco prima aveva confezionato Negra María, una milonga di grande successo, per tirarne fuori un tango che raccontasse di quella esperienza ma, innanzitutto, che parlasse di quella donna e della sua capacità di cantare il tango como ninguna
Demare si dedicò alla partitura con sorprendente alacrità. La celebre melodia, la cui idea iniziale ricorda le prime battute dello Choro n.1 per chitarra di Heitor Villa-Lobos, scaturì fluidamente dalle sue mani in pochissimo tempo, tanto rimase influenzato dalle parole che Manzi aveva messo a punto. Fu un’alchimia miracolosa, un sortilegio: le frasi musicali, gli accordi, la natura del ritmo, sembrarono fuoriuscire dalle sillabe sofferenti, la musica dalla poesia come in un’algebra ermetica ora incredibilmente decifrata. Così racconta in un’intervista Lucio Demare:

A mí me gustaba componer sobre textos ya realizados, tenía la facilidad. La mayoría de lo que hice con Manzi fue así. […] La música de Malena la hice en no más de 15 minutos. Manzi me había entregado los versos unos diez días atrás. Pensé: “Esta noche va a venir Manzi y por lo menos le voy a decir cómo empieza el tango”. Entonces me senté en un café y lo escribí de corrido, sin pulir y sin cambiar nada. Fue en el verano de 1941, en El Gran Guindado, un bar de Acevedo y Libertador, frente al zoológico, ya lo tiraron abajo. […] Manzi era una persona de una gran perfección, era músico escribiendo. No escribía cualquier cosa. Algo muy característico en él era que primero colocaba el título y después hacía el poema. Teniendo el título lo demás caminaba.

Il testo e la musica definitiva furono così consegnati per la prima esecuzione all’orchestra diretta dallo stesso Demare ed al cantante Juan Carlos Miranda che la incisero nel gennaio del 1942.
La narrazione è quella sensuale e appassionata di una cantante di tango che in un idioma poetico inedito viene descritta da Manzi ricorrendo ad una serie di metafore immaginifiche. La voce di Malena ha un tono scuro, è voce di ombra che ha il profumo dell’erba umida e stantia della periferia e, allo stesso tempo,  il sapore freddo dell’ultimo incontro, ciò che ne rimane dopo averla ascoltata. A livello testuale con Malena accade qualcosa di molto particolare nel tango: si apre una nuova dimensione prima quasi mai esplorata. L’uso consapevole e moderno del linguaggio con cui si esprime Manzi è innovativo, divergente e lirico, debitore tanto dei surrealisti francesi quanto di Evaristo Carriego e della sua poetica del barrio, carico di una certa visionarietà che nonostante mascheri e attraversi il significato, sfocia comunque in un percorso verbale dove gli elementi sono in contatto in maniera non abituale, fino a sfiorare quelle vertigini metaforiche e accumulative che influenzeranno e caratterizzeranno generazioni nuove di poeti, il massimo dei quali rimane ancora oggi Horacio Ferrer. La sintassi si snoda lineare lungo i versi ma le immagini hanno un portato semantico che fa entrare in congiunzione elettrica elementi non correlati. Homero Manzi è ormai un poeta maturo: il suo stile può procedere oltre le influenze, pure così importanti, oltre a quelle sopracitate, di poeti come gli amati Baudelaire e dei simbolisti, del payador José Betinotti e del folklore argentino, di Lorca e dell’Ultraismo; la sua lingua si muove adesso in consapevole equilibrio lungo un cammino di sintesi e di criteri formali del tutto personali. Potremmo dire che Manzi ha forse, con questo testo, il grande merito di aver definitivamente introdotto, attraverso un uso audace, evocativo e funzionale al lirismo del testo, la metafora nella poesia nel tango.
Dal punto di vista della metrica la struttura del testo risulta precisa e solida e si coniuga perfettamente con la scrittura compositiva. Come una tenaglia narrativa, sospinta dall’armonia in minore, le due strofe di dieci versi ciascuna stringono in mezzo un ritornello molto più fluido e libero dai vincoli metrici e la cui sonorità, nella modulazione in maggiore, conduce ad un territorio di serenità intima in cui il poeta ora si rivolge direttamente alla donna per dirle ciò che sente per lei. La strofa si muove su una cadenza ferrea di emistichi, un settenario ed un quinario piani alternati ad un settenario piano ed un quinario tronco, in maniera da cadenzare – a ciò contribuisce anche la scelta di utilizzare una rima (con diverse assonanze) alternata – perfettamente il ritmo del tango che si muove sotto e che, ormai, non ha più la supremazia sul testo come avveniva nelle scritture precedenti alla Década. Quel diretto e familiare legame connotato dalla seconda persona, con l’estesa presenza di aggettivi possessivi prosegue nella ripresa della seconda strofa per poi terminare all’ottavo verso e lasciare, invece, gli ultimi due conclusivi versi ancora alla terza persona come a voler reificare la donna nella presenza quasi astratta del nome che la rende entità distaccata e intoccabile.
La Malena di Homero Manzi, però, oltre ad essere una figura passionale di donna, creatura misteriosa la cui voz de alondra dell’infanzia si è mutata nel segreto della carne e del dolore della vita in voz de sombra, oltre a raffigurarsi in timbro, corpo e sentimento che denudano fino alle viscere le parole dei tanghi che canta, rappresenta forse l’essenza stessa del tango che si incarna nella sua autenticità fisica e spirituale. La sua voce è un’emanazione del borgo e respirando il suo odore sembra di respirare il profumo della periferia, del suburbio, dell’origine stessa dei luoghi e dell’anima del tango vagante sobre el barro del callejón e spremuta nell’espressione del proprio sentimento: l’alcol che rende triste, l’oblio di due occhi scuri e le venas tienen sangre de bandoneón, la pena del bandoneón – l’assonanza significante tra pena e Malena –, l’abolizione della distinzione tra passato e presente, l’evocazione nostalgica dei paesaggi perduti dell’infanzia. Quest’ultima dimensione poetica è molto presente nei tanghi di Homero Manzi che la realizza spesso nell’enumerazione di oggetti, luoghi e odori caratteristici come il fango, la Pampa, l’argine, il temporale, la bottega del fabbro – si pensi a Barrio de tango del 1942 e al capolavoro Sur, del 1948, entrambi su musica di Troilo. Il poeta aveva, infatti, vissuto la sua giovinezza nel quartiere di Boedo che formava un sobborgo semi-rurale e che progressivamente era stato fagocitato dalla rapida espansione di Buenos Aires tra la fine del XIX secolo e l’inizio del successivo. E Manzi non fece altro che cercare di ricostruire attraverso la lingua della poesia ciò che stava irrimediabilmente perdendosi: ecco perché attraverso una grafia di segni archetipici i suoi versi «recrearon los barrios de tango con el farol balanceando en la barrera y el codillo llenando el almacén, se nutrieron de los compadres del Café Dante las muchachitas de Alsina a la negra María, consolaron a la mulata abandonada, convocaron al papá Baltazar de los chicos pobres».
La grande popolarità che in seguito il brano acquisì fece nascere diverse leggende ed interpretazioni sul testo poetico e, in particolare, sull’identità del personaggio principale raccontato da Manzi. Così, oltre alla versione che vede in Elena Tortolero la protagonista e più probabile destinataria delle parole del tango, ne circolarono altre tra cui una delle più accreditate ed attendibili fa riferimento alla celebre interprete Nelly Omar. Come musa ispiratrice di una canzone così densa di sfumature passionali, la cantante ed attrice argentina aveva più di una ragione per vedersi identificata in questo ruolo: il suo timbro particolare, caldo ed inconfondibile, il suo stile interpretativo, la sua bellezza e il fatto che Homero Manzi ebbe con lei una lunga relazione d’amore. Ma il poeta non volle mai rivelare pubblicamente a chi fosse dedicato il tango, lasciando filtrare tra i diversi spunti esegetici un velo definitivo di irresolutezza, come è giusto che sia quando si parla di un tango dal lirismo così vibrante e così potente.   


3. Gricel, la colpa che distrugge

No debí pensar jamás 

en lograr tu corazón… 
y sin embargo te busqué 
hasta que un día te encontré 
y con mis besos te aturdí 
sin importarme que eras buena.
Tu ilusión fue de cristal, 
se rompió cuando partí,
pues nunca, nunca más volví… 
¡Qué amarga fue tu pena!

«No te olvides de mí, 
de tu Gricel»,
me dijiste al besar 
el Cristo aquel…
Y hoy, que vivo enloquecido
porque no te olvidé, 
ni te acuerdas de mí, 
¡Gricel! ¡Gricel!

Me faltó después tu voz
y el calor de tu mirar,
y como un loco te busqué 
pero ya nunca te encontré 
y en otros besos me aturdí.
¡Mi vida toda fue un engaño! 
¿Qué será, Gricel, de mí…? 
¡Se cumplió la ley de Dios 
porque sus culpas ya pagó 
quien te hizo tanto daño!

[Non avrei mai dovuto pensare/ di potermi prendere il tuo cuore…/ Ma ti cercai lo stesso/ finché un giorno ti incontrai,/ ti stordii con i miei baci/ e non mi importò che eri buona./ La tua illusione fu di cristallo,/ si ruppe quando me ne andai,/ poiché mai, mai più ritornai…/ Che amara fu la tua pena!// “Non dimenticarti di me,/ della tua Gricel”,/ mi dicesti baciando il crocifisso…/ E oggi, che vivo come un pazzo/ perché non ti scordai,/ tu non ti ricordi di me,/ Gricel! Gricel!// Mi mancò poi la tua voce/ e il calore del tuo sguardo,/ e come un pazzo ti cercai/ senza mai trovarti,/ e in altri baci mi stordii./ Tutta la mia vita fu un inganno!/ Che sarà di me, Gricel…?/ La legge di Dio si è compiuta/ perché ha pagato le sue colpe/ colui che ti fece tanto male!]

José María Contursi, nato a Lanús, sobborgo meridionale dell’estesa landa di Buenos Aires, il 31 ottobre del 1911 era, come Cátulo Castillo, figlio d’arte. Il papà, Pascual Contursi era considerato una specie di mito del tango, niente di meno che colui il quale, rivoluzionando il linguaggio preesistente, scrisse il primo esempio di tango-canción. Osservando dal nostro presente queste due figure e il loro linguaggio ci sembra quasi che esista una linea ereditaria di sangue e passione romantica che dall’Italia del Sud (Francisco Contursi e Catalina Maurino, genitori di Pascual, erano partiti dalla Campania intorno al 1880) si spinse, oltrepassando l’oceano, fino a Buenos Aires e infondendo nel tango, attraverso due generazioni, versi scolpiti con il cesello del rimpianto e del rancore.
L’adolescenza di José María fu densa di incontri con altri importanti parolieri del tango che frequentavano insieme al padre i circoli a base di sigari ed alcol di inizio secolo e conducevano quella vita bohemiénne, fatta di sbandate amorose, sbronze notturne e scommesse all’ippodromo, cui il giovane si sentì da subito ben predisposto. Già nel 1933, ancora poco più che ventenne, Contursi realizza il suo primo brano, Tu nombre, un vals su musica di Raul Portolés Peralta, a quasi due decenni dagli inizi in Montevideo del padre Pascual, scomparso l’anno precedente quasi ad indicare, anche simbolicamente, una sorta di passaggio di testimone tra due grandi nomi della poesia tanghera legati dallo stesso sangue. Il Contursi figlio però si muove in un ambito diverso da quello del nobile genitore che aveva attraversato con la sua vena poetica non solo le tinte buie dell’amore perduto, ma anche i bordelli malfamati della periferia e i quartieri economicamente e culturalmente disagiati ritraendone degli acuti bozzetti di cronaca sociale; aveva, inoltre, fatto un discreto uso del lunfardo – oltre che di termini pittoreschi e dal taglio volgare – per proferire maggior efficacia alle immagini di quel tipico paesaggio e renderle conseguentemente icastiche all’interno dei propri testi. José María Contursi, invece, attraversa quasi per intero la landa umida e melmosa dell’amore distrutto e tradito, ma anche non consumato, l’amore che poteva essere e non è stato, una terra misturata di lacrime e dolorosa amarezza: è un tema largamente inflazionato all’interno della letteratura tanghera, ma la sua voce rimarrà oltre ogni dubbio una delle più rappresentative riguardo a come è stata trattata la materia dei versi. Si erge quindi a totem della sua poetica il rimpianto per il passato che si è gestito male e che ora si riversa, come visione e sembianza nostalgica, dentro un presente (e in un futuro) che mantiene ferma la forza espressiva e dirompente del desiderio che non si lascia corrompere dallo scorrere del tempo.
È sotto questa prospettiva che il poeta vivrà la sua arte in stretta, organica aderenza con la propria esistenza: sarà infatti il protagonista di una delle più straordinarie ed emblematiche storie d’amore legate al tango, narrazione complessa e composita che si esplicherà lungo l’arco di decenni e che vale la pena raccontare, poiché è stata la principale fonte di ispirazione per i testi di indimenticabili brani come Cristal, Sin lágrimas, Toda mi vida, Si de mí te has olvidado, En esta tarde gris, Tabaco. A questi si aggiunge, naturalmente, il tango Gricel, dal nome di colei che fu musa e amante perduta e ritrovata, la Susana Gricel Viganó, che grazie ai versi di Contursi vide il suo personaggio legato indissolubilmente alla tradizione e all’immaginario romantico di tutti gli appassionati di tango nel mondo.
Fanciulla dall’indole amorevole e dalla bellezza delicata – come si evince da alcune fotografie dell’epoca –, di origine italiana per parte di padre come Contursi, Gricel Viganó dovette lasciare la sua Buenos Aires (era nata nel quartiere porteño di San Cristóbal il 15 aprile del 1920) per le montagne di Capilla del Monte a causa di una malattia dei polmoni che aveva colpito la madre. Nel piccolo paese, lontano da ciò che era stato fino a quel momento il suo mondo e dalle amicizie adolescenziali, la vita scorreva monotona, sempre uguale, scandita da eventi rituali come una lezione di pianoforte o il complimento di un autista che si fermava alla stazione di servizio di famiglia. Quand’ecco che, ad un certo punto, come accade nello stemperarsi di certi racconti da romanzo, il destino decise di metterci una mano: un giorno le sue tre più care amiche – tra le quali anche Nelly Omar, allora già cantante professionista – invitano con una lettera Gricel a Buenos Aires per uno spettacolo e per trascorrere qualche giorno insieme. È proprio nella densa e umida aria porteña che, tra caffè, ristoranti, negozi e audizioni alla radio la giovane Gricel incontra, nelle vesti di un annunciatore impomatato, il giovane poeta José María Contursi, chiamato Catunga dagli amici. È amore a prima vista: lei ha 15 anni, lui 23 ed alle spalle un già discreto curricolo di affermato seduttore. Quei giorni felici, però, terminano troppo presto e il ritorno a Capilla del Monte diventa, relativamente agli stati d’animo, devastante. Come una rêverie che balugina tra i vapori mentali, lo sguardo interiore di quella ragazzina conosce un’unica direzione: solo quell’uomo ormai popola con la sua presenza la memoria sullo sfondo dei tramonti malinconici dei monti di Cordoba e delle lacrime per quella distanza e quell’assenza.
Ma il destino si ripresenta. Contursi, tre anni dopo quell’incontro, è invitato dal suo medico a partire proprio per quella stessa zona, proprio verso quella Capilla del Monte la cui aria salubre e fresca lo avrebbe aiutato a guarire e rimettersi in sesto dopo una forte febbre intestinale. Il poeta, che intanto ha una moglie e una figlia, parte controvoglia e da solo per quel luogo ma non si è completamente dimenticato della timida e innocente Gricel e, una volta arrivato, cerca di incontrarla. A questo punto l’amore nasce veramente, anche se non ha lo stesso peso per l’uno e per l’altra. Infatti Contursi, dopo qualche tempo, torna dalla moglie lasciando in lacrime la povera Gricel per poi ripensarci e tornare ancora da lei dopo aver trascorso un breve periodo con la famiglia ed essersi inventato una nuova febbre intestinale.
Ad aspettarlo c’è ancora quella timida e semplice ragazza. Nessuno può nulla contro questo amore che sembra superare distanze e legami famigliari, neanche Alina Zárate, la moglie di Contursi, neanche il padre di Gricel che in un primo momento aveva cercato di ostacolare la relazione. Sembrerebbe un lieto fine ma il richiamo della bohème di Buenos Aires nonché il rimorso per aver abbandonato la famiglia convincono José María Contursi a fare ancora una volta un passo indietro, spinto anche dalla sua fede religiosa con la quale la sua situazione di adulterio contrasta pesantemente. A questo punto Gricel si fa forza, questa volta ha capito, non piangerà più, andrà avanti per la sua strada: si sposa con un altro uomo, mette al mondo una bimba insieme a lui, in seguito divorzia dopo l’ennesimo tradimento alle sue spalle, ma è un’ottima madre ed è quello che preferisce fare fino in fondo. La notizia, però, non rasserena affatto l’indole inquieta di Catunga che a quel punto, affogando il veleno della sua acre nostalgia dentro litri di balsamico whisky, continua a scrivere testi pieni di dolore, pentimento e rimorso per la donna che dentro sentiva veramente di amare. È proprio in quegli anni, nel 1942 per la precisione, che con il fidato amico, pianista e compositore Mariano Mores scrive il tango che, senza alcun mascheramento e raccontando la loro storia, reca il suo sentimento direttamente alla donna cui è dedicato. Gricel diventa un tango di grande successo, trasmesso in tutte le radio nelle incisioni di Eduardo Adrián con l’orchestra di Francisco Canaro o nella versione di Aníbal Troilo con la voce di Francisco Fiorentino, solo per citarne le prime. La giovane donna ne è turbata e lusingata allo stesso tempo, ma rimane ferma nella sua decisione, ha troppo sofferto. Intanto il brano la rende così famosa agli occhi della gente che tutti la chiamano ormai «Gricel, la del tango».
Tutta la forza tensiva del racconto fatto dal personaggio che dice ‘io’ è ben codificata dall’uso massiccio di versi tronchi (prima settenari, dopo ottonari): la sensazione è sia quella di caduta del tempo, di perdita della materia e degli affetti, di porzioni di vuoto che vengono ad invadere le parole e, quindi, il passato, sia quella di una musicalità molto accentuata in aderenza al ritmo del brano. Così, l’appoggio sui pochi versi piani (novenari) risulta significativamente molto rilevante per permettere al racconto di procedere; sono infatti versi rimati tra loro, mentre a livello melodico la voce ricalca segmenti di melodia ascendenti fino alla sillaba accentata per poi scendere sull’ultima nota-sillaba: «sin importarme que eras bue-na¡[…] Qué amarga fue tu pe-na![…] ¡Mi vida toda fue un enga-ño![…] quien te hizo tanto da-ño!.» Come si può notare sono tutte proposizioni esclamative in cui, di volta in volta, vi è rimpianto, rimorso, dolore, accettazione del destino. Gricel era buona – ma, non a caso, in una visione a posteriori degli eventi anche Malena sembra más buena del protagonista e María, come vedremo, ha «manos buenas» che «regresaban presentes, para curar mi fiebre desteñidas de amor» – per questo non doveva soffrire, né subire inganni come invece è accaduto. Ora, invece, è solo mancanza: mancanza della voce, del calore dello sguardo, mancanza che porta senza scampo alla pazzia perché il ricordo non smette di tormentare la coscienza («Y hoy que vivo enloquecido, porque no te olvidé»), mancanza che si cerca di colmare in altri sguardi e in altri baci, ma senza risultato se non quello di accrescere la disperazione. Ormai quella stessa Gricel che gli aveva detto e, quasi supplicato baciando il crocifisso: «No te olvides de mí, de tu Gricel» è cresciuta, ha deciso di smettere di soffrire e di andare avanti. E il sintomo più grave di questa scelta è proprio il non ricordarsi più di lui. La sconfitta umana e psicologica del personaggio maschile trova in questo tango una delle sue manifestazioni più significative: è il collasso definitivo della figura ipermaschilista dei personaggi di Villoldo e dei tanghi dei primi del Novecento e la reificazione dell’amante che si strugge nel rimpianto, il cui archetipo trae origine proprio da quella Mi noche triste di Contursi padre, in cui Oscar Conde individua:

[…] la radiografía de un perdedor. A partir de aquí quedaría establecida una primera matriz sobre la cual se cimentaría la estructura toda del sistema literario de las letras de tango: la feliz concreción de una tragedia contada en tres minutos. La importancia de Contursi se deriva de haber logrado recrear una sensibilidad, asentada en personajes que se animan a ser fracasados, sentimentales, y representan la contracara de aquellos compadritos prepotentes y triunfadores de Villoldo.

Nella vita reale, per fortuna, le cose, col passare degli anni, ed anche a seguire l’evento della morte della moglie di Contursi, sono andate diversamente. Il destino ha deciso di rendere questa storia unica nel suo romanticismo dualistico e bizzarro e così ci ha rimesso le mani sopra: dopo quasi trent’anni, un giorno dell’anno 1962, il bandoneonista Ciriaco Ortiz passa da Capilla del Monte, conosce per caso la donna e le annuncia che José María Contursi, poeta, è vedovo. Sembra incredibile, ma i due si rincontrano e cominciano a rivedersi e a frequentarsi, ora a Buenos Aires, ora a Capilla del Monte facendo sbocciare nuovamente quell’amore che sembrava sepolto da anni. C’è addirittura il tempo per sposarsi, il 16 agosto 1967. Nel 1970, poco più che sessantenne, José María Contursi muore, dopo soli 4 anni di matrimonio, per le conseguenze del suo stile di vita spesso influenzato dall’uso di alcol, ma da allora molti dei suoi tanghi, pieni di rimpianto e rimorso per Gricel, sono rimasti nella storia.



4. María, il paesaggio della malinconia

¡Acaso te llamaras solamente María...! 
No sé si eras el eco de una vieja canción, 
pero hace mucho, mucho, fuiste hondamente mía 
sobre un paisaje triste, desmayado de amor.

El otoño te trajo, mojando de agonía, 
tu sombrerito pobre y el tapado marrón... 
Eras como la calle de la Melancolía, 
que llovía...llovía sobre mi corazón…

¡María..! 
En las sombras de mi pieza 
es tu paso el que regresa... 
¡María..!
Y es tu voz, pequeña y triste, 
la del día en que dijiste: 
«Ya no hay nada entre los dos…»
¡María..! 
¡La más mía… la lejana...! 
¡Si volviera otra mañana, 
por las calles del adiós…! 

Tus ojos eran puertos que guardaban ausentes
su horizonte de sueños y un silencio de flor... 
Pero tus manos buenas, regresaban presentes, 
para curar mi fiebre, desteñidas de amor... 

Un otoño te trajo… Tu nombre era María, 
y nunca supe nada de tu rumbo infeliz... 
Si eras como el paisaje de la Melancolía, 
que llovía...llovía sobre la calle gris... 

[Forse ti chiamavi soltanto Maria!/ Non so se eri l’eco di una vecchia canzone,/però molto, molto tempo fa fosti profondamente mia/ dentro un triste paesaggio scolorito dall’amore.// L’autunno ti ha portata, bagnando di agonia/ il tuo umile cappello e il cappotto marrone…/ Eri come la strada della malinconia,/ che pioveva… pioveva su questo mio cuore...// Maria…!/ Tra le ombre della mia camera/ c’è il tuo passo che ritorna...// Maria…!/ E la tua voce, triste e debole/ quel giorno in cui mi disse:/ «Non c’è più niente tra di noi…»//Maria…!/ La più mia, ... la più lontana…!/ Se tornasse un giorno/ per le strade dell’addio…!// I tuoi occhi erano porti che custodivano assenti/ orizzonti onirici e silenzi di fiori…/ ma le tue mani buone ritornavano presenti/ per curare la mia febbre indebolite dall’amore…// L’autunno ti ha portata… Ti chiamavi Maria…/ e non ho mai saputo qual era il tuo destino...// Perché eri come il paesaggio della malinconia/ che pioveva… pioveva sopra la strada grigia…]

Il nome di Cátulo Castillo, poeta e letrista nonché compositore, si lega al tango per le note questioni che da sempre attanagliavano questa musica: la nostalgia dolorosa per ciò che è stato e non potrà più ritornare, la sofferenza in amore e il degrado della vita. Figlio di José Gonzáles Castillo, drammaturgo di talento con idee anarchiche (scelta che gli procurò diversi problemi fino all’esilio per alcuni anni a Valparaíso con tutta la famiglia), viene da quest’ultimo e dal grande poeta nicaraguense Rubén Darío ampiamente influenzato fin dalla prima giovinezza. È inoltre persuaso culturalmente anche dal simbolismo francese e dalla lezione stilistica di Evaristo Carriego, ovvero di colui che seppe trovare nella vita, nei personaggi e negli odori del quartiere – nel suo caso, il grande barrio di Palermo – la formulazione di una nuova tematica poetica; questi aspetti, come abbiamo visto, erano condivisi con l’amico e coetaneo Homero Manzi (che era nato nel 1907, un anno dopo Castillo), così come era comune ai due poeti la nostalgia per la Buenos Aires che fu e una visione dell’«amore come lacerazione e perdita». Quando deciderà di abbandonare definitivamente la carriera agonistica di pugile, che pure lo aveva portato sui ring di diverse città fino a raggiungere il titolo di campione argentino nella categoria dei pesi piuma, la sua conversione verso la parola poetica comincerà a dare i frutti migliori. I toni elegiaci sono quelli che preferirà e che svilupperà fino alla fine perseguendo nella scelta di non contaminarli mai con quelli più aspri e satirici che caratterizzavano, nello stesso periodo di attività, l’acume compositivo, ad esempio, di un’altra grande voce poetica come quella di Enrique Santos Discépolo.
Nella sfilata di addii concreti e fatiscenti che costellano i suoi testi si intravede spesso un profondo anelito di compassione per i protagonisti, abbandonati a se stessi e alla propria disfatta, figure sbiadite dalla perdita e dalla malinconia che non disdegnano di corrucciarsi in via definitiva nei medicamenti dell’alcol. La sua ‘malattia’ della nostalgia diventa pandemica e contagia ogni aspetto della vita reale come si evince da una serie di brani che, non a caso, portano nel titolo la presenza dell’aggettivo ‘ultimo’: El último cafiolo (L’ultimo magnaccia), El último farol (L’ultimo lampione), El último café (L’ultimo caffè), quasi a voler mostrare una estrema possibilità di attaccamento vitale a brandelli di esistenza che hanno ancora ragione di essere in qualche dimenticato angolo dello spazio e della materia, e a significare ancor più densamente che suoi lavori erano «rivolti ad indagare possibili risposte, a cercare nella descrizione di ambienti del passato il recupero di un’epoca felice». Ma è il poeta stesso a soccombere alle proprie intime velleità, a constatare amaramente quanto sia labile il suo gioco di intrappolare il passato in un sistema di ibernazione dei sentimenti che è destinato sempre e comunque a fallire: un’altra “ultima”, La última curda (L’ultima sbronza) questa volta descrive bene questo stato d’animo di fallimento attraverso il dramma dell’addio alla vita, un disperato monologo interiore sulla solitudine e l’alcol che nella scrittura dei versi si trasforma in un dialogo ubriaco tra chi parla ed un bandoneón: Ya sé, no me digás,/ tenés razón:/ la vida es una herida absurda,/ y es todo, todo tan fugaz/ que es una curda, nada más,/ mi confesión (Lo so, non dire niente,/ hai ragione:/ la vita è una ferita assurda,/ ed è tutto, tutto così fugace/ che è una sbronza, nient’altro,/ la mia confessione). La María di Castillo è un’altra figura della lontananza, una forma cristallina di ricordo che si frantuma man mano che la memoria cerca di trattenerla e di recuperarla, lasciando di sé solo brandelli di percezione sensoriale o impressioni livide di gesti e di esili parole. L’occasione per la scrittura del testo poetico nacque da un incontro con Aníbal Troilo che aveva composto un tango per sua moglie, come racconta Héctor Ángel Benedetti: «Aníbal Troilo compuso dos tangos de regalo para su amada Zita: Toda mi vida, con versos de José María Contursi, y María. Troilo le pidió una letra a Cátulo Castillo nada más que para que tubiera un tango llamado María, porque le sorprendía que existiendo uno llamado Claudinette no tuviera uno con el más común de los nombres de mujer, el que a él más le agradaba». Tra le diverse famose versioni è da ricordare quella di Julio Sosa, per la CBS, del 15 novembre 1962 per il rilevante fatto che Sosa introduce il brano facendolo precedere da una breve narrazione, di cui è autore, affinché risulti probabilmente ancora più palpabile lo smarrimento del protagonista di fronte all’abbandono da parte di una donna che era stata profondamente sua molto tempo prima.

Que vieja y cansada imagen me devuelve el espejo
ah! si pudieras verme
solo aquí en la gris penumbra de mi pieza
de este cuarto nuestro que parece tan grande
desde que faltas tú
sabe Dios por qué senderos de infortunios pasearás tu tristeza 
y yo solo, con tu adiós golpeándome el alma
mientras la madrugada febril de mi desesperanza
me trae el eco alucinado de tu paso pequeño que se aleja
y la música triste de tus palabras
que se van adelgazando hasta el silencio...

[Che immagine stanca e vecchia mi restituisce lo specchio/ ah! se riuscissi a vedermi/ qui da solo nella penombra grigia della mia stanza/ in questo nostro angolo che per la tua assenza sembra così grande/ Dio solo sa per quali sentieri di disgrazie va la tua tristezza/ e io solo, con il tuo addio che mi colpisce l’animao/ mentre la febbre dell’alba della mia disperazione/ mi porta l’eco allucinata del tuo breve passo che si allontana/ e la musica triste delle tue parole/ che si assottigliano fino a diventare silenzio…]

Tornando al testo principale, Castillo, servendosi anche delle sue competenze di compositore delinea una struttura articolata su quattro quartine di perfetti alessandrini, alternati in piani e tronchi, così come alternata è la rima; al centro, tra la seconda e la terza di queste strofe, seguendo il classico schema a due parti ABA, si sviluppa il ritornello che, a differenza degli esempi di Malena e Gricel, pur godendo, rispetto ai versi delle strofe, di una scrittura meno lineare e vincolata dal punto di vista ritmico, riesce a rimanere comunque fortemente in tensione senza cedere ad una pausa di respiro più largo, senza modulare in tono maggiore e persistendo, quindi, su una dimensione di dinamismo concitato che ben trasmette il senso contenuto nelle parole. È una scrittura, quella di María, che gode di una costruzione intima del processo compositivo nella sua interezza e di un’esemplare e compiuta sintesi tra testo e musica, qualità, quest’ultima, che diventa ancora più esemplare se si pensa che la metrica dei versi è stata adattata ad una melodia preesistente. Da questo punto di vista, è da aggiungere come l’abilità del poeta si profili nell’uso lucido e musicale dei suoni che vanno a cantare col nome della donna: la forma piana della parola María, come un potente denominatore, è di volta in volta riesumata da termini che semanticamente conferiscono con l’essenza nostalgica dei sentimenti provati dal protagonista: hondamente mía, agonía, melancolía, e poi ancora la más mía.
Se volessimo servirci di una rappresentazione visiva, potremmo fare riferimento a quella suggestiva e carica di onirismo, come è nello stile del regista, e che ben incarna la vena poetica delle parole del tango di Castillo e Troilo, ovvero la rielaborazione che ne fa Fernando ‘Pino’ Solanas nel suo Sur del 1988, pellicola che gli valse la Palma d’oro alla miglior regia. Alla penombra di un semplice lampione, nello spazio intimo ed elementare dell’esquina di un vecchio barrio si stagliano le due figure di Roberto Goyeneche – anche attore nel film – e del bandoneonista Néstor Marconi seduto al suo fianco: tra cartacce che svolazzano irrequiete al vento del sud, dentro i fumi di una nebbia posticcia, la caratteristica voce roca del ‘Polaco’ equilibra il suo peso timbrico con le infiorescenze del bandoneón di Marconi mentre, attraverso la meccanica tipica dei videoclip degli anni ’80, il montaggio intervalla scene dal racconto sentimentale di Floreal (Miguel Ángel Solá), uscito di prigione con la fine della dittatura, e Rosi (Susu Pecoraro), sua moglie. Sono ricordi che riaffiorano, sensualità e tenerezza vissuti intensamente nel tempo della giovinezza prima dell’avvento della feroce dittatura. Nei cinque anni di detenzione dell’uomo per motivi politici, però, Rosi non è riuscita ad eludere la propria solitudine e la propria angoscia, e succede così di trovarla arresa alla consolazione degli abbracci di Roberto, il migliore amico di Floreal. La María di Castillo (come la Rosi di Solanas) è la ricostruzione interiore di un personaggio che vaga nel territorio fisico della città tanto quanto in quello spirituale del rimpianto infinito, non solo per ciò che si è perduto, ma anche per come le cose sono cambiate nel corso del tempo che le ha rese, nel presente, quasi irriconoscibili. Il suo nome viene invocato, urlato, quasi a cercare e riprodurre, attraverso la formulazione di quelle tre sillabe, la fisicità carnale del suo essere ricordato dall’immagine archetipica del primo, fortuito incontro quando un autunno bagnò di agonia il suo sombrerito pobre y el tapado marrón. Ma è ormai un fantasma di cui si possono udire soltanto ancora i passi, quegli ultimi passi, come ultimi scampoli di presenza, che il suo corpo ha lasciato come un’eco dentro la stanza (En las sombras de mi pieza/ es tu paso el que regresa...).
L’autunno, stagione che evoca tinte e sentimenti che si cristallizzano in ognuno di noi fin dall’infanzia, ha portato María dentro l’esistenza del protagonista, ma nella forza evocativa del tango la natura semantica dell’autunno sembra pervadere questa figura fino ad impossessarsene, fino a personificarsi dentro di essa. Così i suoi occhi diventano «puertos que guardaban ausentes su horizonte de sueños y un silencio de flor» mentre María stessa muta il suo essere in paesaggio e, in un’eco ‘verlaineana’, in pioggia, pioggia tiepida e fitta d’autunno che colora di grigio e di malinconia le strade bagnate in cui si specchia il cielo: «eras como el paisaje de la melancolía que llovía... llovía sobre la calle gris».
La persona amata, ciò che si è perduto e a cui si ritorna nel paesaggio della memoria, è quasi sempre evocata da un passato senza ritorno ed assume i tratti di un fantasma. Questa entità, pur riesumata, non riesce ad amalgamarsi al presente e alla realtà che, come un contorno di sarcastica indifferenza, sembra risucchiare il poeta nella lacerazione del rimpianto. È così che il tempo diventa un’ombra nemica che porta via con sé qualche altro scampolo di vita nel vuoto della distanza. Il cuore, invece, impara giorno dopo giorno che «il passato è il ricordo, il futuro è un’illusione, il presente una beffa: il tango esprime l’ineluttabilità dello scorrere del tempo […]» anche se, infine, paradossalmente, «il vero nemico non è il tempo, ma l’oblio, che amaro come la morte si oppone ai sogni. La poesia del tango recupera dall’oblio momenti di vita, materializza il passato, rende atemporale il tempo, non fissandolo in modo definitivo in un concetto, ma proprio, come un sogno, facendo rivivere l’esperienza nel suo scorrere».

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Call for papers: Semicerchio 63 "Gli ospiti del caso"

30 aprile 2020
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