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Tradurre Jaccottet 

Di Antonella Anedda 

 

In: Semicerchio LV (02/2016)30 anni” pp. 168-171.

 

Novembre. Automne, feu pluvieux, vieux feu, bûcher. Ferraille, bois et brumes. Rouille, cendre... 

È un passaggio della Semaison, aperta a caso negli scaffali di una libreria in casa di un amico, Gianluca Manzi. Non sapevo nulla dellautoree il libro non aveva che un sobrio sottotitolo: Carnets, 1954-1979. Sembrava un diario, ma non aveva nulla di personale, le date scandivano ora brevissime note, ora riflessioni più lunghe, la prosa improvvisamente si raggrumava in versi o al contrario i versi costruivano banchine di prosa. Poi lepigrafe, tratta dal dizionario Littré: Semaison, dispersion naturelle des graines dune piante, ha detto lessenziale. Quei taccuini non raccoglievano che la dispersione e lo facevano naturalmente come succede ai semi che volano, cadono, a volte germogliano. Quelle parole traducevano la campagna che si vedeva dalla finestra. Autunno, fuoco piovoso, vecchio fuoco, rogo. Rottami, legno e nebbie. Ruggine, cenere. Il mese era veramente novembre, cerano dei fuochi in lontananza, il vapore si sollevava dalle cose, le immagini, compresa quella di un rottame di macchina, scintillavano proprio grazie alla loro precarietà. II canto di quelle prose spezzate da versi e annotazioni non era un canto a gola spiegata, ma «en sourdine», somigliava a un mormorio o a un ronzio. Non cera musicalità, ma suoni, rumori, scalpiccii. In quelle pagine entravano i tuoni, la pioggia sulla lamiera, il crepitio dei fuochi, il dettaglio più umile era la pietra scartata che costruiva il tempio. 

Quando quello stesso giorno ho letto le poesie di Leffraie et lignorant, tradotte da Fabio Pusterla, una, tra le tante mi ha colpito: Le laveur de vaisselle. Il testo parlava di una fatica e di una servitù capaci di trasformare la povertà in pienezza. Anche questa volta la poesia si traduceva nella realtà del lavabo poco distante con dentro i piatti da lavare e faceva corpo con quella gratuità che è indivisibile dalla poesia e si saldava di nuovo a termini come dispersione, attesa, inutilità. 

La scelta di tradurre Jaccottet ha coinciso anche con la possibilità di approfondire una solitudine, di cpire le distanze da modelli italiani più estranei ancora per me di un autore straniero. Forse, per via obliqua ha significato prendere coscienza di quanto il mio italiano fosse tradotto e trasformato da altre sonorità che sono in realtà lingue: il catalano di Alghero, la limba logudorese, il corso di Bonifacio così vicino al dialetto gallurese. In realtà, si è trattato di unesperienza così importante, così fitta di incontri, così prolungata nel tempo che dovrei parlare di traduzione-trasformazione. Non so con quanto terrore Jaccottet abbia guardato questa mia fedeltà (ostinazione?) ma in quel francese finalmente trovavo una lingua che parlava in un modo inusuale, laterale, attraverso lo spavento, il dubbio, il volo cieco degli esseri umani non diversi in questo dai barbagianni. Quel linguaggio era lontanissimo da autori che mi era capitato fino allora di tradurre, per esempio St. John Perse: non aveva splendore, ma luce, non aveva ricchezza ma profondità, convertiva se stesso verso una rotta solo sua, ardua, che saltava i secoli allindietro e raggiungeva per naturalezza più la prosa che la «poesia», con un tono sommesso, familiare (Madame de Sévigné che scrive a Madame de Grignan con la coincidenza di Jaccottet che vive a Grignan) con un rigore dolente ma non amaro. 

Lattachement à soi augmente lopacité de la vie. Un moment de vrai oubli et tous les écrans, les uns derrière les autres deviennent transparents, de sorte quon voit la clarté jusquau fond, aussi loin que la vue porte; et du même coup plus rien ne pèse. Ainsi l’âme est vraiment changée en oiseau. 

Lattaccamento a sé aumenta lopacità della vita. Un momento di vero oblio e tutti gli schermi, uno dietro laltro diventano trasparenti, di modo che noi vediamo la chiarezza fin nel profondo, tanto lontano quanto consente la vista; e insieme più nulla pesa. Così lanima è davvero trasformata in uccello. 

«Lattaccamento a sé aumenta lopacità della vita»: questa frase che apre il maggio 1954 della Semaison, si è tradotta negli anni in qualche cosa che travalica la sua resa in italiano. Anzi negli anni non ha smesso di tradursi e rifrangersi in una visione della poesia non separata da quel «Je ne voudrais pas tricher» così spesso ribadito da Jaccottet. Questo «non barare» è stata anche una lezione per il tradurre: provare (non a caso Jaccottet usa il condizionale) ad ascoltare non la propria ma la voce dellaltro, provare a restituire per trasparenza e non per prepotenza. In questa disposizione a non cercare ma attendere, in questa sospensione da se stessi attraverso lattenzione cera, tradotto nella stessa sua lingua, il pensiero di Simone Weil. E ciò che si traduceva davvero riguardava la vita perché - leggiamo nella Semaison - «la difficulté nest pas d’écrire mais de vivre de telle manière que l’écrit naisse naturellement». E se la scrittura ha un «fuoco» è quello di una luce magra, che il poeta protegge a fatica e si nutre della sua stessa sconfitta, della sua stessa fragilità: «comme le bois napprend quen la défaite à éblouir». 

In un capitolo di Philippe Jaccottet, tous feux éteintsIsabelle Lebrat ne ha definito lattività di traduttore con le sue stesse parole: à l’écoute de la voix dun autre, riflettendo sulla centralità di questa disposizione a tradurre laltro per diversità e non per assimilazione. 

Attraverso suggestioni che toccano lo Zohar e la mistica ebraica, fino ai filosofi taoisti, Lebrat rintraccia lorigine di termini come ritrazione, mancanza, spoliazione. Allo stesso tempo mostra come tradurre Jaccottet sia tradurre un poeta il cui «effacement» (parola che da sola pone già problemi: è il «il cancellarsi» così vicino alla preghiera per diventare niente di Simone Weil) si scontri con luso di forme metriche tradizionali come il sonetto. La sfida è rendere questo gioco di forze, appunto questo istinto di dispersione e di forma, di rigore e abbandono che rodono e muovono le linee della scrittura. 

In un altro bel testo dedicato proprio al lavoro di Jaccottet traduttore, Mathilde Vischerha dimostrato, analizzando tra laltro, la lettura dellInfinito di Leopardi, come Jaccottet intervenga nei confronti delloriginale, con una «presenza» che sembrerebbe più decisa rispetto a altre traduzioni – per esempio quelle da Hölderlin – tanto trasparenti da essere addirittura accusate di «platitude». Così il verso: «Sempre caro mi fu questermo colle» diventa: «Toujours jaimai cette hauteur déserte». Ma anche questo spostamento del soggetto da «colle» a «je» coincide, paradossalmente, più con una volontà di normalizzazione che di potenza. «Ermo» diventa «déserte», la meditazione sullo spazio e sul tempo si semplifica attraverso un io, non certo titanico, ma quasi trascurato che usa quietamente il verbo «amare». 

Se Jaccottet traduce interi mondi che passano per le Upanishad e il Taoismo, la musica di Purcell e le liriche di Basho e Issa, la Russia di C? echov e lAustria di Musil, allo stesso modo la sua attività di traduttore si riverbera su chi lo traduce. Leggere (e provare a ri-tradurre) le sue traduzioni (da Tasso a Ungaretti, da Hölderlin a Christine Lavant, da Montale a Mandel’štam) nel volume Dune lyre à cinq cordes, è come avere un doppio specchio che riflette una scheggia particolare di quei testi e illumina la poesia di Jaccottet attraverso scelte che non sono mai solo estetiche. Esemplari a questo proposito le traduzioni dal russo di Mandel’štam, che sono tra le più belle mai lette proprio perché rendono in pieno il nodo luce-suono-senso, lo stratificarsi minerale di una poesia in cui si fondono grandezza e pudore. «Quando nel 1981» – leggiamo in A partir du mot Russie«mi sono arrischiato a tradurre e a commentare Mandel’štam, ho scritto che la sua poesia mi aveva colpito come una meteora, allo stesso tempo dura e brillante, come una cosa venuta da lontano, implacabile, avvertita anche come una prova [...] e come un modello del resto inimitabile». 

Ciò che Jaccottet apprezza in Mandel’štam è la capacità di riconciliare prossimità e lontananza, un modello appunto di poesia fatta di cose, aspra, ma non contratta, dolente ma sobria: «Le poème de Mandel’štam, de 1921, qui commence par le vers: Je me suis lavé, de nuit, dans la cour (ou simplement dehors) représente à mes yeux un modèle de poésie à opposer à presque toute celle qui s’écrit aujourdhui (et malheureusement à mes propres essais, si irrémédiablement éloignés de ce que je voudrais et que jadmire précisément en un tel poème). Réconciliant le proche et le lointain à partir des choses les plus simples, rude sans être crispé, douloureux, mais sobre». 

Così, attraverso la Conversazione su Dante di Mandel’štam, Jaccottet traduce Dante e riprende Simone Weil quando per commentare la poesia già citata: «je me suis lavé, de nuit, dans la cour», sceglie una frase della filosofa: «Blessures: cest le métier qui rentre dans le corps. Que toute souffrance fasse rentrer lunivers dans le corps». 

Lungo queste costellazioni sono moltissime le immagini da Mandel’štam che Jaccottet lascia sedimentare nei suoi versi: il ruminio del poeta nel tempo, il tema delle radici verso cui la poesia si piega, preferendole alle stelle, il legame con la terra arata, le api con il loro ronzio luminoso, il verde della vegetazione. 

La prosa di Jaccottet obbedisce a un ritmo che è un paesaggio: la Francia del sud con le sue rocce, i suoi alberi (lecci, tigli), i suoi venti, e con una dispersione che coincide con una ricerca di verità. Tradurla è provare a dare un ritmo naturale alla scrittura, legato al mutamento delle luci e delle stagioni. Significa però allo stesso tempo interrogarsi sulla possibilità di un linguaggio essenziale, non retorico. Il tentativo era (è) trovare una prosa che non fosse prosa darte, ma rintracciasse un italiano forse dimenticato, una memoria dellasciuttezza di Guicciardini e di Sarpi, la lingua che avremmo potuto avere e non abbiamo e che esiste forse solo in margine, in luoghi di frontiera, dove letica della lingua è sopravvissuta misteriosamente e dove il linguaggio è anche suono capace di accogliere voci diverse, domestiche, minime. Una lingua in parte superstite nel dialetto ma che c’è stata e avrebbe potuto resistere contro unItalia posticcia e che si affaccia di tanto in tanto, di nuovo, in esperienze eccentriche: i testi e la voce di Paolini in Bestiario italiano, i dialoghi di Olmi in II mestiere delle armi. 

La prosa di Jaccottet ha il ritmo della sua poesia, affonda nella terra. Ha un ritmo biblico che va ricreato con cautela evitando qualsiasi enfasi. Rendere questa naturalezza fatta di passaggi impercettibili, di fruscii che si sovrappongono ai pensieri, è difficilissimo. Questi suoni, si legano a un «tono» ancora più basso, in cui lio dellautore parla scomparendo, cancellandosi e restando simile a una traccia, a unorma, a un rombo in lontananza. La traduzione dovrebbe restituire questo tono, semplificandosi il più possibile: 

Parler avec ce vide au coeur, contre lui. Pousses dacacias sur le blanc presque bleu du ciel. Brûler de feuilles mortes, arracher de mauvaises herbes, se borner peut-être à cela...

Parlare con questo vuoto al cuore, contro di lui. Germogli di acacia sul bianco quasi blu del cielo. Bruciare foglie morte, estirpare erbe cattive, forse limitarsi a questo... 

Ma le difficoltà sono anche altre: lambiguità di alcuni termini che comunicano, passandosi il senso, trascolorando luno nellaltro: Riprendendo la citazione iniziale «Aube cendreuse, consumée, fête finie, ornements déchirés, délavés»: «Alba cinerea, consumata, festa finita, ornamenti strappati, sbiaditi?», ma anche inzuppati, scoloriti dallacqua. 

Ed ecco – intero – il testo che segue: 

Nourri dombre je parle,

et remâchant maigre pâture de ténèbres

pauvre, faible, adossé aux ruines de la pluie,

je prends appui sur ce dont je ne puis douter,

le doute et habitant linhabitable je regarde

je recommence à marmonner contre la mort 

sous sa dictée. En meffondrant je persévère

à voir, je vois leffondrement qui brille,

et toute la distance de la terre,

toute la profondeur de l’âge vaguement 

illuminée, une douceur insoutenable,

une aile sous le couvert sombre des nuées. 

Lombre mouvre les yeux,

et le rapprochement de limpossible au fond du jour 

linvasion de cendre au fond de moi victorieuse, 

insolente, féroce, ne me font pas taire,

me dictent de nouveaux propos en désespoir

de cause, et je tâtonne entre les anciens mots, 

parmi les ruines des anciens vers,

ah! Sans que rien ne me soutienne ni me guide 

que la puissance de lerreur,

quune ombre taciturne et ne portant de lampe. 

Nutrito dombra, parlo / e ruminando magre pasture di tenebre / povero, debole, addossato alle rovine della pioggia / mi stringo a ciò di cui non posso dubitare / il dubbio / e abitando linabitabile io guardo / io riprendo a biascicare contro la morte / sotto sua dettatura. Crollando persevero / a vedere, vedo il crollo che scintilla / e tutta la distanza della terra, / e tutta la profondità degli anni fiocamente / illuminati, / una dolcezza insostenibile, / unala sotto la coltre bruna delle nubi. / Lombra mi schiude gli occhi / e ravvicinarsi dellimpossibile allo sprofondare del giorno / e linvasione della cenere nel profondo di me stesso, cenere / vittoriosa, / insolente, feroce, non mi fanno tacere, / mi dettano come ultima risorsa nuovi discorsi / ed io brancolo fra parole antiche / fra rovine di antichi versi, / ah! Senza che nulla mi sostenga né mi guidi / tranne la potenza dellerrore, / tranne unombra taciturna / e che non porta lume. 

Un esempio di dubbi. A) Linversione del soggetto: «io parlo nutrito dombra», mi sembrava troppo assertivo e ho lasciato intatto il verbo alla fine come nelloriginale anche se alle mie orecchie suona eccessivamente familiare: linversione del soggetto è tipica del sardo tradotto in italiano. B) Il nutrimento dombra, il ruminio delle tenebre nel testo originale è affidato a una nasalizzazione (gerundi e avverbi) difficile da mantenere ma che ho provato a restituire attraverso un parlare lento, faticoso. C) «marmonner» è brontolare ma forse «biascicare» avrebbe dato risalto alla debolezza, alla senilità del testo, quel prevalere di suoni trattenuti a lungo prima di diventare voci. In questo senso di freddo e smarrimento rientra anche la scelta di «mi stringo» per «je prends appui». D) «je tâtonne» che è andare a tentoni, tastando il vuoto, ma che alla fine ho tradotto con «brancolare», privilegiando lelemento di cecità, la notte oscura dellombra che tace e «che non porta lume»: quel dubbio a cui anche chi traduce, continuamente si appoggia. 

 

 

 

 

 


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