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RODOLFO ZUCCO, Bubuluz, Milano, edizioni del verri, 2017, pp. 95, € 12,00.


In:«Semicerchio» LVII (2017/2), Uncreative poetry, pp. 75-76.
 


Rodolfo Zucco organizza le poesie di Bubuluz, sua raccolta d’esordio, attraverso una ratio centonaria: il «ritaglio», il frammento, la citazione vengono assemblati e ibridati ai versi dell’autore, talvolta in forma di «pastiche o fragment», delineando un «esercizio di scrittura secondo la tecnica che il Genette di Palimpsestes chiama versification» – come indicava già Zucco in occasione della prima uscita in rivista di alcuni testi. L’oggetto poetico prodotto assume una dimensione estremamente plastica: le scritture e riscritture di Bubuluz risemantizzano, edificano un senso nuovo rispetto a quello assunto dall’ipotesto; la dinamica è resa esplicita nella poesia Busto, efficace mise en abyme del gesto: «Privo di corpo, di ambiente, di legami / con un tempo e uno spazio definiti / il volto diventa una maschera / atemporale – e // la modella ridente / del busto originario / è ormai solo il ricordo / in cui si solidifica una forma».
La raccolta è divisa in due parti, Distrazioni, restituzioni e Distrazioni prime e ultime, le quali dispongono le poesie rispettivamente nelle sezioni Dove eravamo prima, Umwälzung, Roland, Schulz e Undici, Maniera nera. I «ritagli» si configurano come variazioni, lacerti di conversazioni, messaggi e corrispondenze privati, polittici che declinano uno stesso tema, esercizi di stile. Il minimo comune divisore di un materiale così eterogeneo si trova nella frammentazione della forma: l’uso di discorsi diretti, parentetiche, caratteri corsivi, puntini di sospensione (spesso a inizio o fine componimento), ellissi e strofe sfrangiate, ostenta una frattura interna al testo, palesandolo come oggetto scomponibile. È l’emersione di queste crepe a suggerire due caratteri propri delle poesie di Bubuluz: l’inibizione del dialogo tra gli individui, che confina al monologo le voci di soggetti sconosciuti che non ricevono risposta dal ‘tu’ o dal ‘voi’ ai quali si rivolgono; e la negazione di un’individualità monolitica, di una definizione identitaria, lasciando piuttosto il lettore assistere alla scomposizione del soggetto, che diluisce nelle parole degli altri sé stesso («E spii, spii come parlano / gli altri esseri umani»), confondendosi dentro a un ‘noi’, rendendo impraticabile la ricostruzione esatta di una biografia. La variazione viene assunta anche nel verso, che si fa inclusivo, oscillando dal monosillabo incipitario alle parole isolate, passando per i versi della tradizione italiana fino ad arrivare a endecasillabi a cavallo tra due strofe e a versi-frase di 15 sillabe. Si profila un’attenzione formale annunciata talvolta dal testo stesso, una funzione mimetica che porta, per esempio, al seguirsi scalare di decasillabo, novenario e ottonario dove i versi recitano «costruita dentro una salita – / con una trama che saliva / e un finale che scendeva», e all’isometria dichiarata, con la ripetizione del settenario: «ripetute secondo / un unico modello». Esercizi come questo corroborano un’istanza di straniamento che struttura l’intera raccolta: in molti casi, il collage dà per risultato un accostamento di scritture apparentemente irrelate, anacronistiche, cortocircuitate; la sottrazione di un’identità riconoscibile e unitaria («Mi posi davanti / allo specchio per annodarmi la cravatta, / ma la sua superficie, / come uno specchio concavo, / nascondeva al suo interno la mia immagine») destabilizza e consente al verso un’assertività non vincolata; il pastiche linguistico affianca lingue straniere, dialettali e forme arcaiche all’italiano standard, ma anche lacerti di conversazioni private tra sconosciuti possono darsi come linguaggio estraneo («Senza capire / una parola di quel linguaggio straniero, / ascoltavamo con rispetto quella / conversazione cerimoniosa, piena / di sorrisi, di strizzatine / d’occhio, di affettuosi e delicati / colpetti sulle spalle»); sono molte, infine, le poesie di carattere patentemente manieristico, enciclopedico e saggistico (si veda il testo Domare, che versifica i significati del lemma così come verrebbero indicati da un dizionario; o il testo eponimo, Bubuluz, breve cronaca quotidiana: «Sul prato / di prima Bubuluz ottiene / grandi successi: acchiappa / rapidamente, uno / dopo l’altro, tre grossi topi / di campagna»). Tutto ciò è tanto più straniante se si considera l’attrito tra queste poesie e quei versi eminentemente lirici, intimistici, nei quali emerge fugacemente, dal caleidoscopio di voci, la prima persona dell’autore («Ero seduto dove era stato spesso / papà e fumare mi sembrava / la cosa giusta da fare / secondo un senso delle cose / che aveva cominciato a insinuarsi in me»). Le poesie di Bubuluz sono state scritte tra l’estate del 2013 e la primavera del 2015. La nota dell’autore, in fondo al volume, indica alcuni antecedenti di questa forma in Toti Scialoja, Elio Pagliarani, Jolanda Insana, ai quali aggiungerei certi ready made linguistici di Valerio Magrelli. Zucco non fornisce al lettore alcuna indicazione circa le fonti dei suoi fragments, nessun ausilio per districarsi tra le sue costruzioni; e, d’altra parte, sarebbe superfluo farlo: «Dovrei spiegarLe / le circostanze, ma forse / guasterebbe l’effetto, non Le pare?».


Francesca Santucci

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