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GUIDO MATTIA GALLERANI,I popoli scomparsi,Ancona,peQuod, 2020, pp. 102, 15,00.

 

Uno dei dilemmi più intricati che coinvolge il discorso contemporaneo sulla poesia è se il testo – nel suo scaturire e nel suo fissarsi in forma linguistica – sia originario oppure originato: veicolo d’istantanea, spirante trascendenza o langue che diventa parole? E soprattutto: manufatto creaturale e ‘verticale’ o prodotto di alto artigianato, mosso da un’istanza primariamente dialogica? Guido Mattia Gallerani, con il recente I popoli scomparsi (che a distanza di qualche anno rafforza il già promettente esordio di Falsa partenza), sceglie senza esitazioni di sperimentare il corno secondo del dilemma. Inoltre, grazie all’assertività pacata e sicura della sua intonazione, egli mira a distaccarsi tanto dall’approdo esteriore di una poesia solo tematicamente ‘civile’, quanto dal mito lirico dell’io sensibile che raggiunge ed esprime le zone più abissali del suo essere, attraverso il manque di un desiderio inesausto. Nei termini tutti nuovi di una dialettica dell’illuminismo disposta oggi ad annettersi anche il pensiero oscuramente rituale dell’antropologia plurimillenaria, Gallerani s’impegna piuttosto a risalire alle origini genetiche e storicamente residuali di quei ‘popoli’ (attenzione: l’accezione nella quale lui introduce il termine qui deriva direttamente da Gramsci) che hanno inciso le loro peculiarità nel nostro dna contemporaneo, per poi scomparire tra le faglie e le contraddizioni della Dissipatio humani generis (per dirla col rimosso Guido Morselli), non di rado senza alcuna apparente ragione ‘esterna’. Nella sua visione, non c’è dubbio, Jung prevale su Freud (e Benjamin su qualunque storico hegeliano), perché per l’autore è sempre preferibile risalire a un inconscio e a un trauma collettivi piuttosto che indirizzare la propria semantica poetica sulle tracce frammentarie delle sensibilità e delle reazioni individuali. E già in via preliminare è opportuno riconoscere che i “popoli scomparsi” nell’attuale (in)cultura di massa che pervade il mondo occidentale possono essere identificati di volta in volta nei punk, negli hipster o più generalmente nei superstiti, vale a dire in coloro che «Modulano futuri propositi / che corrono di bocca in bocca» e che «Ballano al ricordo di noi».

Nel portare a compimento un progetto tanto ambizioso e tanto radicalmente epico, Gallerani non rinuncia ad alcuna risorsa della lingua poetica contemporanea, rifuggendo da qualsivoglia arcaismo o anacronismo gratuito; evitando la monotonia di ritmi naturalmente ripetitivi; non trascinando mai le singole parti del suo insieme nelle secche di un’erudizione da wikipedia; abbattendo ogni residua barriera tra paesaggi interiori e cesellati esercizi di èkphrasis oggettiva; ed infine elaborando una serie di congegni metrici perfettamente concertati nella loro varietà e nella necessità interna della loro forma versificata. Efficacissima, in chiave puntualmente narratologica, a guisa di metronomo del recitativo, risulta per esempio la fitta trama degli enjambement. Dal punto di vista della sua orchestrazione complessiva, piuttosto, I popoli scomparsi si colloca nella sfera di quella che già più di mezzo secolo fa il grande e imprescindibile Michel Foucault (in Le parole e le cose, 1966) definiva «inchiesta archeologica», nei cui termini un principio di estraneità viene a introdursi in tutti i campi che il genere umano – nel corso del suo movimento di civilizzazione – si è illuso «di circoscrivere e possedere». Si provi a porre il termine archeologia in contrasto metodologico e gnoseologico con il principio della consequenzialità cronologica e ci si troverà subito nell’area semantica non meno che immaginativa di una geologia da considerare come parte essenziale del lavoro poetico, in accordo con la capitale ricerca svolta per tutta la sua lunga vita di autore da Andrea Zanzotto. Senz’altro, è da presupposti simili che il men che quarantenne Gallerani prende le mosse: ma, nel momento in cui mette a punto l’assetto teorico della propria originalissima intrapresa, entro il cui dipanarsi non privo di suspense s’intrecciano macroforma annalistica e geografia ‘mondiale’ dell’immaginario, emerge come in filigrana la necessità di un approccio linguistico e non di rado metaletterario. Tale necessità s’identifica da un lato con la libertà che deriva all’autore da un capovolgimento del punto di vista tipicamente occidentale in virtù del quale la storia la scrivono i vincitori. Gallerani sembra suggerirci che è meglio se però la poesia la compongono i vinti. Dall’altro lato, affiora una delle meglio mimetizzate – ma più attive – armonie recondite del libro, quella prodotta dalle tracce delle lingue morte solo in superficie e indotte dai popoli scomparsi a cozzare e intrecciarsi con le lingue dei vincitori. Non a caso, quasi al centro della sequenza, si colloca uno dei nuclei più esplosivi, I Longobardi, preceduto da un cartiglio in cui viene dichiarata una possibile poetica generale, derivata dal Manganelli delle Interviste impossibili, «in cui gli scrittori intrecciavano dialoghi postumi e fantastici con i personaggi del passato»: una poetica della glossa postuma tramite cui si constata subito che «di quella lingua impronunciabile / e fatta per vincere, / non è rimasto nulla, / nemmeno il suo mistero», perché poi – oggettivamente – «ne sparì la voce e la scritta / con qualche chilogrammo / di oggetti lavorati, un tempietto / a Cividale, un’iscrizione attorno alla vera/ di un pozzo bolognese».

Il piccolo miracolo laico che sorregge questo libro è che il Gallerani professore di letterature comparate nell’Università di Bologna non fa mai premio sul Gallerani poeta, molto libero e non di rado ironico, scintillante, ‘leggero’ nelle sue pertinentissime allegorie immaginative, fino ad azzardare in clausola una piccola profezia a esorcismo del nostro presente piuttosto apocalittico: «Perirono così, aspettando il bisbiglio / della pioggia e che le bolle del vapore / s’involassero, centellinassero dal cielo / un raggio di sole, una bugia / sulla fine dell’epidemia».

                       (Alberto Bertoni;
Semicerchio  LXVI, 2022/1, in corso di stampa)


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