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FRANCESCA SIVO

Follia d’amore, La fabula di Ero e Leandro nella versione di Baudri de Bourgueil, 

Foggia – Campobasso, Il Castello 2018, pp. 192, € 20,00.

 

Di Irene Spagnolo 

 

In: Semicerchio LVIII-LIX (01-02/2018), pp. 134-135. 

 

Follia d’amore è un titolo certamente rivelatore del contenuto della fabula di Ero e Leandro nella elegante rielaborazione del poeta mediolatino, prima abate e poi vescovo, Baudri de Bourgueil, che Francesca Sivo introduce, traduce e commenta.

In poco più di cinquanta distici elegiaci all’interno di un carme molto più ampio, il 154, il poeta mediolatino ha riscritto o, meglio, trasposto in versi le Mythologiae, opera prosimetrica composta tra V e VI secolo dal grammatico africano Fulgenzio. L’autrice dell’edizione offre in una valida traduzione italiana centoquattro versi che appaiono senza dubbio rappresentativi dello stile, della personalità poetica e dei temi di cui sono intessuti i carmina di Baudri. La traduzione, benché in prosa, non per questo è disattenta nel restituire il gusto del poeta per le figure di suono o di posizione. Ne è un buon esempio la triplice allitterazione con vocale variabile che viene conservata in italiano al v. 1146 (Nocte natat nudus tactus amore gravi): «di notte nuotava nudo, preso da una forte passione d’amore». E non è meno significativo il chiasmo che viene mantenuto ai versi 1169-1170 (Nam quia tutus amor nusquam nec femina tuta, / Iam nec amatori credit amica suo): «Infatti, poiché l’amore non è mai sicuro, né è sicura la donna, ecco che ormai l’amica diffida del suo amante».

Ed è proprio da questo stesso distico, dopo una trentina di versi introduttivi, che Baudri passa a narrare più diffusamente la tragedia dei due giovani innamorati, il racconto di un tormento che trasforma la passione in pazzia, una vicenda che attrae, «ridesta in noi le risonanze più profonde e sopite e suscita i quesiti più temuti e intricati» (p. 12), e riesce a farlo ancora oggi, a distanza di quasi dieci secoli.

Il poeta mediolatino, vescovo di Dol, già abate di Bourgueil, nasce negli anni Quaranta dell’undicesimo secolo e si distingue tra i protagonisti di quella che a tutti gli effetti può essere definita la rinascita culturale dell’Europa mediolatina a cavallo dei secoli XI e XII, condividendo con gli altri due poeti della Valle della Loira, Marbodo di Rennes e Ildeberto di Lavardin, una parabola esistenziale del tutto affine: da poeti, che compongono carmi d’amore ispirati ai modelli classici, a vescovi che, in quanto tali, si sentono in dovere di ridurre lo spazio dedicato a questo genere di testi, per rivolgersi all’agiografia o alle riscritture bibliche. La fabula di Ero e Leandro appartiene naturalmente al primo momento della scrittura di Baudri. Il poeta della Loira, nell’indagare il legame oscuro che unisce amore e morte, e nel tentativo di comprenderne le ragioni, non cela il suo debito nei confronti degli auctores classici, di Ovidio soprattutto. I versi di Baudri, come emerge in modo efficace dal commento di Francesca Sivo, non sono semplicemente ricamati, bensì strutturati e innervati di iuncture e di richiami a opere ovidiane, le Heroides in particolare. Spesso la ripresa di Ovidio passa attraverso alcuni termini che sono fortemente connotati nell’epistolario elegiaco del poeta latino e che Baudri fa rifiorire nei suoi versi. Tra i numerosi esempi rinvenibili nel commento al testo, forse due sono i più eloquenti:

 

Nam citius solito veniens properantior Hero

 Lumine succenso sustinuit iuvenem,

 Lentius et solito tardavit adesse Leander 

Et vada tranabat ut pigrior solito.

(vv. 1161-1164)

 

Ero si affretta, ma Leandro, più lento del solito, tarda ad arrivare. È proprio lentius l’aggettivo che tradisce il debito di Baudri nei confronti di Ovidio. Non potrà essere un caso se lentus non è solamente la prima parola della raccolta delle Heroides, ma è anche l’accusa canonica rivolta dall’eroina trepidante all’amante che la lascia consumare nell’attesa. Il tema dell’impazienza per il lento scorrere del tempo, uno dei temi portanti della fabula, è enucleato dai distici immediatamente seguenti, che offrono la seconda significativa occasione per riflettere su un altro termine ovidianamente connotato:

 

Expectans quid non dubitaverit anxia virgo? 

Quid non sollicito pectore rettulerit? 

Infelix virgo quid non simulaverit Hero? 

Nam quid non semper cor muliebre timet? 

(vv. 1165-1168)

 

Se quella dello spectare è la condizione delle eroine ovidiane abbandonate che guardano lontano speranzose, in attesa di un ritorno, ma anche quella di Radegonda, personaggio che Venanzio Fortunato nel De excidio Thoringiae costruisce sul modello delle Heroides e che «guarda aspettando» l’amato cugino Amalafrido, l’expectare di Ero nel verso di Baudri è un «guardare volto all’attesa» che non può che inserire la fanciulla di Sesto nella schiera delle eroine abbandonate che aspettano, «in conflitto tra impazienza e paura del rischio, tra speranza e timore dell’abbandono e del tradimento» (p. 109).

La ripresa dei classici però non si limita ad un fatto di lessico o di stile. I miti che il poeta mediolatino riceve in eredità dal mondo classico, infatti, rappresentano gli strumenti privilegiati per «indagare le verità più profonde che vi si celano, per ricondurli alla psiche individuale, ai suoi problemi e alle sue esperienze, attraverso l’individuazione della chiave esegetica idonea alla società e alla cultura in cui egli si colloca» (p. 20). Nel rielaborare il mito di Ero e Leandro il poeta della Loira ne fa un exemplum morale sul solco già tracciato da Virgilio, che l’aveva adoperato nelle Georgiche in funzione di una didattica antiamorosa, e da Fulgenzio, che aveva interpretato la fabula come un’allegoria dei rischi dell’a- more passionale, «inesorabilmente bollato come fonte di sofferenza e turbamento tali da provocare conseguenze estreme in chi li subisce» (p. 51). Francesca Sivo nota come Baudri sveli immediatamente, sin dai primi due distici, la chiave di lettura moraleggiante della sua rielaborazione del mito:

 

Excepto quod amat, amor improbus

omnia vitat;

Excepto quod amat, nulla procurat amor. 

Nulla procurat amor, nisi quae mandverit ipse; 

Excepto quod amat, nulla procurat amor.

 (vv- 1165-1168)

 

 

All’exemplum di Ero e Leandro viene così impresso un significato che va oltre Virgilio e Fulgenzio per virare in direzione di una morale cristiana. Il poeta di Bourgueil, nel biasimare le passioni smodate e distruttive, difende e promuove «i legami che nascono da un sentimento d’amore inteso nel senso cristiano e ‘conservativo’ del termine: vale a dire l’amore come caritas, non l’amore come bruciante, cieca ed imprudente passione» (p. 52).

Come si può facilmente desumere da quanto detto fino a qui, il focus dell’edizione sembra orientarsi soprattutto sul Fortleben e sulla rielaborazione dei classi- ci nell’opera poetica di Baudri. Non mancano tuttavia accenni alla ripresa di alcuni temi nella lirica trobadorica. Se i topoi della separazione, del sospetto e del dubbio, già ovidiani, non vengono considerati nell’ottica delle riprese cortesi, trovano però spazio alcune riflessioni sul termine fides (p.117), che subisce una netta risemantizzazione dal significato che aveva in antico e nella poesia elegiaca in particolare a quello che acquisisce nel mondo feudale. Significativa è a questo proposito anche l’osservazione sul topos dei gradus amoris, che viene richiamato ai versi 1151-1554 del carme:

 

Optato iuvenis sic littore sepe potitus,

 Optatis etiam colloquiis potitur;

Virginis optatae paulo recreatus amore

 Cras regressurus nando redit iuvenis.

 (vv. 1151-1154)

 

Il topos delle «cinque linee d’amore», che ha goduto di ampia fortuna nel Medioevo nei più disparati generi letterari, ha visto nel De Amore di Andrea Cappellano una tappa fondamentale per la sua sistematizzazione e per la sua consegna alla lirica cortese.

Se dunque la fortuna dei topoi nella poesia trobadorica non conquista ampio spazio nell’edizione, la novità più originale del carme di Ero e Leandro viene accortamente individuata. L’autrice valorizza l’abilità di Baudri non soltanto nel rielaborare e ripensare a fondo la tradizione antica e tardoantica, ma anche nel discostarsene in un particolare snodo diegetico, apparentemente banale, ma a uno sguardo più attento, foriero di grandi novità per la cultura del tempo. Non è il vento, ma è Ero che, esasperata dall’attesa, angosciata dal sospetto del tradimento di Leandro, volontariamente, spegne il lumen, unica guida ed insieme meta dell’amato, che così non potrà che finire inghiottito dai flutti, mentre, per raggiungerla, compulsus amore, nuota nelle tenebre della notte:

 

Extinctis facibus ad limina virgo recedit nec superexpectat qui properans aderat. (vv. 1179-1180)

 

Il folle e disperato gesto di Ero si staglia icasticamente come simbolo di un «risveglio della coscienza, che diviene asse e criterio della moralità, con le sue ingenuità e intime peculiarità [...]» (p. 62). Ed è forse proprio questa capacità di risvegliare un senso di intima comunione con le fragilità e le debolezze umane la ragione più profonda del fascino della fabula di Ero e Leandro nella riscrittura di Baudri, che Jean-Yves Tilliette non esita a giudicare «en mesure de parler ajourd’hui à notre goùt e a notre sensibilité».

(Irene Spagnolo)


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