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ANTONELLA ANEDDA,

Historiae, Torino, Einaudi, pp. 94, € 11,00.

 

Di Fabio Zinelli 

 

In: Semicerchio LVIII-LIX (01-02/2018), pp. 136-138. 

 

Historiae, sesta raccolta di Antonella Anedda, porta un titolo insieme domestico e terribile. Terribile perché si riferisce al racconto tacitiano che va dagli imperatori del dopo-Nerone (per lo più morti ammazzati) al dubbio rinascimento dei Flavi: un’epoca marcata da un sentimento di ‘fine della storia’ facilmente sovrapponibile all’ombra dell’impero globale del XXI secolo e alle sue guerre sui confini che la polarità Occidente/Levante promuove a muro portante del libro. È un titolo domestico perché contiene anche ‘storie’ che sanno di casa e a cui il riferimento tacitiano porta semmai il sapore delle versioni di latino, di una pedagogia di prossimità in virtù della quale non tanto il concetto di umanesimo, ma soprattutto quello di stile come mezzo di registrazione del reale, riveste ancora un qualche significato. L’intreccio tra quotidianità e terribilità o tra una dimensione vernacolare ed una storico-epocale è tematizzato nelle principali sezioni del libro senza comunque costituire una struttura rigidamente bipartita e trovandosi invece immerso nelle forme e nelle atmosfere abituali della poesia di Anedda. Si impone infatti prima di tutto, nella prima sezione dal titolo ‘astronomico’ di Osservatorio, il tema cosmico-paradisiaco con uso di una lingua tersa e lucidissima (che ammette venature lucreziane «scomponimi di atomi, lasciami attraversare dalle luci»; altri atomi sono nell’immagine della folla dei morti e dei vivi di Nel freddo, p. 57), che è insomma, vista proprio la presenza massiccia di elementi ‘paradisiaci’, come incominciare la lettura della Commedia dalla fine. Colpisce in particolare la visione della terra dall’alto (Galassie, p. 16: «Sognavo di osservare la terra da lontano»), dove il soggetto, con epigrafe dal cielo di Venere di Paradiso IX, ma dichiarando la sua preferenza per Saturno, finisce per apparire come una sorta di Beatrice che ha dimenticato in terra il suo Dante («Ero lassù già in gloria, già vinta dai lumi tra i pianeti»): «Volevo raggiungere Saturno, il mio pianeta / di fuoco e piombo, dunque nutrivo la malinconia. / Ruotavo nella nebbia per cercarti ed eri giù/ tra i vivi. Amavi chi non ero o non sarei mai stata».

Viene quindi, centrale in tutti i sensi, la poesia dei morti. Tutta la poesia di Anedda sembra infatti provenire da una spiaggia sereniana (dietro a ogni «voi» sentiamo memorabili apostrofi sereniane: «voi morti non ci date mai quiete»). L’evocazione stessa della Sardegna, antropologica, geologica e vacanziera, è sempre quella dell’altrove dell’isola dei morti. E molte delle atmosfere delle poesie di Anedda sono quelle di una nekuia, una discesa in un classicismo degli archetipi che nel libro segue anche le tracce virgiliane di Lacrime (p. 29 «Rileggendo il sesto libro dell’Eneide») che è fatalmente un incontro con spettri (qui, il ricordo di generazioni di lavandaie, ma la traccia si continua in un testo per la morte della madre: «Due volte strinsi a vuoto il suo nulla / due volte mi abbracciai / finché mi vinse il freddo», p. 50). Sappiamo che il classicismo è anche una forma per venire a patti col dolore, di ‘metricizzarlo’. D’altra parte, discorrere della morte, il far scorrere come sabbia tra le dita il discorso dell’essere per la morte, sposta quasi la poesia di Anedda dalla sponda della letteratura al bordo di una riflessione filosofica, una riflessione frammentaria, naturalmente, fatta di foglietti, appunti e taccuini. La morte della madre occupa la parte centrale della sezione Historiae ed impressiona per il suo carattere cronachistico (Perlustrazione I: «Entro con mia madre nella morte»), dall’agonia alla composizione del corpo post-mortem (Stars, p. 56: «Da morta – come insegna un sito funebre francese – / le ho ricomposto il viso / infilando molto cotone nella gola: ha funzionato, / a un tratto era di nuovo giovane»). Affiorano la fisicità del dolore (Gli armadi dei morti, p. 48: «stringersi / al nero dei cappotti, masticare in letargo / la pena lasciata come cibo. Farsi una tana / e lì aspettare che ritorni l’amore per i vivi») e il suo allontanamento nel fading di una ripetizione onirica (Quando mia madre nuotò per l’ultima volta, p. 46, sogno di una morte per acqua immaginata) o di un’apparizione spettrale in contesto do- mestico («Se l’avesse vista / se avesse visto la sua forma mortale / spalancare stanotte il frigorifero / e quasi entrare con il corpo / in quella navata di chiarore», p. 53) o triviale (Eppure, p. 59: «Quando sembra che la memoria di lei sia spenta / eccola tornare in un suo doppio / mentre spinge un carrello in un supermercato»). Corollario al trattamento domestico del tema ‘filosofico’ della considerazione della morte affiora quindi – in accordo con la sua rilevanza nel dibattito intellettuale e di società – il tema della vita animale. Sappiamo che (a partire da Derrida) la condizione animale è investita di un ruolo decostruzionista nei confronti dell’ontologia metafisica di tipo heideggeriano. L’animale accede alla morte (condizione riservata all’umano) piuttosto che semplicemente cessare di vivere. Il cambiamento di prospettiva ha come effetto non di umanizzare l’animale ma di legare insieme il destino di specie diverse di fronte al dato biologico ed esistenziale. È un percorso che, nei testi, va dalla semplice compassione affiorante dal quadro di una vanitas fiamminga (p. 69 «Ho cotto un pesce chiamato gallinella [...] Tanta prossimità mi riguardava. / Con le mani ferme sul bordo del lavabo / m’interrogavo sulla natura della compassione»), alla sovrapposizione delle percezioni dell'animale domestico e di chi scrive (Te lucis ante, p. 78, «ma la luce che filtra dalle scale / basta per acquietare le nostre anime tremanti di animali»).

In questo mondo domestico si fa strada il tema politico, la cui presenza è quasi unanimemente invocata dalla critica, e che è definibile più esattamente come politicizzazione o estensione politica del mondo lirico. Non che manchi qualche elemento (linguistico) pragmaticamente militante come, per esempio, nel quasi fortiniano «Resistono gli schiavi / intenti a costruire le nostre piramidi di beni» (p. 47), se richiama la clausola o l’atmosfera di Ringraziamenti di Santo Stefano: «sazi nei doponatali / vi ringraziano gli schiavi», dove si parla anche di «merci sigillate nei mercati» come di «supermercati con le merci scontate» si legge in Occidente (p. 64-65). Proprio in quest’ultimo testo Anedda compie la superposizione, nei termini indessicali di una photographie du réél (che è come dire documentari ma con in più il valore di indicizzazione semiotica inerente alla riproduzione di un universo di segni – la realtà e la fotografia – in un altro), di un paesaggio di periferia romana con l’immagine uguale e contraria di una villa miseria alla periferia di Buenos Aires. L’inventario è esatto e punteggiato di commenti («In realtà cercano ferro in questa età dell’oro», «Dietro il condominio / si stende il nostro mondo occidentale») che stringono lo spazio della descrizione allargandolo a quello dell’autore (che si concede qui un finale aperto alla speranza di una rigenerazione, la visione ‘incantata’ che toglie però un po’ di forza al gesto di indicizzazione: «Ogni goccia rintocca di un ancora, / ancora respiriamo dentro l’aria invernale. / Ancora una lepre drizza le sue orecchie alla luna, / ferma, come in pensiero in una radura»).

La poesia di Anedda funziona e convince sempre in un uso raffinato del ‘grande stile’ capace di tenere insieme, come un grande inconscio stilistico, cose che la lingua normale fatica ad avvicinare. Abbiamo detto di Sereni, e infatti è difficile parlare con pudore, mistero (e amore) dei morti senza riferirsi a Sereni. Ma ci sono anche semplici segnali nascosti come è la citazione ‘crittata’ di Andrea Zanzotto in Oikos (p. 42): «Dormirete tra poco, cullati dal senza-niente del televisore che nessun baratro eguaglia», una critica mediale costruita recuperando, oltre alle parole, il ‘tono arcanista’ dell’originale (cfr. Zanzotto, Totus in illis, Sovrimpressioni 2001, «Ora, totus in illis / torno a pensieri di ieri / quali frammenti di diamanti-misteri / imprigionati come in un’apnea. / Intorno è un senza-niente / che nessun baratro eguaglia»). Soprattutto, il ‘grande stile’ serve al meglio la costruzione del testo quando si tratta di gelare in stills che hanno la freddezza e la bellezza argentica di Serrano, l’orrore della ‘morte per acqua’ di due profughi, «due dei tanti morti affogati» nella Waste land del Mediterraneo (Esilii), con sovrapposizione al «cielo d’acciaio delle foto» di un libro di medicina legale: il livor mortis dei soggetti dunque e l’effetto di freezing della fotografia da obitorio.

Proprio quest’ultimo esempio segna quali sono i limiti fissati per l’uso del ‘grande stile’ che funziona alla perfezione quando è legato all’elaborazione della dimensione visiva di un testo. La familiarità di Anedda con le arti visive contemporanee promuove una fattualità oggettuale e transmediale dei testi, non tanto installati (parole come oggetti concettuali), ma scritti come ‘oggetti lirici’ a contatto con materiali concreti (l’io poetico stesso si trova assimilato a «una busta / come quelle usate per la spesa – pieno di verdura o pesce surgelato»). Come nella precedente raccolta Salva con nome c’erano testi quasi di stoffa, di taglio e cucito, ci sono nel libro testi-cucina (p. 38 «le parole sulla carta troppo povere / chiedono un lavoro immediato. Impegnarsi / a preparare il mattino come si prepara il caffè / premere polvere nera sull’acciaio»), testi-lista (indessicali, come detto: Geografia 2 «E meglio annotare», o Nel freddo III e la citata Occidente p. 64-65), e, soprattutto, testi-casa (come appunto la famosa donna casa di Louise Bourgeoise): «Più tardi sistemerò la poesia, ne farò una casa / con tetti a punta esatti per la neve» (Artica p. 51). Questi ultimi, legando poesia a casa ed entrambe alla donna che scrive, cuce e cucina, assolvono alla funzione di scrittura di gender considerata come distintiva dell’opera di Anedda. Del resto, la solidarietà dei ruoli tra scrittrice e donna di casa è resa tanto più convincente dalla sovrapposizione dei gesti ripetuti dalla scrittrice e già della madre, eroina degli anni ’50 assimilata alla figurina femminile della scatola del brodo di dado Star, un’immagine che costituisce un esempio ulteriore di come i testi tendano continuamente alla visività: qui con riferimento al piccolo capolavoro di affiche art in miniatura realizzata sulla scatoletta.

Anedda è un poeta ‘figurativo’ anche quando non propone le sue ekphrasis magistrali o costruisce ‘testi concreti’. Sembra infatti distintivo del libro il timbro metallico evocato dal paragone tacitiano, la costruzione e quindi il suono, l’atmosfera del latino argenteo, post-classico e post-repubblicano, dunque imperiale. Il testo chiave è Annales (p. 34): «Rileggendo Tacito durante questa estate di massacri / il conforto veniva dal latino, la nudità dei fatti, l’assenza o quasi / di aggettivi, il gerundio che evita inutili giri di parole. / Confrontando la traduzione con l’originale, il testo / italiano colava più lentamente di quello latino sulla pagina. / In giorni pieni d’insegne levate in diversi schieramenti / la sintassi agiva come un laccio emostatico, / frenava enfasi e lacrime». Ci sono in effetti alcuni passaggi di scorciature tacitiane nel libro, come quando si ritarda (fino a simularne l’assenza) l’intervento del verbo finito o nell’uso (raro) di nessi brachilogici/ poveri: «fuoco-amico, come quello nemico ignaro di bambino» (Lesbos 2015, p. 36; con effetto, questo sì, sintatticamente emostatico). Pare invece nel complesso meno rilevante che l’effetto di ‘metrica barbara’ derivante dall’uso di versi lunghi nelle versioni circolate su internet di alcuni testi del libro, quasi a imitazione di esametri virgiliani, sia stato eliminato con a capo più consoni all’impaginazione della ‘collana bianca’ einaudiana: lo spazio metrico del testo rimane infatti quello del box ritmico/visivo inventato da Amelia Rosselli. Ma soprattutto è il colore dei fatti che conta: «Il grigio libro di Tacito scritto quando il suo autore aveva sessant’anni / dice soltanto ciò che deve», dove il colore grigio del libro evoca forse anche – ed è ulteriore dato domestico, quotidiano – il colore delle copertine dei classici della BUR. Sono soprattutto i colori che legano (nel senso di una lega metallica) lingua e costruzione visiva del testo. Ci sono i colori, neri, verdi, grigi (con varie trasformazioni di rosso, scarlatto e corallo), ma soprattutto freddi, metallici, minerali: diciamo pure alchemici. Perché questo è un libro di metalli e di leghe (l’autore manipola oro, non come gli squinternati cercatori di metalli utili nelle periferie «In realtà cercano ferro in questa età dell’oro»). L’alchimia dei metalli si riflette nella testura mercuriale delle parole. Sono tanti i passi che, con accurata ‘punzonatura’ di allitterazioni, sfiorano l’anagramma (Galassie: «mi struggevo ancora viva d’invidia per la vita», p. 16; «Divago, così vado dall’altra parte della casa» p. 64, «visi morti e morti vivi», p. 41), le immagini sinestetiche («pulsare del nero», «memoria di verde» e ipallagi «i piedi gelidi nell’acqua»), da considerare dunque come rifunzionalizzate rispetto alla loro comune matrice lirica, e tante le rime. Mescolate infine come una lega, anche all’interno di uno stesso testo, sono le lingue italiana/sarda. Accanto all’evocazione dell’ombra del latino, i testi in lingua sarda (che scavano nell’antropologia ma insistono sulla funzione mitica di un archetipo lirico primitivista di molta poesia in dialetto del ’900) rappresentano di fatto uno strato romanzo arcaico prossimo alla lingua dei romani («Comenti in tempos de Roma» ‘Come al tempo di Roma’, p. 6).

Ci troviamo insomma a un livello di costruzione, stilistica e visiva dei testi, di una padronanza impressionante. L’impatto visivo porta a una rivisitazione originale del ‘grande stile’ e si spinge fino a riattivare la funzione magica della lingua poetica. L’effetto illusionista che ne segue, stringe insieme l’incanto dell’immagine e la registrazione per video/pupilla di frammenti tremendi di reale interiorizzati e resi percepibili da un soggetto che è comunque specializzato in linguaggio. La poesia di Anedda non è dunque una ‘poesia civile’ nel senso che riveste la forma di una parola pubblica (come, per esempio, può esserlo parte della poesia di Fabio Pusterla), ma si configura come civile quando nasce nel soggetto la visione come esperienza di una cosa vista o vissuta anche solo esternamente. L’incontro con gli altri (i lontani, i massacrati irraggiungibili) si realizza da questa parte dello schermo, il testo li ‘vede’ ed arriviamo a vederli (per immaginarli morti, dice Judith Butler, dobbiamo prima immaginarli vivi). In generale, sono le folgoranti sovrapposizioni di immagini velate dai nomi iconici Occidente/Levante che collocano la presenza fantasmatica della guerra nel cuore della poesia (dal titolo della prima raccolta Notti di pace occidentale). Il luogo dove la guerra accade è dunque la poesia e, metonomicamente, il teatro d’operazioni quotidiano di una cucina dove la luce del forno si confonde col video di un televisore. Interni borghesi e clinici si sovrappongono, con i loro purgatori, in queste lunghe notti di cucina occidentale.

 

(Fabio Zinelli)


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