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Dal cuore del miracolo.

Poeti italiani di fronte al boom

 Di Alberto Volpi


 
In: Semicerchio, LVIII-LIX (01-02/2018), pp.17-22.

 

1. La città si dilata: la città si estende. Gli urbanisti e i sociologi, gli amministratori del comune, gli impresari edili, i cultori di statistica, i tecnici dell’acqua potabile, del gas, della luce, dei telefoni parlano di sviluppo della città, redigono grafici in ascesa, contemplano l’incremento di ieri per fronteggiare l’incremento di domani: scrivono incremento, sviluppo. Un certo senso compiaciuto, una speranza colorata di certezza, una sollecitazione aritmetizzante, una disposizione emulatrice (nel sogno): arriveremo anche noi ai tre milioni di Parigi, ai quattro di Berlino, agli otto di Londra: e via via.

 

La prosa di Carlo Emilio Gadda, pur capricciosamente accumulatoria, appare pero adatta a descrivere, per cosi dire in tempo reale, un fenomeno in atto nell’Italia del dopoguerra. Il paese, sotto la spinta di una finalmente decisiva industrializzazione, vedeva un potente impulso all’inurbamento: la popolazione residente nei centri urbani con più di 20.000 abitanti era passata dal 19,6 % del 1861 al 47,7 % del 1961; in particolare, nello stesso secolo, il numero dei centri con più di 100.000 abitanti era triplicato, passando dagli 11 dell’Unita a 32. Di qui il vasto e selvaggio proliferare delle periferie che accoglievano i lavoratori dell’industria e presto anche la cosiddetta cementificazione di aree di pregio storico-naturalistico, con un attacco al paesaggio italiano mai prima visto cosi violento. E’ noto che la Seconda rivoluzione industriale in Italia arriva in ritardo rispetto al resto dell’occidente più sviluppato, attesa come un salutare ingresso nella modernità: ecco allora agli inizi del Novecento il primo momento culturalmente improntato a cavalcare il progresso veloce e aggressivo, con le sue «maree multicolori», esaltate da Marinetti nel Manifesto del Futurismo, che si muovono vorticose nella Città che sale. La natura va quindi dominata e utilizzata nella produzione, ma si vuole secondaria, se non eliminata, anche come tema di poesia; la spinta avanguardista in avanti troverà ovviamente accoglienza e rifiuto, magari tra gli stessi intellettuali e artisti (Rebora che scrive sia di «umana industria sacra», sia del «nostro pianeta, riverso / fra piaghe e gonfiori»),  proponendo il dilemma tra storicismo fiducioso e cautele conservative divenuto di stringente attualità nel secondo, e culminante, momento della trasformazione. Appunto quello del miracolo economico tra la meta degli anni Cinquanta e i primi Sessanta.

Chiunque fosse uscito dall’eccezionale esperienza della guerra era convinto portatore, come scrisse Calvino nella prefazione a I sentieri dei nidi di ragno, di una propria storia degna di essere raccontata. La nazione nuova e multiforme andava riscoperta; la prosa

e il cinema paiono i mezzi più attrezzati ad indagare la realtà. Negli anni successivi, sulla scia dell’impegno neorealista, si comincia a mettere a fuoco anche il lato in ombra della crescita: vengono appunto alla mente La speculazione edilizia di Calvino (1957) o  Fantasmi a Roma di Pietrangeli (1961), e i tanti ritratti di palazzinari della commedia all’italiana. Sono di meno le opere in versi che abbiano il motivo ecologico al proprio centro, benché la poesia a dominante lirica ed egoriferita cerchi faticosamente di rinnovare temi e linguaggi. Pasolini ha utilizzato tutti i mezzi per rappresentare la geografia, soprattutto umana, delle borgate attraversate dalle scorribande dei Ragazzi di vita (1955) e fissate nell’indimenticabile bianco e nero dei film d’esordio, ricorrendo anche alle terzine narrative di Le ceneri di Gramsci (la raccolta del ’57, che si apre pero con Appennino datata 1951). Qui si scorrono le modulazioni del paesaggio lungo la dorsale, con una particolare predilezione, sembra, per la Toscana, dove esso è «più umano nelle cesellate siepi » (V, v.4), ma certo soffermandosi su Roma citta e le borgate «tra le infette marane» (VI, v.14). L’attenzione cade più sulla miseria dei borgatari («Un esercito accampato

nell’attesa / di farsi cristiano nella cristiana / città», che «occupa una marcita distesa // l’erba sozza nell’accesa campagna» VI, vv. 1-4), ma non sfugge la speranza di abitare «in villaggi ciechi tra lucide chiese / novecentesche e grattacieli» (VI, vv. 9-10). Viene  insomma ben rappresentato l’aspetto ibrido della borgata, termine inaugurato nel 1924 per la costruzione di Acilia in zona malarica, a 15 chilometri da Roma: «C’è qualcosa di dispregiativo in questo termine che deriva da borgo: un pezzo di città, cioè, che non ha la completezza e l’organizzazione per chiamarsi quartiere, un pezzo di città in mezzo alla campagna, che non è realmente né l’una né l’altra cosa». Ne Il pianto della scavatrice Pasolini ribadisce: «Povero come un gatto del Colosseo, / vivevo in una borgata tutta calce / e polverone, lontano dalla città / e dalla campagna […]» (II, vv. 1-4); ne descrive ancora la miseria delle «strade di fango», dei «muriccioli», delle «casette […] senza infissi, con tende per porte» (II, vv. 9-10) e «qualche acido, ardente immondezzaio » (II, v. 60), gli abitanti che vivono «ai piedi della storia» e che si fanno simbolo della vita «nella sua

luce più attuale» (II, v. 70).

 

Inerte si presenta nella terza parte la scavatrice, strumento della trasformazione della campagna in nuove borgate: «Presso la mia casa, su un’erba // ridotta a un’oscura bava, / una traccia sulle voragini scavate / di fresco, nel tufo – caduta ogni rabbia // di distruzione

– rampa contro / radi palazzi e pezzi di cielo, inanimata, / una scavatrice....» (vv. 18-24). Certo c’è ancora posto, nel deambulare pasoliniano, per i «prati primaverili» nella quarta parte, che paiono riscattare la periferia romana, ma nella chiusa un vibrare mattutino,

crescente con il sole, riporta in primo piano la macchina attorno a cui si danno da fare nel fango «una dozzina d’anziani operai, / con gli stracci e le canottiere arsi / dal sudore, […]» (VI, vv.9-11). La benna, al modo delle motrici, simbolo ambiguo della Prima rivoluzione

industriale, manda «un urlo improvvisamente umano» (v. 20), che poi ridiventa «morto stridore» (v. 24). Il suo agire è cieco: «sgretola», «afferra» (v.18), straziata da tanto straziare pare soffrire con lo sconvolgimento dello sterro e insieme di «tutto il quartiere» (v. 38):

 

[…] Ciò che era

area erbosa, aperto spiazzo, e si fa

 

cortile, bianco come cera,

chiuso in un decoro ch’è rancore;

ciò che era quasi una vecchia fiera

 

di freschi intonachi sghembi al sole,

e si fa nuovo isolato, brulicante

in un ordine ch’e spento dolore.

 

La poesia si chiude con il «rosso straccio di speranza» degli operai, ma resta la perplessità tra ciò che si acquisisce e ciò che si perde, in termini umani e naturali, perché indubbiamente - e Pasolini non smetterà più di ripeterlo - «[...] La luce / del futuro non cessa un solo istante / di ferirci […]» (vv. 50-52). Anche Gadda nel resto dell’articolo citato analizzava la nascita di nuovi quartieri, e Milano, una delle due capitali del nord industriale, si andava ampliando nelle aree esterne attraverso un’edilizia economica, spesso con infrastrutture e collegamenti con il centro ancora limitati. Così Nelo Risi con Laltra faccia (raccolta in Polso teso del 1956), secondo testo, in negativo, che costituisce un dittico con In crescita (dove la città «tragicamente debole in ginocchio» dopo la guerra e ora «avida di slancio» e fa si che il sangue del poeta «accelera / s’innalza s’inacciaia si moltiplica»), rappresenta l’urbanizzazione che si mangia la campagna creando una zona ibrida. Nella seconda parte del testo, che non riportiamo, Risi conferma il suo amore per la città nonostante terra, cielo, figure umane siano tutte rese al nero. Non si può parlare per Pasolini e Risi di coscienza ecologica vera e propria ma, seppur in posizione laterale del corpus poetico, di attenta e non ideologizzata fissazione del problema sviluppo e sue degenerazioni sul paesaggio:

 

Tutt’intorno, fuori porta

la città non ha niente di un villaggio

il moderno stinge presto

la campagna è sporca

che l’operaio attraversa con un ultimo sforzo.

Le motorette prolungano l’industria.

Lembi di nebbia radono un canale

qua i detriti, la dei mucchi di letame. La giuntura

tra la Città che vomita e la Bassa che rumina

si fa nell’iride delle vacche

o sul ciglio della strada ora che il cielo

e tutto in una macchia d’olio.

 

 

2. Indissolubilmente legato all’industrializzazione e all’urbanesimo viene negli anni del boom l’inurbamento dovuto alle migrazioni interne, tanto da sud a nord quanto da  campagne e montagne, ancora con numeri imponenti se non precisissimi, che oscillano dal milione e ottocentomila persone ai due milioni nel ventennio 1951-71. Anche molti scrittori hanno seguito tale parabola, del resto assai usuale per ogni intellettuale che voglia affermarsi. E’ però con un surplus di choc metropolitano, per dirla alla Simmel, a causa dell’accentuato stacco tra la citta in tumultuoso ampliamento e i paesi ancor ricchi dal punto di vista naturalistico, anch’essi tuttavia destinati (si pensi solo alle riflessioni poetiche di Zanzotto) ad essere intaccate dal medesimo fenomeno. Facili allora il rimpianto, la mitizzazione del luogo d’origine - comunità e forme di vita -, incantato e fermo nel ricordo con una sottolineatura anche di lingua. Il dialetto appare infatti quanto di più radicato nel luogo natale e scavalcato dalla storia di un paese che si avviava proprio allora a diventare compiutamente italofono. Il mondo naturale del Friuli pasoliniano e estremamente stilizzato: prati ubertosi «di erba viva» (O me donzel), cieli dai colori tenui dove si espande il suono struggente delle campane, rondini, allodole, nottole, conigli e rane; molta acqua sotto forma di pioggia sugli alberi e rugiada sul terreno, in pozzi,  grondaie, fontane, rogge, fossi, rigagnoli e grondaie. Il mito fondante può essere allora quello di Narciso, più volte citato nella Suite furlana, il fanciullo che scopre e nega la propria identità dentro la natura. Già nelle Poesie a Casarsa, precisamente in O me donzel, si legge: «[...] I nas / tal spieli da la roja.» (Nasco nello specchio della roggia, vv.

4-5) e, in perfetta continuita e unita di rispecchiamenti, ne «la roja selesta / a spiegla la Ciargna soreglada» (la roggia celeste / specchia la Carnia assolata, Ciants di un muart, vv. 2-3). Ne La not di maj un giovinetto che canta si specchia nella roggia, poi e il poeta ragazzo a specchiarsi in Cansoneta, ma anche gli alberi tremano sul fosso (Lengas dai frus di sera); e Narciso, «dut anteir coma un flour» (tutto intero come un fiore, Dansa di Narcis, v. 3), che proclama «Jo i soj na viola e un aunar» (Io sono una viola e un ontano, Dansa di Narcis II, v. 1), i quali a loro volta «a si spieglin ta l’azúr fun / da l’aga […]» (si specchiano nell’azzurro fumo / dell’acqua, Dansa di Narcis II, vv. 16-17). A fronte di un tale mondo naturale, che fa tutt’uno con il ragazzo, l’arrivo, tra l’altro cosi biograficamente sofferto, nella citta lontana rappresenta l’irruzione del mutamento storico che richiede anche un cambio di lingua. E nell’Appendice alla Suite furlana, datata 1950-53, e cioè già con il poeta a Roma, e che di Roma scrive in italiano, Casarsa, unica in tutto il mondo (Li ciampanis dal Gloria), diventa ormai il «laju» (laggiu), «dula che dut a e fer» (dove tutto e fermo, Cansion), raggiunto soltanto dalla canzone. In quegli anni anche un altro poeta arriva a Roma e cambia lingua, ma con un movimento uguale e contrario: Albino Pierro, che aveva già pubblicato versi in italiano, recupera il tursitano per ricongiungersi al perduto mondo materese. Alla base lo sradicamento dal paese dell’infanzia immerso nella natura notturna: «’A notte prime di parte / mi ni nghianeve a lu balcone adavete / e alle sintije i grille ca cantaine / ammuccete nd’u nivre d’i muntagne. // Na lunicella ianca com’

’a nive / mbianchijaite ll’irmice a u cummente / ma lu pahazze méje / tutt’i balcune i’erene vacante». Nella poesia Tutta polvere Risi racconta d’un generale spegnersi e corrodersi, che cresce poi con potenti immagini naturali a sfondo atomico: «Il cielo è tossico da tempo

/ gli uccelli hanno smesso le ali // Il mare asciuga il suo plancton / e si svuota di pesci // Il grembo è senza forza / e la segala nei campi è cornuta // Qualcuno libera energia: / la terra si uranizza». E nella parte centrale esercita la sua consueta ironia proprio sui ripiegamenti  idillici e nostalgici dei colleghi:

 

 

L’Ilisso è buio

nella sua nuova tomba di cemento

come lo Stige,

i poeti lo piangono

nei bar: «C’era una volta»

dicono tra un anice e l’altro

dicono: «Lo sai?

Nell’anno...»

e scrollano fumo e polvere di dosso.

Non guariranno mai.

 

Anche Giudici in quegli anni porta avanti una poesia narrativa e colloquiale, venata d’ironia. Presenta per esempio un motivo altrettanto tradizionale dell’immutabile mondo campestre in cui rinchiudersi, ovvero la fuga del cittadino, sia esso il provinciale inurbato nella Roma imperiale o l’illuminista Parini, verso salubri plaghe con annesse smanie per la villeggiatura di goldoniana memoria o tentativi di salvezza dell’anima propri alla letteratura russa tanto frequentata dal poeta di La Spezia. Giudici da quasi per scontato e ovvio il vivere malsano nella città, scrive Dal cuore del miracolo, dove anche «un setter non può vivere. / Com’e possibile farlo passeggiare / nel traffico, respirare / nelle puzze del neo-capitale? E poi (altro / che passeggiare!) ha bisogno di correre, / di affinare l’olfatto ai naturali / odori della campagna.» (Quindici stanze per un setter, vv. 1-7 da La vita in versi 1965). L’anglicismo che dalle città britanniche della Seconda rivoluzione industriale perviene perfettamente adattato all’Italia d’allora e «smog» (Una casa a Milano v.1); ed ecco allora la lunga meditazione in versi, pensosa e ironica, sul topos Se sia opportuno trasferirsi in campagna, che capovolge la nozione di miracolo, riportandolo alla sua vera

ed umana essenza:

 

Gli scherzi, le meraviglie della natura,

i nani, i nidi, le uova con due tuorli,

scoprirli come ti piace – più sicura

ti fanno che un miracolo è possibile,

non qui, ma altrove, dove attraversano

la strada tra bosco e bosco gli scoiattoli,

e la vita è vicina, il tiranno invisibile,

e gli uomini, senza fretta, conversano.

 

Eppure in quella Brianza, già da Gadda mostrata nell’infestazione quasi lebbrosa delle «ville e villule», Giudici si ritaglia il «[...] piccolo mondo d’un disperso / villino nella schiera uguale» (vv. 80-1), che rima con un faticoso riposo domenicale, raggiunto e lasciato in auto nel week-end, che pare semplicemente, alla propria vigile coscienza, il complemento, del tutto integrato, della settimana lavorativa nell’inquinamento cittadino.

 

3. Roberto Roversi pubblica nel 1962 Dopo Campoformio, una raccolta di poemetti scritti tra il 1955 e il ’60, che presentano la campagna italiana fuori da ogni luce arcadica: si tratta di una vita povera e dura, di cui talvolta i fenomeni naturali aggravano la condizione. E’ il caso della piena del Po – «il fiume che fa paura» (v.88) – in Polesine del 1951,quando vennero allegati 113.000 ettari di territorio e occorsero 195 giorni per prosciugarli. La prima parte (Dal silenzio e nelloro) mostra il grande fiume nascere dal Monviso e scorrere,

largo e benigno, per la pianura spaccata in due come una mela, dopo aver ricevuto l’acqua di molti affluenti (Schiere opposte). La presenza umana occupa le parti centrali (Splendido amore; Alla foce; I fumi sulle altane; Cosi passano gli anni): sono giovani all’età

e dagli amori brevi o vecchi osservati dal passaggio del treno come patriarchi tra le acque del Po, «dove la gente italiana stenta» (II, verso finale), magari facendo «il bracciante sfortunato, / il pescatore di frodo, / il contrabbandiere braccato» (X, vv.16-18). La  terzultima poesia, appunto Lalluvione, introduce il nostro tema:

 

I campi sfiorire dentro il mare,

le onde strappare i rami dei cedui,

case crollare, i visi intorno ai tronchi

infuriati di schiuma,

le grida perdersi sulla duna,

cadere il fondo cielo come una piuma.

Gli uomini con la giacchetta scura

e il bavero rialzato,

la cicca sul labbro paonazzo

seduti sulla ghiaia;

e donne ad amare le case

perse nei gorghi,

poca roba raccolta ad asciugare,

rubato l’ordine misero alla giornata,

perduta la pace guadagnata,

anche il pianto ora e vecchio, inutile;

tutto da incominciare

 

Il lessico piano e la sintassi paratattica non impediscono in nulla un effetto epico, tanto nella visione della catastrofe naturale, da Faulkner di Palme selvagge, quanto nelle figure steinbeckiane di donne e uomini tremendamente colpiti ma non domati. Qualcosa di grandioso, come un finale biblico, dantesco o melvilliano, si percepisce, più che nello scatenarsi degli eventi, soprattutto nella calma mortale del dopo: «Finito il diluvio per il piano / restano soli nelle piazze / e le pompe travolgono / dal lago di melme foglie morte, / sterpi, rami, biade marce, piume» (X, vv. 6-10). L’ultima poesia (Un legno alla deriva)  riprende la visione della terra desolata e traghetta dalla presenza animale, «dove nei mattini ventosi, / fra gli acquitrini spenti, / riposano uccelli teneramente vivi / nell’incertezza e nel terrore, / perché pace non c’è né sicurezza / per loro se non nella fuga» (vv. 12-17), all’idea di morte che coinvolge anche l’io poetante, insieme alla gente li sepolta «come prue conficcate nella melma, / tutti, uomini e donne, insieme» (vv. 22-3). L’intero ciclo di poemetti – nella seconda edizione einaudiana del 1965 – si chiude con Iconografia ufficiale, dedicata all’ondata che nel ’63, dalla diga del Vajont spazza la Val Cellina provocando duemila morti. Il testo esordisce con una descrizione referenziale, piena di numeri, della «diga gioiello d’architettura», rispetto a luogo di costruzione, dimensioni e funzione; poi introduce senza soluzione di continuità l’evento: per costruirla sono stati impiegati  350 000 metri cubi di calcestruzzo e mezzo milione di quintali di boiaca. Crolla la diga del Vaiont travolgendo interi paesi immersi nel sonno. Era la più alta d’Europa. Si cercano le vittime nel fango il fango ha sommerso cinque borgate fra i superstiti rassegnazione e fatalismo: i superstiti non piangono. Segue il «referto della pronta indifferenza burocratica », come scrive l’autore in nota, con i messaggi del Presidente Leone e delle altre autorità («pregola recare popolazioni colpite tanto flagello» v. 52), che si recano sul posto in contrita visita di prammatica. Si trova il riferimento, consueto per i tempi, alla distruzione di Hiroshima («il paesaggio e di un biancore insopportabile » v. 34), perché, se a tutta prima pare anche questa una sciagura operata da una natura distruttiva e indifferente, è chiaro invece che lo sconsiderato intervento dell’uomo ha creato il disastro: «Gli uomini vivevano sereni ai piedi della diga, / il fianco della montagna che

si specchiava nel lago, / era da migliaia d’anni che si ergeva compatta e possente» (vv. 26-8). Tuttavia proprio la trascuratezza della «parte geologica» («[...] approssimative

/ le prove sulla struttura delle rocce» v.59, vv. 63-4) viene rinvenuta quale causa dolosa dell’evento. Come visto dalla più ampia citazione sopra riportata il linguaggio non e più epico, ma volutamente cronachistico, le figure senza caratterizzazione: domina la superba stoltezza nel confronto con la natura e le vuote dichiarazioni del dopo. La coscienza ecologica dell’autore, nel raffronto tra i due disastri, pare ormai maturata.

Al termine di questa parziale ricognizione sulla poesia che fronteggia il boom ancora un testo (Giardino dEuropa) di Risi, più tardo ma ricapitolativo degli elementi sopra  individuati: inurbamento, distorsione ambientale, mossa turistica di ritorno alla natura:

 

Veniamo tardi siamo

da compiangere –

tutto il ferro è già cavato

ogni tronco fu arso ogni zolla spremuta

ogni sorgente fu spenta, cielo e mare

di un blu senza vita –

pur di trarre un vantaggio immediato

l’italiano penso mai al risparmio?

 

O siamo in anticipo:

l’Appennino frana dai due lati

su terre sfollate dove nessuno canta –

tutti in città! ma un’onda

di ritorno torbida scontenta si riversa in cerca

di iodio e clorofilla, e l’esodo

dei profughi del turismo e il tempo

delle vacanze in psichiatria.

 

Può darsi che un giorno saremo

una pista salutata dai venti

per i lanci su Marte.

 

 

Alla chiusa di Risi sul futuro, beffardamente apocalittica, vanno accostate alcune riflessioni di Pasolini, apparse per «Il Tempo» in due articoli del 22 marzo 1969, e molto sue in quanto iscrivono il problema ecologico nella più ampia polemica contro il presente. Nel primo la «trasformazione sacrilega» del titolo si riferisce tanto a Cesarea in Cappadocia che ad Arezzo, dove «su una pianura modestamente coltivata […] ecco anche qui, a destra, una grande fabbrica, nuova di zecca, sul tenero verdolino del grano. E poi le casette degli operai: casette giudiziose, che riescono a rendere povera la campagna: povera appunto perché appena un po’ ricca ». In entrambi i luoghi i tecnici e i giovani rivoluzionari premono per il nuovo a tutti i costi, «facendosi cosi portatori di un valore neocapitalistico». Nel secondo pezzo – «Italia nostra non otterrà nulla» – aggiunge tra i distruttori inconsapevoli del passato gli operai perché trasformatori del mondo, la borghesia e i politici di ogni schieramento che, sapendo impopolare la battaglia per la conservazione, non la fanno mai propria; infine le piccole élite intellettuali poco disposte a combattere in piazza per coinvolgere il resto della società. Al netto di una risacralizzazione del passato, compresa del paesaggio, soluzione che appare impraticabile e a sua volta ideologica, Pasolini metteva lucidamente sul tavolo un’impasse che e ancora in buona  arte la nostra.


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