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ENRICO TESTA, Cairn, Torino,Einaudi, 2018, pp. 120, € 11,00.


In: «Semicerchio» LVII (2017/2), Uncreative poetry, p. 73.


A trent’anni esatti dal suo esordio (Le faticose attese, San Marco dei Giustiniani, 1988) Enrico Testa torna con un sesto libro di poesia per la collezione Einaudi. Il tono di questa nuova raccolta è dovuto al senso di una disillusione incallita nella quale non è più possibile trarre beneficio nemmeno dall’abbassamento della materia. Il poeta di Cairn scopre che il potere di svelamento della poesia non conduce alla liberazione dal peso degli anni e dal fastidio delle vecchie cicatrici, «Tutt’al più si può sotto le dita sentire / come uno sbrego dolente / nel rovescio di un antico tappeto» (p. 22). L’effetto più immediato e allarmante di questa condizione è la scomparsa del nesso tra significato e segno: i nomi delle gallerie si accavallano nelle direzioni di andata e ritorno («Apparizione Maltempo Coronata / E anche in direzione inversa: Coronata Maltempo Apparizione», p. 13), i numeri del sudoku ricalcati sul piano del tavolo svaniscono di prima mattina («un 7, un 4 e un 3 / (quasi del tutto cancellato però) / e poi, opachi, altri numeri in fila. / Una cabala coniugale», p. 20), i nomi delle persone dimenticate o scomparse non si leggono più («ha un braccialetto con scritto / (ma leggo male) / Valeria o Caterina al polso», p. 25). Questo misto di sogno e morte, ricordo e identità, cui si oppongono pochi e incerti segni, come il bacio degli spazzolini nel bicchiere del lavandino o le rose che fioriscono nell’anniversario di una scomparsa, è un presupposto ben definito già nelle prime due sezioni della raccolta (Ora e qui e Spinarosa) dove si dipinge con chiarezza lo scenario di ritorno e immaterialità in cui la raccolta, lungo dialogo con chi non è più, deve essere recepita: «la luna e un pronome. / Di numero singolare / e di genere ancora indistinto. / Si profila nel sonno. / È solo – abolito ogni nome, / proprio o comune – un pronome. / Pura tenue tenace / esistenza verbale. […]» (p. 27).
Dalla piattaforma della sua postumità poetica, chi dice io nei versi di Cairn asseconda la tentazione di travalicare i confini della lettera, della retorica («M’è venuto il terrore dell’allegoria», p. 40) per intercettare il moto di una specie di altalena oscillante fra apparenza ed essenza, svelato con un guizzo dell’anima in Ultima lezione: «E quanto – e non è poco ci divide / in realtà – per poco – ora anche ci unisce; / e trasforma la compita cortesia di prima, / il mio scontento della fine / nella nuda verità di un’altalena / che con una fune strappata / a rilento attorcigliandosi / volteggia deserta al vento» (p. 41). I segni possono anche essere insufficienti o sbagliati – sembra ammonirci l’autore, facendoci partecipi del suo sorvegliatissimo (auto) sospetto –, lo spettro delle cose invisibili alla nostra coscienza è molto più vasto di quanto i poveri strumenti umani possano raccogliere. Testa rifonde i suoi dubbi più profondi ricorrendo alle tessere di una fede poetica incrollabile ma problematizzata, in dialogo, chiamata a raccolta. Senza che siano nominati, nei suoi versi si colgono echi e movenze di una lunga tradizione di maestri. La violenza, quella verbale dell’invettiva o quella fisica simbolizzata dal sogno, è la prima e più evidente ricaduta di questa interruzione di segnale fra parole e cose. Lo «starmale» (p. 46) del poeta si definisce in un feroce grido di condanna che risuona nella rima «senza/scienza» (p. 47) in cui sembra di scorgere l’eco della caproniana Dies illa. La possibilità di una comunicazione si può riaffidare solo all’estrema funzione fàtica di un’ingolfata e faticosa traduzione simultanea: «Piega inquieta di voci remote: / stirpe, spezzoni di parola, / gutturali richiami, / fossile dialettale, / sillabe isolate / e un “ehi!”, un “ohilà” un “mi senti?”» (p. 65). La difficile continuità di sangue fra chi ci ha preceduto e noi prende forma attraverso il riferimento di un’indicazione che non sbaglia. Cairn: mucchi di pietre che hanno la funzione di antichi monumenti sepolcrali e di moderni segnavia montani. Ecco l’oggetto misterioso che dà titolo all’opera.
Una quotidianità abissale si svolge sull’orlo dell’anti-rivelazione. Sono le giornate tutte uguali, le notti passate a vendicarsi dei vecchi torti, il treno del pendolare a ridurre a zero la metafisica del viaggiatore-osservatore, transitante nel fiume dei suoi simili o rifugiato nel cuore verde di una natura addomesticata e svilita in ritagli di giardini periferici popolati di incontri ravvicinati con esseri minacciosi ed emblematici. La natura conserva forse l’unico autentico spiraglio di salvezza nell’immaginario testiano, come nel caso di Felci (p. 88), in cui lo schermo di una vegetazione amica può dare l’opportunità di un attraversamento felice, «E questa è la salvezza». Il poeta di Cairn partecipa al lento e sofferto (ma inesorabile, lui lo sa) cammino della natura che si riappropria millimetro dopo millimetro del centro urbano, effetto dell’invadenza umana. Nella sequela dei suoi giorni, egli osserva il fiorire di una lobelia su un marciapiede di Savona e di un capelvenere in una stazione di Genova con palpitante e segreta partecipazione (Lobelia, muschi, p. 93). Ciò che lascia la lettura di Cairn è una paradossale ansia di vita. Il poeta-viaggiatore – sono moltissime le ambientazioni e le specifiche toponomastiche – indica la vastità dell’inganno con un gesto consumato e dettagliatissimo, carico di suggestioni culturali e linguistiche (se ne dà conto parziale nella Nota conclusiva) descrivendo la pienezza articolata dell’essere («Il vuoto lasciamolo al dopo / e ai suoi falsi, interessati profeti», p. 97) che come l’altalena di Ultima lezione si concretizza nell’oscillazione imperfetta. La presa d’atto circa l’impossibilità della conoscenza è radicale ma non arida. Il desiderio di una fede è ricercato per negazione in ogni dettaglio della vita trasognata e disillusa cui il poeta è destinato. L’immagine della morte, della propria morte, diventa così l’ossessione che può sciogliere il nodo, oltre che il memento di un evento doloroso e triste: «Abbiamo finito molte e molte volte. / Non una volta sola. / E ora possiamo finire di nuovo. / E ancora e ancora. / Senza un nuovo inizio» (p. 116).

Fabrizio Miliucci 



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