« indietro L’altra metà dell’impero Aspetti della poesia femminile dell’India contemporanea Di Andrea Sirotti
In: Semicerchio LV (02/2016), “30 anni”, pp. 51-61.
La poesia indiana in lingua inglese conosce oggi una fioritura rilevante dal punto di vista quantitativo, sia per quanto riguarda i poeti residenti nel subcontinente indiano che cominciano ad attrarre l’attenzione dell’editori a occidentale, sia i poeti della cosiddetta diaspora indiana che, dovunque si trovino (Gran Bretagna, Stati Uniti, Canada, Caraibi, Africa), riescono sempre di più a far risuonare una voce originale e distintiva. Qualitativamente, forse, non assistiamo ancora a un fenomeno paragonabile ai grandi e dirompenti esiti avuti negli ultimi vent’anni nel romanzo, da Salman Rushdie a Shashi Tharoor a Vikram Chandra, da Gita Mehta ad Anita Desai ad Arundhati Roy; tuttavia le ragioni dell’interesse occidentale verso la poesia indiana non ci paiono discostarsi molto da quelle che hanno trovato piena soddisfazione nel grande successo dei narratori: si tratta infatti nei casi migliori di una poesia generosa e sensuale, fluente e passionale, un po’ sregolata, che tende a superare le pastoie e gli schematismi dello sperimentalismo e del minimalismo e che si sforza di rappresentare la fusione di spiritualità e odorosa materialità, di mistero e corporeità di quell’intricato crogiolo di storie, tradizioni, religioni, etnie, che è l’India contemporanea. I poeti indiani devono oggi confrontarsi con tre questioni principali: l’uso della lingua, il rapporto con la grande tradizione poetica dal medioevo fino a Tagore, il rapporto di mediazione-contrapposizione con la tradizione poetica occidentale. La scelta di adottare la lingua dei colonizzatori non è stata sempre facile ed esente da polemiche, ma l’inglese oggi in India ha acquistato la neutralità culturale di una lingua franca. La maggior parte degli indiani, anche quelli delle classi medie e medio basse, desiderano imparare l’inglese, non solo per capire e farsi capire dal resto del mondo, ma anche per intendersi reciprocamente tra connazionali di diverse provenienze (in questo l’inglese funziona meglio dell’Hindi, che pure è numericamente più parlato dell’inglese). La maggior parte degli scrittori che scelgono l’inglese considerano questa lingua un idioma indiano a tutti gli effetti (come in passato l’Urdu, ex lingua di colonizzatori islamici, è stata assimilata a tutti gli effetti nella cultura hindi dominante). Quindi, nella loro visione del problema, è l’India a essersi appropriata dell’inglese e ad averlo ‘colonizzato’, piegandolo a rappresentare una realtà ‘altra’, costringendolo a trovare i mezzi per nominare il misterioso e l’ineffabile, superando così brillantemente e dall’interno le ambasce linguistico-culturali degli scrittori angloindiani ‘imperialisti’ del primo novecento (Kipling in testa). Del resto un’importante dimensione della letteratura, come scrive Rushdie, è quella «di poter tenere una conversazione con il mondo, di comunicare agli altri il senso profondo del nostro modo di vedere le cose» e per farlo è necessario avere un codice comune comprensibile a tutti ma anche, allo stesso tempo, fornito di coloriture autoctone distintive e riconoscibili, culturalmente marcate, negli ambiti del lessico, della sintassi, ma anche in quelli dell’immagine poetica, della metafora, dell’uso simbolico del linguaggio. Va comunque osservato che le caratteristiche intrinseche dell’inglese favoriscono questa operazione di fertile contaminazione, come riconosceva anche R.K. Narayan, uno dei primi scrittori a usare consapevolmente l’inglese come una lingua indiana: «l’inglese è così adattabile e trasparente che può assumere la tinta di ogni paese». Quanto ai rapporti con le tradizioni letterarie orientali e occidentali, si può dire che siano entrambi problemi aperti e in parte ancora irrisolti. Nell’India contemporanea manca probabilmente un poeta della statura di un Derek Walcott che, da Santa Lucia, la sua isola caraibica, ha operato e opera una mirabile sintesi di elementi culturali sia classici che moderni, sia indigeni che occidentali, esempio alto di quel ‘meticciato letterario’ interetnico che sembra essere oggi la condizione potenzialmente più produttiva in campo poetico, quella più ricca di frutti inaspettati e artisticamente innovativi. Nel subcontinente operano comunque ottimi poeti che sviluppano un discorso personale e che meriterebbero certamente considerazioni più approfondite. In questa sede possiamo citare almeno Arun Kolatkar, con il suo recupero del mito come chiave di lettura del mondo contemporaneo; Keki N. Daruwalla, con il suo spiccatissimo senso della natura; Nissim Ezekiel, con la sua instancabile e prolifica attività di promotore culturale, vera figura carismatica di caposcuola per l’ambiente poetico di Bombay; e infine il dotatissimo trenta- cinquenne Tabish Khair, residente in Danimarca, molto interessato al confronto interculturale con l’occidente, ma anche preoccupato dei rischi di spaesamento e di perdita dell’identità insiti in un’indiscriminata globalizzazione. Un discorso a parte merita la scrittura poetica al femminile, oggetto della nostra antologia. Alcune letterate dell’India, sicuramente un élite, sembrano essersi appropriate negli ultimi anni del linguaggio poetico usandolo come efficace strumento di comunicazione culturale verso un mondo esterno spesso ostile e oppressivo, dominato dalla cultura maschile. Questa raccolta, necessariamente assai incompleta e provvisoria, vuole dare solo un piccolo, ma significativo assaggio di un universo a tutt’oggi in gran parte sconosciuto, almeno da noi. Le poetesse qui selezionate sono accomunate solo dal fatto di essere nate nel subcontinente indiano (India, Pakistan o Bangladesh) o da quello di rappresentare, pur nelle loro marcate specificità e differenze, alcuni aspetti peculiari della cultura indiana nel suo confronto con l’occidente. Fra di loro occorre ricordare innanzi tutto Kamala Das, figura quasi leggendaria e influente di poetessa naif del sud dell’India, di femminista atipica, capace di versi vitali e lussureggianti, ricchi di erotismo e sensualità primitiva (come nella sua autodefinizione «io sono ogni / donna che cerca amore»). Tra le poetesse della generazione delle trenta-quarantenni che vivono in India spiccano i nomi di Arundhathi Subramaniam, impegnata a rappresentare con grande raffinatezza stilistica e linguistica una realtà urbana complessa e intricata, una Bombay - Waste Land babelica e proterva, come nel celebre film di Mira Nair; e quello di Gayatri Majumdar, infaticabile operatrice culturale e anima della rivista di Calcutta «The Brown Critique». La sua poesia, ispirata da Auden e da Lowell, conserva forti legami con la storia e il tessuto geo-politico del subcontinente, pur nei suoi toni di dolce ripiegamento lirico. Molto importante è il filone della poesia spiccatamente ed esplicitamente femminista, qui rappresentato dalle poesie dell’indiana Tara Patel, e della poetessa del Bangladesh Taslima Nasrin. Quest’ultima è entrata suo malgrado nell’attenzione critica mondiale per essere stata vittima, al pari di Salman Rushdie, di una condanna a morte per blasfemia da parte degli integralisti islamici del suo paese. Dalle loro intense poesie emerge in modo tagliente e drammatico la condizione di una donna oppressa, imbavagliata, per molti aspetti doppiamente colonizzata e che vede ancora lontana la strada dell’affrancamento6. Infine da citare l’opera della poetessa di Goa Eunice de Souza, dotata di uno stile elegante e ironico. Sono stati riportati anche alcuni esempi di poetesse residenti, o pubblicate, in Gran Bretagna. Tra di esse spicca l’originale talento di Sujata Bhatt, una delle voci più interessanti del panorama poetico britannico contemporaneo. Nelle sue liriche emerge con grande evidenza ed efficacia la fusione indissolubile di spiritualità e materialità del mondo in- diano, visto ‘da distanza’ con l’ottica apolide e sradicata del migrante, attraverso il recupero nostalgico e straniato di un mondo di sensualità perduta. Degne di attenzione anche Moniza Alvi, con la sua propensione al confronto culturale attraverso metafore prese dalla storia e dalla geografia, e Suniti Namjoshi, attiva studiosa di gender studies, dotata di uno stile molto personale e intenso dietro l’apparente semplicità ‘favolistica’ delle sue liriche. Tutte le poesie qui riportate sono, a quanto mi risulta, alla loro prima traduzione italiana.
The dance of the eunuchs (Kamala Das, n. Malabar, Kerala, 1934)
It was hot, so hot, before the eunuchs came To dance, wide skirts going round and round, [cymbals Richly clashing, and anklets jingling, jingling Jingling... Beneath the fiery gulmohur, with Long braids flying, dark eyes flashing, they danced [and They dance, oh, they danced till they bled... They were [green Tattooes on their cheeks, jasmines in their hair, [some Were dark and some were almost fair. Their voices Were harsh, their songs melancholy; they sang of Lovers dying and of children left unborn... Some beat their drums; others beat their sorry [breasts And wailed, and writhed in vacant ecstasy. They Were thin in limbs and dry; like half-burnt logs from Funeral pyres, a drought and a rottenness Were in each of them. Even the crows were so Silent on trees, and the children wide-eyed, still; All were watching these poor creatures’ convulsions They sky crackled then, thunder came, and lightning And rain, a meagre rain that smelt of dust in Attics and the urine of lizards and mice. (Da Summer in Calcutta, 1965)
La danza degli eunuchi. Faceva caldo, tanto caldo prima che venissero gli eunuchi / a ballare, gonne ampie che ruotano e ruotano, i cembali / che battono vigorosi, e i campanelli alle caviglie che tintinnano, tintinnano / tintinnano... Sotto il feroce gulmohur, con / lunghe trecce che volano, occhi scuri che balenano, danzavano / e danzano, oh, danzavano fino a sanguinare... / Tatuaggi verdi sulle guance, gelsomini tra i capelli, alcuni / erano scuri, altri quasi biondi. Le voci / erano stridule, i canti malinconici; cantavano / di amanti morenti e bimbi mai nati... / Alcuni battevano i tamburi, altri si battevano il petto addolorato / e gemevano, e si contorcevano in una vacua estasi. / Erano di membra smagrite e secchi; come ceppi mezzo bruciati dalle / pire funerarie, aridità e marciume / era in ognuno di loro. Perfino i corvi erano muti / sugli alberi, e i bambini immobili ad occhi spalancati; / tutti guardavano le convulsioni di quelle creature. / Allora il cielo scoppiettò, arrivò il tuono, e il lampo / e la pioggia, una misera pioggia che odorava di polvere / di soffitta e dell’urina di lucertole e topi.
The Maggots (Kamala Das)
At sunset, on the river bank, Krishna Loved her for the last time and left... That night in her husband’s arms, Radha felt So dead that he asked, What is wrong, Do you mind my kisses love? And she said, No, not at all, but thought, What is It to the corpse if the maggots nip (Da The Descendants, 1967)
i Vermi. Al tramonto, sulla riva del fiume, Krishna /l’amò per l’ultima volta e se ne andò... // Quella notte, tra le braccia del marito, Radha si sentì / così morta che lui chiese, Che hai? / Ti dispiace se ti bacio, amore? E lei disse, / no, nient’affatto, ma pensò: cosa importa / al cadavere il morso del verme?
The Stone Age (Kamala Das)
Fond husband, ancient settler in the mind, Old fat spider, weaving webs of bewilderment, Be kind. You turn me into a bird of stone, a granite Dove, you build round me a shabby room, And stroke my pitted face absent-mindedly while You read. With loud talk you bruise my morning [sleep You stick a finger into my dreaming eye. And Yet, on daydreams, strong men cast their shadows, they sink Like white suns in the swell of my Dravidian blood, Secretly flow the drains beneath sacred cities. When you leave, I drive my blue battered car Along the bluer sea. I run up the forty Noisy steps to knock at another’s door. Through peep-holes, the neighbours watch, they watch me come And go like rain. Ask me, everybody, ask me What he sees in me, ask me why he is called a [lion, A libertine, ask me why his hand sways like a hooded snake Before it clasps my pubis. Ask me why like A great tree, felled, he slumps against my breasts, And sleeps. Ask me why life is short and love is Shorter still, ask me what is bliss and what its [price... (Da The Old Playhouse and Other Poems, 1973)
L’età della pietra. Adorato marito, colonizzatore antico nella mente, / vecchio ragno grasso che tesse tele di perplessità, / sii gentile. Mi trasformi in un uccello di pietra, una colomba / di granito, mi costruisci attorno una misera stanza, / e accarezzi distrattamente la mia faccia butterata mentre / leggi. Parlando ad alta voce ammacchi il mio sonno mattutino, / cacci un dito nel mio occhio che sogna. E / tuttavia, nel fantasticare, uomini forti proiettano le loro ombre, sprofondano / come soli bianchi nel gonfio mare del mio sangue dravidico, / percorrono in segreto le fogne sotto le città sacre. / Quando te ne vai, guido la mia macchina blu scassata / lungo il mare ancora più blu. Salgo di corsa i quaranta / rumorosi gradini per bussa- re alla porta di un altro. / Dagli spioncini, i vicini guardano, / mi guardano venire / e andare come la pioggia. Mi chiedono, tutti, mi chiedono / cosa ci trovi in me, mi chiedono perché è chiamato il leone / il libertino, mi chiedono perché la sua mano ondeggia come un serpente incappucciato / prima di afferrarmi il pube. Mi chiedono perché / come un grande albero abbattuto, s’accascia sul mio seno / e dorme. Mi chiedono perché la vita è breve e l’amore è / ancora più breve, mi chiedono cos’è delizia e quale il suo prezzo...
Blank page (Arundhathi Subramaniam)
I am, for just this moment, conquistador of the blank page. My words stab the white despotism of silence, as I survey the topography, contours, ravines, craters, of an uncertain empire – the splash of calligraphy, the tentative smudge of syllable on unmapped paper. And you who look away as I seize this moment and ride it fleetingly, do you fear that if you look me in the eye at this terrifying moment of omnipotence that I shall insidiously surge into your frontiers and claim for my own the sleeping mohenjodaros of your mind? (Da www.internetindia.com/poetry/woman.htm, 1996)
pagina bianca. Io sono, solo per questo istante, / conquistador della pagina bianca. / Le mie parole trafiggono / il bianco dispotismo del silenzio, / mentre rilevo la topografia, / contorni, burroni, crateri, / di un malcerto impero — / lo schizzo della calligrafia, / l’esitante sbavatura della sillaba / sulla carta senza mappa. // E tu che distogli lo sguardo / mentre afferro quest’attimo / e fuggevolmente lo cavalco, / temi che se mi guardi negli occhi / in questo terribile istante di onnipotenza / che io insidiosamente / mi riversi nelle tue frontiere / e che pretenda per me / i dormienti mohenjodaros della tua mente?
City Riddles (Arundhathi Subramaniam) Someday I shall find a meaning. In the clammy conjunction of rancid bodies and briefcases. In the hieroglyphic of sunset spittle on the lamp post. In the benign toothy leer of terylene-shirted men. And in the molten yowl of the invisible cat in the smoky bowels of the back alley. (Da www.internetindia.com/poetry/riddle.htm, 1996)
enigmi cittadini. Un giorno troverò un significato. // Nell’appiccicosa congiunzione di corpi rancidi e valigette. / Nel geroglifico / che la bava del tramonto disegna sui lampioni. / Nel benigno dentuto occhieggiare / di uomini dalle camicie sintetiche. // E nel miagolio liquefatto / del gatto invisibile / nelle viscere fumanti / del vicolo.
I Am Impressed (Arundhathi Subramaniam) I can hear the well greased throb your chromium motorcycle mind bullworkered into maleness revving into action as you peel cliches like bananas. I am impressed. I can hear the menacing ripple, the steely bulge of your biceps as you clinch your argument with sleek aftershaved assurance. I am impressed. I can hear the pages of yesterday’s newspaper flapping noisily, emptily, between your legs. I am impressed. (Da www.internetindia.com/poetry/woman.htm, 1996) che impressione! Lo sento il pulsare ben lubrificato / della tua mente di moto cromata / equipaggiata in virilità / che acquista giri nell’azione / mentre sbucci cliché come fossero banane. / Che impressione! // La sento la minacciosa increspatura, / la protube- ranza d’acciaio / dei tuoi bicipiti / mentre ribadisci le tue ragioni come chiodi / con liscia sicumera al do- pobarba. / Che impressione ! // Le sento le pagine / del giornale di ieri / che penzolano rumorose, vuote, / tra le tue gambe. / Che / impressione! Antenna (Gayatri Majumdar, n. Calcutta, 1963) We enter into the sweetest of the brown cookies, dig a hole and make provisions for the rains during the rains. In this stickthing lovedough we lock antennas, sting poison into each other. Then we about-face: antidote. We listen to rain as we eat through the light on our ceiling; fatten our sex, make time in here. Meanwhile, the bridge to a neighbourhood constellation is crumbling. (Da «The Brown Critique», 30-32, 1997)
antenna. Entriamo nel più dolce / dei bruni pastic- cini, / scaviamo un buco / e facciamo provviste per le piogge / durante le piogge / in questa appicci- caticcia pastadamore / chiudiamo le antenne, / ci iniettiamo veleno a vicenda. / Poi dietrofront: anti- doto. // Ascoltiamo la pioggia / mentre mangiamo alla luce / del soffitto; / ci ingrassiamo il sesso, / ce la spassiamo, qua dentro. / Frattanto il ponte / che porta a una costellazione vicina / si sbriciola.
Versova Beach (Gayatri Majumdar) Last night was something else. The sea licks the face of a sky, trawlers in the cold shadow of clouds and two black birds. A woman in green and gold searches for crabs and perfect shells. Another morning leaves her watermarks on my nape and eyelashes and lines my womb with her unformed delta. Such is the beauty in struggle and hunger. Small boats flutter blue flags of peace, economy and I sniff for distant thunders, spices and men – from Africa, Oman, Afghanistan and some unnamed islands hidden in the large intestine of water. (Da www.intemetindia.com/poetry/gayatri/bversova. htm)
La spiaggia di Versova. Ieri notte era qualcos’altro. // Il mare lecca il viso di un cielo, / sciabiche nell’ombra fredda delle nubi / e due neri uccelli. / Una donna verdeoro / cerca granchi e belle conchiglie. / Un altro mattino mi lascia / la sua filigrana sulla nuca e sulle ciglia / e segna il mio grembo / col suo delta immaturo. // Tale è la bellezza della lotta / e della fame. Piccole barche battono bandiere blu / di pace e frugalità. Respiro / l’odore di tuoni lontani, spezie e uomini / dall’Africa, Oman, Afganistan / e da qualche isola senza nome / nascosta nelle grandi viscere dell’acqua.
Things Cheaply Had (Taslima Nasrin, n. Bangladesh, 1962)
In the market nothing can be had as cheap as [women. If they get a small bottle of alta for their feet they spend three nights sleepless for sheer joy. If they get a few bars of soap to scrub their skin and some scented oil for their hair they become so submissive that they scoop out chunks of their flesh to be sold in the flea market twice a week. If they get a jewel for their nose they lick feet for seventy days or so, a full three and a half months if it’s a single striped sari. Even the mangy cur of the house barks now and then, and over the mouths of women cheaply had there’s a lock a golden lock. (Da www. indolink. com/Poetry/tslmNsrn. html)
cose che si ottengono a buon prezzo. Sul mercato, niente si può avere più a buon prezzo di una donna. // Se possono avere una piccola bottiglia d’unguento per i piedi / non dormiranno per tre notti dalla gioia. // Se dai loro poche saponette per pulirsi la pelle / e dell’olio profumato per i capelli / si sottomettono al punto che si toglierebbero / pezzi di carne / da vendersi al mercato delle pulci due volte la settimana. // Se poi ottengono un gioiello da mettere al naso / ti leccheranno i piedi per una settantina di giorni, / per tre mesi e mezzo / se si tratta di un solo sari a strisce. // Perfino il bastardo rognoso della casa ogni tanto abbaia, / ma sulla bocca delle donne a buon prezzo / c’è un lucchetto / un lucchetto d’oro.
32 (Taslima Nasrin)
I’m wasting my days getting up and sitting down. If I’m dying right now, they speak up– ‘Live’ If they see me leaving, who knows when they ’ll say– ‘Shame on you, die! ’ In tremendous fear I secretly go on living.
32. Spreco i miei giorni alzandomi e sedendomi. / Se morissi ora, mi urlerebbero– ‘Vivi!’ / Se mi ve- dessero partire, chi sa quando, / direbbero: ‘vergogna, muori! ’ // In tremenda paura continuo a vivere, segretamente.
Woman (Tara Patel, n. Viramgam, Gujarat, 1949)
A woman’s life is a reaction to the crack of whip. She learns to dodge it as it whistles around her but sometimes it lands on the thick, distorted welt of her memory, reminding her of lessons learned in the past. Then in rebellion she turned her face to the whip, till pain became a river in flood wreaking vengeance. She ran away to live as an escaped convict, or a refugee, or a yogi in the wilderness of civilization. Beneath the thick, distorted welt of her memory, she dreams, anyone could have touched baby-smooth skin with kisses. (Da Single Woman, 1991)
donna. La vita di una donna è una reazione / allo schiocco della frusta. / Ella impara a schivarla quando fischia / attorno a lei / ma talvolta s’abbatte sulla spessa / contorta cicatrice della memoria, / facendole ricordare lezioni apprese / nel passato. / Allora, ribelle, oppose il volto / al morso della frusta, / finché il dolore divenne fiume in piena / anelante vendetta. / Scappò via per vivere come un evaso, / o un profugo, / o uno yogi nel deserto della civiltà. / Sotto la spessa, contorta cicatrice della memoria, / lei sogna: / chiunque avrebbe potuto toccare la pelle liscia di bimbo / con dei baci.
Advice To Women (Eunice de Souza) Keep cats if you want to learn to cope with the otherness of lovers. Otherness is not always neglect – Cats return to their litter trays when they need to. Don’t cuss out of the window at their enemies. That stare of perpetual surprise in those great green eyes will teach you to die alone.
consiglio alle donne. Tenete dei gatti / se volete imparare a fronteggiare / la diversità degli amanti. / La diversità non è sempre negligenza – / I gatti tornano alle loro lettiere / quando ne hanno bisogno. / Non imprecate fuori dalla finestra / ai loro nemici. / Quel- lo sguardo di perpetua sorpresa / in quei grandi occhi verdi / vi insegnerà / a morire sole.
It’s time to find a place (Eunice de Souza) It’s time to find a place to be silent with each other. I have prattled endlessly in staff rooms, corridors, restaurants. When you ‘re not around I carry on conversations in my head. Even this poem has forty-eight words too many.
È ora di trovare un posto. È ora di trovare un posto / dove poterci scambiare silenzio. / Ho chiacchierato incessantemente / in sale insegnanti, corridoi, / ristoranti. / Quando non ci sei / continuo le conversazioni nella mente. / E anche questa poesia / ha quarantotto parole di troppo.
B) Poetesse indo-britanniche
Muliebrity (Sujata Bhatt, n. Ahmedabad, 1956) I have thought so much about the girl who gathered cow-dung in a wide, round basket along the main road passing by our house and the Radhavallabh temple in Maninagar. I have thought so much about the way she moved her hands and her waist and the smell of cow-dung and road-dust and wet canna [lilies, the smell of monkey breath and freshly washed clothes and the dust from crow’s wings which smells [different – and again the smell of cow-dung as the girl scoops it up, all these smells surrounding me separately and simultaneously - I have thought so much but have been unwilling to use her for a metaphor, for a nice image - but most of all unwilling to forget her or to explain to anyone the greatness and the power glistening through her cheekbones each time she found a particularly promising mound of dung. (Da Brunizem, 1988)
Femminilità. Ho pensato a lungo a quella ragazza / che raccoglieva sterco di vacca in un’ampia cesta rotonda / lungo la strada principale che passava da casa nostra / e dal tempio Radhavallabh a Maninagar. / Ho pensato a lungo al modo in cui ella / muoveva le mani e i fianchi / e all’odore di sterco e di polvere e di gigli di canna umidi, / l’odore di fiato di scimmia e di abiti appena lavati / e la polvere dalle ali dei corvi che ha un odore diverso - / ed ancora l’odore di sterco mentre la ragazza lo tira su / tutti questi odori che mi circondavano separatamente / e simultaneamente- L’ho pensata a lungo, / ma non volevo usarla per una metafora, / per una bella immagine - ma soprattutto non volevo / dimenticarla o spiegare a chiunque la grandezza / eia forza che rilucevano dai suoi zigomi / ogni volta che trovava un mucchio di sterco / particolarmente promettente.
Shérdi - Sugar Cane (Sujata Bhatt) The way I learned to eat sugar cane in Sanosra: I use my teeth to tear the outer hard chaal then, bite off strips of the white fibrous heart - suck hard with my teeth, press down and the juice spills out. January mornings the farmer cuts tender green sugar-cane and brings it out our door. Afternoons, when the elders are asleep we sneak outside carrying the long smooth stalks. The sun warms us, the dogs yawn, our teeth grow strong our jaws are numb; for hours we suck out the russ, the juice sticky all over our hands. So tonight when you tell me to use my teeth, to suck hard, harder, then, I smell sugar cane grass in your hair and imagine you’d like to be shérdi shérdi out in the fields the stalks sway opening a path before us
shérdi (canna da zucchero). Come ho imparato / a mangiare la canna da zucchero a Sanosra: / uso i denti / per tagliare la dura esterna chaal / poi mordo via strisce / del cuore bianco e fibroso, / succhio forte con i denti, spingo un po’ / e il succo viene fuori. // Le mattine di gennaio / il contadino taglia le verdi tenere canne / e ce le porta a casa. /I pomeriggi, quando i vecchi sono a letto / sgusciamo fuori a prendere i lunghi steli lisci. / Il sole ci riscalda, i cani sbadigliano / i denti ci vengono forti / le mascelle torpide / per le ore che stiamo a succhiare il russ, quel succo che resta appiccicoso / sulle mani. Il Così stanotte / quando mi dici di usare i denti, / per succhiare forte, più forte, / sento la canna da zucchero / nei tuoi capelli / e penso che ti piacerebbe essere / shérdi shérdi fuori nei campi / gli steli che ondeggiano / aprendosi al passaggio.
White Asparagus (Sujata Bhatt) Who speaks of strong currents streaming through the legs, the breasts of a pregnant woman in her fourth month? She’s young, this is her first time, she’s slim and the nausea has gone. Her belly’s just starting to get rounder her breasts itch all day, and she’s surprised that what she wants is him inside her again. Oh come like a horse, she wants to say, move like a dog, a wolf, become a suckling lion-cub — Come here, and here, and here — but swim fast and don’t stop. Who speaks of the green coconut uterus the muscles sliding, a deeper undertow and the green coconut milk that seals her well, yet flows so she is wet from his softest touch?
Who understands the logic behind this desire? Who speaks of the rushing tide that awakens her slowly increasing blood — ? And the hunger raw obsession beginning with the shape of the asparagus: sun-deprived white and purple-shadow-veined, she buys three kilos of the fat ones, thicker than anyone’s fingers, she strokes the silky heads some are so jauntily capped... even the smell pulls her in — (Da Brunizem, 1988)
asparago bianco. Chi parla mai delle forti correnti / che scorrono nelle gambe, nei seni / di una don- na incinta / al quarto mese? // È giovane, è la sua prima volta / è snella e la nausea è passata. / La pancia comincia a farsi tonda / i seni prudono tutto il giorno, // ed è sorpresa che quello che vuole / è lui / di nuovo dentro di lei. / Oh vieni come un cavallo, vorrebbe dire, / muoviti come un cane, un lupo, / diventa un poppante cucciolo di leone. // Vieni qui, e qui, e qui / ma nuota veloce e non ti fermare. // Chi parla mai del verde utero noce di cocco / i mu- scoli scoscesi, una profonda risacca / e il verde latte di cocco che sigilla / il suo pozzo, però scorre e la bagna / al suo tocco più lieve? // Chi capisce la logica / dietro al desiderio? / Chi parla della montante marea / che sveglia / il suo sangue che lentamente ingrossa? / E la fame / cruda ossessione che nasce / con la forma dell’asparago:/ bianco per mancanza di sole e venato di ombre porporine, / ne compra tre chili / di quelli grossi, più spessi di un grosso dito, / ne accarezza le teste seriche / alcune curiosamente incappucciate.../ perfino l’odore la fa eccitare.
An India of the Soul (Sujata Bhatt) It is not necessary to have poems full of mendicants and minarets, gurus and ghats to contemplate an India of the soul. Alastair Niven But the soul will be the colour of turmeric spilt on white stone. And the creature who lives’in the soul will count with her thumb on the joints of her fingers. Time will be slow and Time will be concrete and Time will be stuck like a wet crow peering down from a tree, broken and black — Who is more jagged, the tree or the crow? The crow peering down, his head so crooked so tilted — Then the soul will be the colour of ferns surrounded by mosquitoes. And the creature who lives in the soul will wash her feet before going to bed. (Da The Stinking Rose, 1995)
un’india dell’anima. Ma l’anima sarà del colore della curcuma / versata sulla pietra bianca. // E la creatura che vive nell’anima / conterà con il pollice / sulle giunture delle dita. // Il Tempo sarà lento / e il Tempo sarà concreto / e il Tempo sarà fermo / come un corvo bagnato che sbircia / dall’alto di un albero, nero e macilento - // Chi è più frastagliato, l’albero o il corvo? / Il corvo che sbircia, la testa così contorta / così ripiegata - // Allora l’anima sarà del colore delle felci / circondate di zanzare. // E la creatura che vive nell’anima / si laverà i piedi / prima di andare a letto.
The Sari (Moniza Alvi, n. Lahore, Pakistan, 1954) Inside my mother I peered through a glass porthole. The world beyond was hot and brown. They were all looking in on me — Father, Grandmother, the cook’s boy, the sweeper girl, the bullock with the sharp shoulderblades, the local politicians. My English grandmother took a telescope and gazed across continents. All the people unravelled a sari. It stretched from Lahore to Hyderabad, wavered across the Arabian Sea, shot through with stars, fluttering with sparrows and quails. They threaded it with roads, ondulations of land. Eventually they wrapped and wrapped me in it whispering Your body is your country. (Da The Country at my Shoulders, 1993)
il sari. Dentro mia madre / sbirciavo da un oblò di vetro. / Il mondo dall’altra parte era caldo e marrone. // Tutti guardavano verso di me / il babbo, la nonna, / il ragazzo della cuoca, la cameriera, / il torello / con le scapole alate, / i politici locali. // La mia nonna inglese / prese un telescopio / e guardò attraverso i continenti. // Tutta la gente dipanava un sari. / S’estendeva da Lahore a Hyderabad, / ondeggiava sul mare d’Arabia, / punteggiato di stelle / fluttuante di passeri e quaglie. / Lo striarono di strade, ondulazioni di terra. // Alla fine / fecero un pacco e mi ci avvolsero dentro / sussurrando: Il tuo corpo è il tuo paese.
Map of India (Moniza Alvi) If I stare at the country long enough I can prise it off the paper, lift it like a flap of skin. Sometimes it’s an advent calendar — each city has a window which I leave open a little wider each time. India is manageable — smaller than my hand, the Mahanadi river thinner than my lifeline. (Da The Country at my Shoulders, 1993)
mappa dell’india. Se fisso il paese abbastanza a lun- go / riesco a sollevarlo dalla carta, / lo alzo come un lembo di pelle. // Talvolta è un calendario dell’avvento—/ ogni città ha una finestra / che lascio aperta / ogni volta un po’ di più. // L’India è maneggevole — più piccola della / mia mano, il fiume Mahanadi / più sottile della linea della vita.
Biped (Suniti Namjoshi, n. Bombay, 1941) Now that you have hit me, I must dab at my mouth and smile quietly, or not smile at all, but in some way show I am noble, not base. And the dog inside, who whimpers so piteously, and would like to lick your hands — it feels so out of favor — that dog must be silenced before its howling betrays disgrace. But I am that dog. It was I who howled, I who was hurt. And it is I I felt the pain. who despised myself. (Da The Bedside Book of Nightmares, 1984)
bipede. Ora che mi hai colpito / devo darmi il rossetto alla bocca / e sorridere tranquilla, / oppure non sorridere affatto, / ma in qualche modo mostrarle / che sono nobile, non ignobile. / E il cane, dentro, / che guaisce / così pietosamente, / e che vorrebbe leccarti le mani / (si sente così caduto in disgrazia) / quel cane dev’essere zittito / prima che il suo mugolio / tradisca sventura. / Ma sono io quel cane. / Sono stata io a gemere. / Io ho sentito il dolore. / E sono io / che disprezzo me stessa.
The Creature (Suniti Namjoshi) I was in the garden, at the edge of a wood. I knew she would come, the light gliding across her shoulder blades, down her back, her eyes reflecting the surrounding green. I crept a little closer. I think she saw me. I came out of the bushes and stared at her. She seemed to be pleased. She settled on the grass, leaning her back against a tree trunk. I knew she was waiting. When she stretched out an arm, I let her touch me. I licked her throat, I cropped the grass between her feet. But then he appeared. She looked up and laughed. He looked down and smiled — from a monstrous height. I skittered off fast. Then I came back and watched them at it.
La creatura. Ero nel giardino, al margine / del bosco. / Sapevo che lei sarebbe venuta, con la luce / che le scorreva / fra le scapole, lungo / la schiena, / gli occhi che riflettevano il verde circostante. / Mi avvicinai furtiva. / Penso che mi abbia vista. / Uscii dai cespugli / e la fissai. / Sembrava contenta. / Si sistemò sull’erba, / appoggiando la schiena al tronco di un albero. / Capii che stava aspettando. / Quando allungò un braccio, / le permisi di toccarmi. / Le leccai il collo, brucai l’erba / tra i suoi piedi. / Ma poi apparve lui. / Lei lo guardò e rise. / Lui la guardò da una altezza mostruosa / e sorrise / Io scappai via velocemente. / Poi ritornai / e li guardai che lo facevano.
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