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JOLANDA INSANA, Cronologia delle lesioni 2008-2013, Luca Sossella editore, Roma, 2017, pp. 93, € 12,00. 


In: «Semicerchio» LVII (2017/2), Uncreative poetry, pp. 68-69


L’ultimo libro di Jolanda Insana (1937- 2016) esce postumo, ma è stato concepito dalla stessa poetessa e raccoglie versi scritti tra il 2008 e il 2013. Il titolo Cronologia delle lesioni sottolinea il susseguirsi ineluttabile delle ferite, scandisce il tentativo di dire –  e in tal modo arginare – i mali della vita. Il disegno della poetessa scelto per la copertina sembra esserne una metaforica esemplificazione: una china risalente al 1976 mostra infatti una figura geometrica spaccata, di cui resta però visibile l’ordito, il dettaglio dell’intessitura, come ad indicare simultaneamente ciò che si spezza ma anche ciò che si ordina e costruisce. Il volume si apre con un’introduzione di Maria Antonietta Grignani che rende omaggio alla poetessa scomparsa soffermandosi sui principali temi della raccolta. Un’utile nota bio-bliografica stilata da Anna Mauceri è invece inserita in chiusura e traccia il percorso di Jolanda Insana mostrando come la fertile attività poetica sia stata accompagnata e nutrita da un’intensa attività traduttiva, in particolare dal latino e dal greco. Il superamento della dimensione lirica in nome di una più forte attenzione al reale, tipici della concezione poetica di Jolanda Insana fin dagli esordi, vengono qui fissati dall’epigrafe: «dissi il suo / poi che il mio si tacque». Il doppio valore, temporale e causale, della congiunzione «poi che» –  con grafia staccata come nell’uso antico – sottolinea come il rifiuto dell’autoreferenzialità («il mio si tacque») sia indispensabile premessa all’apertura all’altro («dissi il suo») e dunque alla tensione civile della raccolta.
Il volume è diviso in quattro sezioni. La prima s’intitola Bocca immonda ed è costituita da un’invettiva contro un’entità che inghiotte, distrugge e inganna, una bocca «ammaialata» per dirla con un neologismo della poetessa che ben illustra la creatività linguistica e la forte incisività del suo dettato. Le frequenti coppie di aggettivi («immonda e vischiosa», «putrefatta e puzzolente», «infame e calunniatora») e di forme verbali («si riempie e si svuota», «si spalanca e si sganascia», «s’ingota e soffia») riprendono uno stilema già collaudato nelle opere precedenti, qui usato per insistere sulla bassezza morale di chi offende e sulle sue devastanti azioni. La denuncia di privilegi e mazzette in contesto italiano si allarga a uno scenario internazionale tramite riferimenti alle dure condizioni di vita delle donne in paesi in cui le spose sono bambine e le adultere vengono condannate alla lapidazione. Una voce esterna segnala a guisa di ritornello nuovi casi di femminicidio. La bocca immonda diventa simbolo delle violenze perpetrate da chi detiene il potere, ma anche degli inganni e delle truffe che servono a giustificare tali oltraggi. La seconda sezione della raccolta – Frammenti di un oratorio per il centenario del terremoto di Messina – è dedicata al sisma che all’inizio del Novecento colpì la città siciliana provocando migliaia di vittime. I testi, uno per pagina al centro del foglio, fissano come un’istantanea il momento spaventoso in cui gli individui si confrontano con la morte e la devastazione. La prima poesia della sezione presenta in siciliano il grido di una madre –  «accurriti accurriti gente / me figghia me figghia / portate una scala / me figghia» – che suggerisce come al tono dell’invettiva sia ormai subentrata la compassione. I versi rievocano di volta in volta la sorpresa di chi – per caso o per miracolo – si è salvato, lo spavento che spinge alcuni sopravvissuti a lasciare per sempre la città, l’orrore generato da infernali «cataste di corpi gementi e sanguinanti», il silenzio e la follia che minacciano coloro che dopo la tragedia vagano come «spettri sbiancati / non più essere umani». Ma la catastrofe non occulta la responsabilità morale dei singoli: accanto alla vedova che fa da madre ai figli ormai orfani che il marito ha avuto con l’amante vengono rappresentati anche i saccheggiatori che cercano oro tra le rovine depredando impietosamente i cadaveri. La predica Contro l’assedio delle ceneri è stata presentata nel 2008 alla manifestazione Napoli Teatro Festival Italia. Nel testo il soggetto poetico si erge contro «ciò che offusca lo sguardo», ciò che porta a spiare l’attualità senza realmente guardare. Si riferisce ai migranti che «s’incarretano per mare in gusci di noce / scivolano scivolano in acqua / e affogano», alle innumerevoli morti bianche e infine ai giovani che non trovano lavoro in una società basata sulla «meritocrazia raccomandizia / escrementizia». Il genere della predica esalta la funzione conativa. I versi si rivolgono a un destinatario abilmente variato: una seconda persona singolare («E a te dico e ti chiamo per nome»), una seconda persona plurale («Chiedo a voi uno per uno») oppure una prima persona plurale («Ma noi che facciamo?»). Tramite l’imperativo si incoraggia una reazione concreta e rigeneratrice: «tu che puoi / rinovella la vita» o ancora «togliete la cenere dai vostri occhi / togliete la cenere dalla testa dei maltrattati / e guidateli alla fonte». Nella parte conclusiva, con una serie martellante di esortazioni, l’io poetico spinge i giovani a scendere in piazza e afferma il proprio pieno e personale appoggio: «Io in galera vengo con voi». L’ultima sezione si intitola Terra / Luna: un’infinita risonanza. In corsivo sono indicati i versi che alludono al secondo degli Idilli di Teocrito e in particolare alle pene d’amore che l’incantatrice Simeta confessa a Selene, personificazione della luna piena. Nelle altre strofe è la luna a prendere la parola ribaltando la prospettiva. Se Simeta interroga Selene per capire l’origine della passione amorosa «Da dove mi venne questo amore», la luna ribatte «Da me non venne nessuno». Il motivo leopardiano del dialogo con la luna è ripreso in modo parodico: «e tutti lì a domandarmi / che faccio io / pallida luna in cielo / verecondo raggio / eccetera eccetera». Adesso è la stessa luna a domandare «che fai tu terra / terra di misfatti e di torture?» Il motivo lunare spogliato dalla dimensione lirica è riletto in chiave civile. La luna, da oggetto di contemplazione diventa soggetto che lucidamente guarda e giudica la terra: «ti vedo / sono il tuo occhio satellitare e t’inseguo / sono la tua telecamera». Gli affondi poetici che denunciano i soprusi si placano nel lieto sorriso dei versi finali dove la luna dichiara «e tu / proteggi / Terra / gli orfanati e le partorienti / custodisci il grano la vigna e l’ulivo / e io sarò ridente». Mancherà ai lettori il tono appassionato e battagliero della poetessa, capace di ricordare come necessario compito della poesia sia confrontarsi con il mondo, denunciare le ingiustizie per cercare di ripararle.

Ambra Zorat

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