« indietro FRANCO BUFFONI, Personae, Lecce, Manni, 2017, pp. 118, € 13,00. In: «Semicerchio» LVII (2017/2), Uncreative poetry, pp. 62-63 Appare del tutto naturale che l’intenzione etico-didattica espressa sempre più fortemente nel lavoro recente di Franco Buffoni lo portasse dritto al teatro e in particolare al teatro di poesia. L’arena dialettica della pièce vive degli scontri e degli incontri di un quartetto di personaggi sorprendentemente complementari: un professore universitario e il suo compagno (Narzis, da Hesse ma anche bel nome pasoliniano, e Endy, cioè Endimione ‘per gli amici’; la coppia ha dei figli), un prete lefevriano nei panni del grande inquisitore (Ìnigo, spagnolescamente) e una ricercatrice biologa ucraina, Veronika, ‘vera icona’ (etimologia esplicitata dall’autore) di un eterno femminino desiderante ma monco (tutti lo sono, almeno secondo il parametro rigidamente eterosessuale del personaggio: «cosa ci faccio io con tre uomini monchi?»); nel suo caso si tratta del trauma dell’abbandono da parte del marito gay (ma appunto, trattandosi di eterno femminino: «Col tuo amore Kostia non poteva confrontarsi. / Avrebbe sempre perso»). Quattro maschere, dunque, le personae del titolo ma ben presto – ed è una qualità del testo – terminali della nostra irritazione o simpatia. Sorprendente è l’ambientazione del lavoro: siamo nel teatro del Bataclan in un tempo sospeso ma immediatamente successivo alla tremenda mattanza del novembre 2015. I nostri personaggi sono dunque spettri. La mossa può parere sproporzionata, ma non solo a teatro tutto è possibile, è l’incommensurabilità stessa dei fatti a creare la rarefazione necessaria allo sviluppo più vocale che corporeo dei personaggi fantasmi. L’occasione fissa del resto lo sfondo politico del testo, quello cioè dello scontro di civiltà all’interno del quale si trovano ridicolizzate tanto le tirate sessuofobe e islamofobe (più ferventi le prime) del lefevriano Ìnigo, che, con condiscendente ironia, le battaglie verbali tra lo stesso e il professore. I due, di fatto, parlano, culturalmente, la stessa lingua. Così infatti commentano i restanti personaggi (p. 43): ENDY «Non ho mai visto Narzis così teso–», VERONIKA «E non si mollano i due sembrano / Ipnotizzati l’uno dall’altro–», ENDY «Come se quel dialogo di insulti / Per anni l’avessero covato / E solo oggi riuscissero–», VERONIKA «Ad amarsi! Endy se fossi in te mi preoccuperei, / Quei due si stanno amando–». Ma altre alleanze e avvicinamenti sono possibili, tanto che, a turno, i personaggi pronunciano tutti la stessa battuta: «Col mio racconto sono riuscito ad allearvi, / Non mi stupisco, / La sconfitta è la mia cifra di battaglia».
Questi contenuto e décor della pièce. Veniamo al testo e torniamo ad una della battute appena citate: «Per anni l’avessero covato / E solo oggi riuscissero–». Oltre ad apprezzare il procedimento ‘classico’ per cui una battuta è lasciata in sospeso da un personaggio per essere completata da un altro (che si somma altrove al procedimento per cui un verso è spezzato in due battute distinte), interessa qui mettere in contatto i due congiuntivi imperfetti pronunciati da ENDY con un ricordo che si legge nel libro/intervista recentissimo di Franco Buffoni e Marco Corsi, Come un polittico che si apre (Milano, Marcos y Marcos, 2018). L’autore ricorda le sue prime esperienze di spettatore di teatro: «Quando ero ragazzo nei Sei personaggi Renzo Ricci scandiva quei congiuntivi imperfetti in doppiopetto da direttore di banca. Assolutamente astratto» (p. 342). La frase descrive a perfezione la scena poetica di Buffoni dove i versi sono spinti dalla pagina scritta al vuoto del teatro. Ci torneremo. Notiamo invece intanto come si moltiplicano i segnali per definire una marcatura del testo come una scrittura veramente teatrale. Lo indicano i momenti in cui gli scambi tendono alla prosa e a una certa trivialità: INIGO «Uteri in affitto per un contatto sensoriale col divino!» NARZIS «Non mi risulta che nessuno mai / Abbia definito mammelle in affitto / Le balie di antica e antichissima memoria». Lo stesso effetto è ricercato con inserti ‘checoviano/ ibseniani’ (NARZIS «Stanotte la notte è così triste / Che qualcuno si è messo a ridere.»; ENDY «Se penso agli anni che due vite avevo / A come s’aprano e si chiudano / Si formino e si disfino le nuvole–»). Investe invece l’organizzazione poetica del macrotesto la sua scansione generale, con la classicissima divisione teatrale in cinque atti ripartiti in scene e in ‘quadri’ tutte e tutti, come poesie, provvisti di titoli. Troviamo inoltre varie poesie embedded nel testo e dette a turno dai personaggi (per es. ENDY p. 54 «Al dio del fuoco e delle scosse sismiche, del tuono / Per tre ore urlarono i bambini da sotto le macerie / Sempre più debolmente, poi come ali / Le mani sbatterono sui fianchi per poco. / Quindi fu solo un ammucchiarsi di piccole bare / Con le bandierine nel giardino bianco [...]»). Soprattutto è sfruttato lungo tutto il libro un procedimento di farcitura (pratica, riordiamolo, del teatro liturgico medievale), per cui una scena o un quadro prende l’inizio da una citazione, prevalentemente poetica, spesso tradotta (la ‘chiave’ delle fonti è fornita a fine libro). Per es. (Atto IV, quadro II, p. 75), si veda l’incipit zanzottiano NARZIS «Vien su dragona de arzénto, maga! / Questa la imparai con Endy / Dal Casanova di Fellini–», o ancora (Atto IV, quadro VI, p. 89), l’inizio leopardiano coi versi funebri di sopra il ritratto di una bella donna quindi tradotti da Pound, che dopo uno spunto quasi pasoliniano del proletario ENDY («Dello stabilimento balneare in primavera / Coi fili d’erba che gli spuntano / Tra grumi di sabbia vecchia dappertutto / E solo un motorino davanti / nell’immenso parcheggio»), NARZIS tenta di commentare: «Che la si usi o no la vita passa / Non lo voglio più dire / Né tradurre». Si medita insomma, anche sulla traduzione, l’altro mestiere di Buffoni (nel citato come un Polittico lo stesso Buffoni ricorda come la scrittura delle tirate dei personaggi sia stata facilitata da decenni di esercizio traduttorio: il teatro come gesto ventriloquo, in un certo senso). Né manca tra le citazioni, un’immancabile marcatura teatrale, la versione di Macbeth V 5: «La vita non è che un’ombra in movimento, / Un povero attore che si affanna / Per un po’ su un palcoscenico / E poi tace per sempre –» («Life’s but a walking shadow, a poor player»). È infine sempre dall’intervista citata che possiamo estrarre il canone buffoniano del teatro di poesia: «Per il teatro di poesia, se devo indicare dei modelli però, rispunta l’anglista che è in me e i nomi sono quelli di Yeats, dell’Eliot di Cocktail Party e soprattutto di Auden, del teatro sperimentale degli anni Trenta (The Ascent of F6, per esempio) a The Age of Anxiety. E naturalmente tutta l’indigestione anni Settanta di fringe theatre, col doppio coté italiano e inglese, il Living e Leo De Bernardinis, fino a Kantor. E Bene ai suoi bei dì, non certo dopo con quelle orrende voci registrate. Per il teatro di poesia da un punto di vista tecnico, non certo contenutistico, aggiungerei il nome di Mario Luzi. [...] Certamente, un conto è la messa in scena, un altro la pubblicazione dell’opera. Il poeta che fa teatro pensa dapprima alla sua opera teatrale come a un libro di poesia.» (p. 341). L’ultima frase, in particolare, pone il problema del passaggio del testo dalla pagina alla scena, non facile (sempre che non si scelga una rappresentazione ‘in forma di oratorio’). La parte della poesia, preponderante, fa sì che il tono generale della pièce possa tendere perfino ad un Assassinio nella Cattedrale rivisitato. Il testo ha comunque sufficienti ressorts e tensione per arrivare, in forma ‘compressa’ (Buffoni si dice pronto a farne una riduzione), al palcoscenico. Risulta soprattutto dal passo citato che all’autore interessava il problema progettuale e estetico posto dalla composizione di Personae: fare poesia per il tramite della ‘forma/teatro’. Anche il contrario (fare teatro con la poesia) è del resto possibile come prova abbondantemente la vena da predistigiatore ripelliniano di Luigi Socci, autore antologizzato nei quaderni buffoniani un titolo del quale (quello della raccolta Freddo da palco) è citato (celatamente) nella pièce: VERONIKA «[...] ditemi / Se quella luce laggiù porta a un’uscita / O se è soltanto– /» ENDY «L’ho già esplorata, freddo da palco, / Da qui non s’esce, siamo bloccati». Nel libretto di Socci, una poesia, Ultima prima al Na Dubrovka, era del resto ispirata ad altra mattanza di spettatori dopo l’intervento delle forze speciali russe nel teatro occupato dai terroristi ceceni. Teatri della crudeltà, appunto. Così che Personae, che viene dalla poesia in tutto e per tutto, è insieme il tentativo di calarsi tanto nell’attualità dei fatti che nella resistenza dei testi canonici all’urto stesso dei fatti, insomma, una specie di prova generale sotto gli occhi del poeta/regista, un ‘Bataclan alla prova’ potremmo anche definirlo, alludendo al teatro di Testori (non fosse che l’ultracattolico Testori che vive e legge l’omessessualità come sofferenza creaturale, è espunto dal pantheon illuminista e militante di Buffoni). La poesia spinta sul palco e fuori dalla pagina deve, per Buffoni, continuare a funzionare come poesia, anzi, è il teatro stesso che rappresenta il prolungamento con altri mezzi della poesia. Fabio Zinelli ¬ top of page |
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