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Tredicesimo quaderno italiano, a cura di Franco Buffoni, Marcos y Marcos, 2017, pp. 318, € 25,00.


In:«Semicerchio» LVII (2017/2), Uncreative poetry, pp. 74-75.


«XIII Quaderno significa ventisei anni di vita» (p. 11). Misurando l’età di questa vera e propria istituzione della nostra poesia contemporanea, Franco Buffoni inaugura il Tredicesimo quaderno italiano, presentando una piccola schiera di giovani poeti e poetesse, tutti nati dopo il 1980, formata da Agostino Cornali, Claudia Crocco, Antonio Lanza, Franca Mancinelli, Daniele Orso, Stefano Pini e Jacopo Ramonda. Cerchiamo allora di seguire il filo di questa sottilissima narrazione collettiva cominciando dal primo (in ordine alfabetico) e ripromettendoci di dedicare qualche parola ad ognuno dei partecipanti.
Camera dei confini di Agostino Cornali (presentato da Niccolò Scaffai) rappresenta un viaggio morbido nei paesi del bergamasco (Martinella, Redona, Gazzaniga, etc.) i cui nomi sono messi come epigrafe – al posto del titolo, quasi come in dedica – in ognuno dei ventisei brevi componimenti che tracciano questo itinerario territoriale e sentimentale. Cullato dalla dolcezza di un paesaggio maestoso e domestico, Cornali ripercorre «i sentieri / tracciati dai padri» (p. 26) e snocciola a memoria «tutti i paesi / da Mozzanica a Valbondione» (p. 30). La sua è una questione di memoria e di sangue. Davanti il paesaggio della sua infanzia e della sua adolescenza, il poeta coglie i segni di un enigma che si incarna nel sublime irrazionale, culminante nella rappresentazione di fantasmi e streghe, come nella poesia consacrata a Romano di Lombardia: «Qui dicono che in certe sere / guardando in alto si vede ancora / il corpo fatto a pezzi di Ambrogio di Vismara / appeso ai merli della torre» (p. 41). Le leggende medievali e le superstizioni contadine diventano così il correlativo di un sentimento antico e misterioso, eternamente riflesso nei casi di questa solitaria provincia dell’anima, in cui ad antenati longobardi con «le spade e gli scramasax in mano» (p. 33) si affiancano «ragazzi / con mandibole diverse / migranti coribanti / che attraversano i deserti» (p. 45).
Con Il libro dei volti (presentazione di Massimo Gezzi), Claudia Crocco ci porta in un romanzo di trame inconcluse e accavallate, sguardi incrociati, reazioni spiate, per scoprire il mistero di qualcosa che è come dimenticato, sommerso dalle tante precarietà di cui non possiamo non fare parte: quella dello studio che non si fa mai lavoro, quella del sesso che non si fa mai amore, quella dell’amore che non si fa mai verità. I suoi versi diseguali raccontano saltando dalla prima alla seconda alla terza persona. Le situazioni, vere o idealizzate, mescolano momenti di cronaca e diario in una specie di elegia impossibile, giocata sui due estremi della sensualità e del lutto, entrambi caricati di un’intensità che amplifica l’esperienza fino a renderla trauma, osservazione del trauma. Una vera e propria struttura di sguardi sorregge Il libro dei volti. Questa sostanza filtra anche attraverso il ricorso al nuovo vocabolario tecnologico che pure non rappresenta la vera sostanza della poesia di Crocco. Anche se complicata dalla speciale ipersorvegliatezza di una mente estremamente lucida, ci troviamo di fronte una poesia di passione. Dal gemito al singulto, il lettore è indotto a rivivere ogni sobbalzo di questa musica.
Suite Etnapolis di Antonio Lanza (letto da Fabio Pusterla) accompagna il lettore in un piccolo romanzo in versi ambientato in un centro commerciale, Etnapolis appunto, in cui seguiamo le voci, i pensieri e le (in)azioni di commesse, baristi, sorveglianti e tutti gli altri personaggi che popolano questa specie di necropoli del commercio e del consumo. Ma più che essere poesia del consumo, Suite Etnapolis segue il modellarsi della materia umana negli intervalli regolari di scaffalature e giorni. La vita costretta a mescolarsi su turni di otto ore, sette giorni su sette, è il vero soggetto della narrazione in versi di Lanza, che delinea i contorni di personaggi con aspettative, rancori e segreti. Il senso di alienazione che si esperisce nella frequentazione quotidiana di un non-luogo è il suo tema. Lanza cantilena la brutalità della reiterazione, scandita meccanicamente dal susseguirsi indistinto dei giorni, dall’accavallarsi delle voci registrate e delle voci interiori, dalla confusione fra l’idolo del profitto e quello della felicità individuale.
Altri toni tenta invece Franca Mancinelli con il suo Tasche finte, in cui si danno due piccoli saggi dalle prime raccolte della poetessa più una sezione finale di brevi prose poetiche. Leggiamo dalla presentazione di Antonella Anedda: «Pasta madre, Mala kruna, Tasche finte sono finora i tre titoli del percorso di Franca Mancinelli: parole composte che spiazzano chi legge, a partire dalla loro ambiguità come ‘mala’ che in serbo-croato significa ‘piccola’ e in latino e spagnolo ‘cattiva’, mentre ‘kruna’, omofono di cruna, significa ‘corona’. Ogni parola è concreta ma, impastata alla successiva, cresce davvero come il grumo della pasta nella nostra mente» (p. 147). Seguendo ancora le indicazioni di Anedda, si coglie come la poesia di Mancinelli mescoli il senso di una concretezza tattile e la materialità impalpabile del vuoto. L’impasto linguistico della poetessa accavalla sensazioni e dati reali, raffredda la passione in uno sguardo asettico e partecipe, usa materiali comuni per evocare la puntura dell’idea che si distende sull’ordine accidentale delle cose. «Quest’alternanza – prosegue Anedda – tra elementi pungenti e materia, tra spina e legno, tra accoglienza e ritrazione crea una continua incertezza su chi dice io e chi dice tu, su chi sia l’amante e l’amato, ma anche l’umano e la bestia» (p. 148). Leggiamo dall’ultima sezione: «Le frasi non compiute restano ruderi. C’è un intero paese in pericolo di crollo che stai sostenendo in te. Sai il dolore di ogni tegola, di ogni mattone che cade. Un tonfo sordo nella radura del petto. Ci vorrebbe l’amore costante di qualcuno, il suo lavorare quieto che risuona nelle profondità del bosco. Tu che finalmente ritorni. Disfi la valigia, ti scordi di partire» (p. 190).
Quinto poeta del XIII Quaderno è Daniele Orso, che presenta il suo Muri portanti, brevemente introdotto da Flavio Santi. La poesia di Orso, conscia della lezione di Giovanni Giudici, nume tutelare di questi versi, sembra proseguire la linea crepuscolare di una adesione alle piccole cose (piccoli ricordi, piccoli dolori) ironica e drammatica, anche se animata da un rigore intransigente. La provincia, la lateralità geografica e biografica, la periferia mentale: questi sembrano essere i termini della dimensione in cui muove chi dice io, catalogando con amara lucidità gli argomenti dell’indimostrabile, dell’assurdo storico ed esistenziale. Animo scettico e romantico, Orso passa dall’universale al particolare mescolando i piani con rime facili e quasi cantabili, come in I romanzi: «[…] La verità è che i romanzi / Sono sempre così pietosamente / Ostili alla ragione: / Che succedeva a Dachau, Dachau-paese, // Mentre poco distante l’Essere / Scompariva nei forni del campo / E l’Agnese andava pedalando, / Come fosse niente, a morire?» (p. 237).
Sentimentale Jugend di Stefano Pini è presentata dalle parole di Milo de Angelis: «Poesie invernali, nebbiose, vestite di brina e galaverna. La luce è velata, ferita, mai piena; è la luce “rotta”, scrive Stefano Pini, dove emergono come minuscoli palombari i giorni della giovinezza. E infatti la giovinezza che appare nel titolo è un tema ossessivo di questi versi. La giovinezza con le sue partite di calcio giocate nel primo campetto, lontano dai centri sportivi e dalle porte regolari: “pali improvvisati e niente / traversa”» (p. 241). Con le poesie di Pini ci troviamo di nuovo immersi nella provincia lombarda, fra Treviglio e Milano, anche se non mancano tappe europee (Berlino, Lisbona) al suo taccuino di impressioni e memorie. Come nota de Angelis, la brina è per Pini una metafora luminosa del velato apparire e scomparire dell’idea poetica. Uno strano senso di appartenenza alla propria vita, un «tempo del tempo» (p. 278) in cui tutto sembra essere doppio, facoltà possibile della percezione. La percezione di Pini, appuntata al paesaggio non metafisico della campagna lombarda, industriale e contadina, gioca con le referenze di una realtà decostruita dallo spirito analitico del poeta, che cerca la quadra di una domanda non posta, specchiandosi nella sua materia, guardandosi osservare.
Ultimo della serie è Jacopo Ramonda, con le prose-poesie del suo L’inappetenza, presentato da Umberto Fiori. Fra protagonisti e comparse, di cui seguiamo serialmente le vicende, Ramonda guarda con occhio disincantato ai casi intimi di una serie di personaggi – noi e loro si accavallano – le cui piccole vite sono messe, per così dire, al microscopio. Le trame di queste brevi prose sono essenziali, asciutte, interiori. Diario, memoria e cronaca privata servono a Ramonda per cristallizzare sulla carta alcuni minimi episodi apparentemente insignificanti. Le relazioni sentimentali, le aspirazioni individuali, il trascorso professionale di una vita, ogni espediente è buono per operare un’incisione sul corpo vivo di personaggi difettosi e andare in profondità. La profondità è l’ossessione di questo sistema poetico in cui alla complessità della trama (il feticcio del romanzo di cose) si contrappone la complessità dei caratteri, figure apparentemente ferme che, riga dopo riga, assumono una dinamicità nuova. Il meglio è nella freddezza con cui il poeta riesce a considerare i casi propri e altrui, scoprendo spazi in cui il dolore ha smesso di essere la ragione principale (di qui forse la caduta del canto) e le ragioni pro e contro si contano come in un bilancio aziendale. Da Enfant prodige: «Durante gli anni delle elementari, io e mio fratello minore siamo cresciuti con la sensazione di essere destinati a qualcosa di grande, ad un futuro radioso. Il nostro comportamento e le nostre parole suscitavano commenti e reazioni sperticate, apprezzamenti sproporzionati rispetto alla nostra ordinarietà, e ovviamente preferivamo crederci speciali, piuttosto che viziati. […]» (pp. 308-9).
Il Tredicesimo quaderno italiano fornisce alcune importanti e utili indicazioni sulla strada che i giovani poeti stanno intraprendendo, a cominciare dall’incontro fra poesia e prosa, argomento tornato di grande attualità nell’ultimo decennio, nel complesso panorama del rinnovamento lirico cui anche le esperienze riunite in questa raccolta sembrano dare adito. Ma al di là dei veri e propri esempi di poesia in prosa, offerti da Mancinelli e Ramonda, tutti gli autori antologizzati in questo Quaderno sembrano tentati dalla funzione descrittiva, analitica e narrativa della poesia, dimostrando di volersi appropriare di una sezione della nostra complessa realtà tramite i versi, lo strumento apparentemente meno adeguato a tale scopo. Il lavoro di Franco Buffoni e dei suoi collaboratori continua a produrre senso, nonostante il quarto di secolo sia ormai alle spalle.

Fabrizio Miliucci

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