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Poeti cristiani latini dei primi secoli a cura di VINCENZO GUARRACINO, Bornago, Mimep, pp. 363, € 15,00


In: «Semicerchio», LVII (2017/2), Uncreative poetry, pp. 54-55



Fra i patrimoni immateriali che i tagli all’università e la rigidità dei programmi scolastici gentiliani rischiano di cancellare c’è quella che è stata definita “poesia cristiana latina”, cioè la produzione poetica dell’Europa occidentale dal secolo III al VII circa, che abitualmente non viene letta nei corsi di Letteratura latina di nessun ordine di studi e sopravvive, per iniziativa di pochi resistenti, in qualche laurea magistrale. Negli anni ’70 e ’80 era riuscita a conquistare una sua riconoscibilità sia nell’ambiente accademico internazionale, grazie agli studi di specialisti di alto livello come Fontaine, Charlet e Michel in Francia, Mohrmann in Olanda, Smolak in Austria, Roberts e Nodes nei paesi anglofoni, Herzog e Thraede in Germania Federale (e perfino Kirsch nella DDR, che sviluppò una geniale lettura marxista della ristrutturazione delle forme letterarie dovuta al cristianesimo), mentre in Italia si consolidava una nicchia all’interno del settore disciplinare “Letteratura cristiana antica”. La sua visibilità nel panorama culturale è sempre stata orientata e insieme minata dallo stesso fattore che ne aveva determinato l’autonomia accademica: il collocamento in un limbo settoriale che la sgancia dal rapporto con la poesia latina e con le letterature moderne e che sembra riservarne la fruizione ad appassionati di ambito devozionale. Per questo la pubblicazione dell’antologia di Guarracino può essere sal
utata come un recupero prezioso, che sviluppa e articola panorami sintetici come quelli inclusi nelle grandi raccolte messe insieme da Spitzmüller negli anni ‘70 o da Ugo Trombi del 2002. A Guarracino si devono già esperimenti di straordinario interesse come l’antologia di poesia latina Bompiani nella quale i testi, che coprivano anche la latinità tarda, erano tradotti da poeti italiani, con risultati in qualche caso memorabili come il Marziale di Ceronetti, gli Aenigmata Bernensia di Ronchey-Magrelli, il Catullo di Sanguineti, il Properzio di De Angelis, l’Orazio di Fortini, l’Ausonio di Conte. Il metodo polifonico è applicato anche qui, ma il gruppo di traduttori è più ridotto, pur includendo personalità riconosciute come, fra gli altri, Marco Beck, Flavio Ermini, Gio Ferri, Bianca Garavelli, Gilberto Isella, Stefano Lanuzza, Giorgio Luzzi, Giancarlo Pontiggia, Paolo Ruffilli, Mario Santagostini. L’impostazione della scelta e dunque dei temi risente della collocazione socioculturale che abbiamo descritto e punta su aspetti auto-identitari fortemente caratterizzati in senso religioso: la poetica della luce, la simbologia della croce, l’innodia ecclesiastica, la figura di Maria, le dichiarazioni di fede, espressioni spesso potenti ma inevitabilmente cristallizzate in formule che, poco variate di autore in autore proprio per la loro sacralità, rischiano di risultare ripetitive a un lettore seriale e non necessariamente sensibile a questi contenuti. Il rischio di monotonia è sventato in parte dall’amplissimo raggio delle scelte, che vanno dal Magnificat al poemetto sulla luna del re Sisebuto: rinunciando anzi al testo a fronte, questa di Guarracino diventa probabilmente la più ampia antologia esistente di poesia dei primi secoli. Da una parte dunque la mancanza dell’originale latino (oltre che di annotazioni) e la migliorabilità di alcune fonti (troppo spesso si attinge alla Patrologia Latina anziché alle più o meno recenti o edizioni critiche), qualche collocazione ambigua (gli spuria inseriti nel capitolo dell’autore a cui erano stati erroneamente attribuiti in passato, come nel Carmen adversus Marcionitas pseudo-tertullianeo o i carmi pseudo-claudianei o il De anima citato da Agostino ma non suo), l’eccessiva presenza di autori la cui cultura cristiana è un dato indimostrato (Tiberiano, anche Ausonio e Boezio) e la mancanza di alcuni caposaldi (come l’Eptateuchos di Cipriano poeta) la rendono poco utilizzabile per gli studenti, dall’altra però per i curiosi e gli appassionati l’estensione della scelta consente scoperte di generi e toni inconsueti, di autori altrimenti ignoti e di prime traduzioni spesso assolute: l’ingresso nella fruizione poetica delle epigrafi sepolcrali, la suggestiva Fenice di Lattanzio nella versione di Roberto Sanesi; il gioiellino delle anonime Laudes Domini che raccontano la sepoltura congiunta di marito e moglie chiedendosi come uno ha potuto percepire l’altro dopo la morte; l’astratta innografia del filosofo Mario Vittorino, convertito tardivo, e del teologo Ilario di Poitiers che, dopo Lucrezio – ma meno felicemente – tornano a far scaturire poesia dall’argomentazione dialettica. Di particolare valore informativo sono gli estratti sulle invasioni germaniche in Francia, la terra da cui, insieme all’Africa, proviene la maggior parte di questi autori: ci informano sui catastrofici effetti materiali e sociali di quelle migrazioni armate la cui portata oggi si tende a minimizzare, e sulle devastazioni che i cristiani interpretavano come castigo divino e occasione di prova morale, lasciandoci testimonianze preziose sui giochi perduti dell’aristocrazia gallica, comprese le divagazioni sessuali e gli amori ancillari descritti fra IV e V secolo dall’Eucharisticos di Paolino, nato a Pella ma vissuto a Bordeaux. Altrettanto “nuove” suonano le traduzioni dei centoni, i poemetti che cucivano emistichi virgiliani piegandoli all’espressione di temi cristiani, strumento di formazione di una lingua poetica risemantizzata in chiave religiosa: del collage della nobile Proba, Guarracino offre un’ottima prova di verso italiano dattilico, conservando anche nel tono e nel lessico la matrice virgiliana, a confronto con la soluzione endecasillabica scelta invece, per la stessa poetessa, da Maria Luisa Vezzali. Il volume ci permette anche di entrare in contatto con i primi testi in versificazione ritmica (matrice della poesia europea moderna), come lo Psalmus Responsorius (prima metà del IV secolo), scoperto nel 1965 in un papiro ora a Barcellona, e lo Psalmus contra partem Donati di sant’Agostino, una sorta di rap di propaganda, scritto per contrastare il rischio di scisma dei donatisti, che inaugura anche l’uso della rima sistematica, e che Landini tenta di tradurre in forma appunto rappata: “Risolta è la questione finalmente. Perché non state in pace, brava gente?”. Altrettanto fresca appare la scelta dei bucolici cristiani: il centone anonimo Versus ad gratiam domini, del quale Paolo Dainotti estrae con eleganza i passi più virgilianamente lucreziani in un verso dattilicamente disteso e ondeggiante e il De mortibus boum di Endelechio, di cui Rodolfo Di Biasio umanizza efficacemente il dramma dell’epidemia animale. Brillante l’idea di proporre, dal solitamente noiosissimo Sidonio Apollinare, vescovo per caso, un rifiuto “a lodare ciò che canta il Burgundo / crapulone dai rancidi capelli unti di burro” che “rutta aglio e intrugli di fetida cipolla”, in un luogo in cui la Poesia (romana) è ormai “sconfitta dai plettri barbarici”. Apprezzabile anche la deriva lessicale con cui Guido Oldani cerca di tener dietro allo sperimentale Ennodio, acrobaticamente lanciato in un impasto lessicale che, fra “grevume”, “necrario” e “disgraziarsi largo”, sarebbe piaciuto a Sanguineti. Proporzionalmente la selezione è più parca e quasi crudele per le figure maggiori, come Prudenzio di Calahorra, capostipite dell’epica morale e autore di poemetti innodici sui santi che nascondono capolavori narrativi fra lo splatter e il lirico come il Peristephanon III su sant’Eulalia straziata dai carnefici. Ci sarebbe voluto qualcosa del Contra Symmacum, di cui qualcuno ricorderà la traduzione su «Semicerchio» del 1989, documento dello scontro contro il politeista romano in cui affiorano accenti vigorosi di una critica della tradizione che sfocia in una esaltazione della razionalità universale e della legge del progresso umano che ha fatto parlare di “illuminismo cristiano”, contrapposto al conservatorismo “etnico” del console. Di Avito, autore del De spiritalis historiae gestis, un ambizioso poema sui primi libri della Bibbia, è ben scelto il passo in cui anticipa Milton (che lo lesse) immedesimandosi nel sentimento dei primi uomini privati dell’Eden (“così il Paradiso perduto è amato d’immenso amore”… “e ancora piangono per gli astri / sospesi a un cielo fattosi remotissimo”), ma la sua invenzione di un metodo compositivo basato sul passaggio continuo da un oggetto o personaggio all’immagine che ne rappresenta il significato biblico e al sovrasignificato esegetico di questa e così via, in una vertigine simbolista che lui teorizza come “nuova bellezza”, avrebbe meritato uno spazio più ampio. Anche di Venanzio Fortunato, morto già nel VII e qui inserito come limite penultimo dell’arco cronologico, ci auguriamo che progetti meno vincolati a orientamenti paraliturgici (qui perfettamente glorificati nel Pange lingua e nel Vexilla regis noto a ogni dantista) rendano giustizia alla sua vena pittorica, fonosimbolica e drammatica: la partenza della principessa Galswinda da Toledo, descritta dal punto di vista della madre che la vede allontanare metro dopo metro in una sequenza cinematografica, è uno dei capolavori della poesia altomedievale che meriterebbe una riscrittura poetica moderna, così come la meriterebbero le liriche alla regina Radegonda che creano una nuova forma di elegia d’amore “spirituale”. Chiude, a sopresa e quasi fuori tempo massimo (pieno VI secolo), l’irlandese Colombano, di cui Guarracino si diverte a trasporre sia, in quinari rapinosi, la metariflessione sulla scelta di un metro così insolito (il verso “bipedale” usato già in Boezio) in una lettera metrica scritta a 72 anni all’amico Fidolio, sia l’inno dei rematori (celeuma) con tanto di ritornello in “olà”, per uno dei simboli più popolari del codice cristiano e dell’avventuroso monachesimo celtico.

Francesco Stella

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