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IN SEMICERCHIO. RIVISTA DI POESIA COMPARATA 64 (2021/1) pp. 83-85 (scarica il pdf) Poeti latini del Cinquecento, a cura di GIOVANNI PARENTI, ed. Massimo Danzi, Edizioni della Normale-Istituto nazionale del Rinascimento, Pisa 2020, pp. 135
“Meravigliò la gente d’Europa la cerimonia del sacrificio e il contagio mai visto prima in nessun luogo; ma il capitano, molte cose tra sé meditando nel silenzio del cuore: «Era questo – diceva – il morbo sconosciuto (distoglietene, o dèi, da noi l’evento!), che ci vaticinava la funesta profetessa di Febo». Allora chiese all’ospite sovrano (ormai essendo comuni la conoscenza e l’uso della lingua) a quale dio fossero sacri quei riti e perché tanta folla miserevole d’infermi si radunasse al riparo”. Questo passo, che sembra riferito alla pandemia dei nostri anni, viene da un poema di Girolamo Fracastoro (1476/8-1553), una delle figure più innovative della letteratura poetica del Cinquecento, medico e scienziato aperto a interessi spirituali ma soprattutto propugnatore di osservazioni cliniche precise e fondate di quello che oggi chiameremmo epidemiologia, batteriologia, virologia, le cui cause immediate, da allievo di Pomponazzi, teneva ben distinte dagli influssi astrologici che saranno ridicolizzati nel don Ferrante di Manzoni. Il suo apporto creativo più sorprendente e popolare rimane però proprio il poema Sifilide, da cui è tratta la citazione iniziale, nel quale «la scienza medica si trasforma in invenzione mitologica, con la favola di Ilceo che spiega […] l’invenzione e l’uso del mercurio nella cura della sifilide», il morbo cui Fracastoro diede un nome e insieme volgarizzò la cura ottenendo un successo duraturo che non arrise invece alla sua monografia in prosa, rimasta inedita fino ai giorni nostri. Ce ne offre un profilo magistrale, insieme a un’antologia di passi con traduzione e commento di stupefacente erudizione, l’antologia Poeti latini del Cinquecento creata da Giovanni Parenti e, dopo la sua scomparsa nel 2000, curata con competenza e pietas esemplari da Massimo Danzi per le Edizioni della Normale (Pisa, 2020) in due volumi monumentali di 1357 pagine complessive. Conobbi Parenti negli anni ’80, come assistente di Domenico De Robertis ai corsi di Letteratura Italiana dell’Università di Firenze, dove faceva valere conoscenze inesauribili di poesia dei primi secoli, e poi nuovamente come docente di Letteratura Comparata per lavori di grande innovatività, ma soprattutto come uomo di cultura libera da vincoli professionali, estesa in egual misura a musica e arte, nonostante la sovrana indolenza che sembrava ostentare nelle pubblicazioni. Ricordo che da sempre lavorava a quest’opus magnum, anzi maximum, e che appunto non riuscì a completarlo prima che la malattia gliene togliesse, a 53 anni, le speranze. Un lavoro immane perché, essendo quasi privo di precedenti equidimensionali (se si eccettuno le parti italiane delle antologia di Perosa-Sparrow del 1979 e di P. Laurens e C. Balavoine del 1975), doveva essere realizzato, per la parte latina di cui ora vediamo gli esiti, su letture e fonti di prima mano e spesso senza traduzioni-guida che mettessero al riparo da scivoloni e fraintendimenti. Il piano prevedeva cinque aree: romana, veneta, veronese, bresciana, toscana, più una meridionale, secondo un’articolazione che risentiva molto delle tesi di Carlo Dionisotti imperanti in quegli anni e particolarmente pertinenti per letterature di aree politicamente distinte anche se culturalmente abbastanza omogenee. Ne restano qui i profili e gli estratti di sedici personalità, meno di metà di quelle originarie, la cui storia editoriale e il cui progressivo incremento Mazzi rievoca e ricostruisce con filologica precisione nell’Introduzione all’opera, servendosi di ampie citazioni epistolari e chiudendo la storia con la concomitanza fra la morte di Parenti nel gennaio 2000 e la chiusura della collana di crociana nobiltà «Letteratura Italiana. Storia e Testi» nel 2001 proprio col primo tomo, già postumo, della fatica di Parenti. Il resto esce ora, dopo un altrettanto lungo lavoro di collazione dell’originale ‘parentiano’, che dei testi aveva allestito edizioni in certo senso critiche, e insieme delle fonti (manoscritti e stampe antiche) su cui quelle edizioni private si basavano. Grazie a questa, che divenne quasi impresa di scuola, con apporto dello stesso De Robertis e dell’altro suo assistente Giuliano Tanturli, ci troviamo qui dinanzi a un monumento di conoscenze che si esplica non tanto nella cura e traduzione, quanto nella presentazione degli autori, accuratissima di dettagli biografici, informatissima (limitatamente al 1999) sul corredo bibliografico e sulle fonti primarie escusse con paziente e attentissima acribia e con abbondanza tendente alla completezza, e soprattutto di valorizzazioni critiche, di sostegni ermeneutici e decifrazioni intertestuali che, per essere compilati in un’epoca ancora priva di archivi elettronici, sembrano veramente prodigiosi eppure mai esposti per esibizione erudita ma sempre motivati nel rapporto di necessità con il testo principale. Il quadro che emerge da una scelta che sa toccare gusti, e scenari, e tonalità non uniformi è perciò assai più variegato, mosso e frastagliato dell’immagine frivola e cortigiana che la cultura, soprattutto latina, di quest’epoca si porta dietro (e non senza ragioni). Non mancano naturalmente i pastori leziosi, i cisisbei cinguettanti, le arcadie cardinalizie, le futili arguzie, le cene delle beffe, gli xenia (epigrammi per doni mandati o ricevuti), le dotte eziologie di alberi e animali (ricondotti a origini mitologiche) e i servi, talora spudorati encomi di intellettuali che, rifiutando gli incarichi pubblici delle università o delle scuole cattedrali e monastiche, doveva per forza dipendere dagli umori, i gusti e i capricci dei signori privati cui facevano da cancellieri, segretari, consiglieri. Di ogni poeta Parenti sa mettere a fuoco un colore inatteso, un risvolto inedito, un’innovazione finora poco illuminata. Perfino Guido Postumo Silvestri è capace di emozionare con l’appello feticistico e romantico all’immagine dell’assente nell’elegia di tipo ovidiano (l’Ovidio delle Heroides) scritta a nome di un’Elisa didonica (chi sa se anche abelardiana) per Annibale Rangoni. Del Valeriano, ossia Giovanni Pietro dalle Fosse, Parenti valorizza la ricerca fonosimbolica e insieme il sarcasmo impietoso nel ritratto del Calfurnio, umanista bergamasco colpito da paralisi conseguente a ictus che il poeta rapprenta come eruzione dal cervello troppo pieno delle innumeri nozioni greco-latine ivi stipate e mai comunicate, al punto da generarne una guerra reciproca dovuta alla lunga prigionia, anche se il suo capolavoro, si fa per dire, è l’elegia meta- e insieme fanta-letteraria in cui immagina una gita di Catullo e amici sul Garda: dalle onde, per ascoltare la sua poesia, fuoriescono ninfe il cui affollamento fa oscillare la barca e cadere in acqua i fogli di Catullo, e le loro lettere d’oro si trasformano nel carpione, pesce che trae il nome dall’attività di carpire il cibo prezioso. Ma ne beneficia anche Virgilio, cui il Mincio trasmise attraverso la ninfa Ittia la sensibilità del latino di Catullo. Una finestra eruditissima eppure sgangherata sulla realtà sociale e insieme poetologica si apre nei suoi Hexametri, di cui Parenti sceglie una satira sulla curia romana che difende i poeti dall’accusa di essere fastidiose scimmie imitatrici della realtà umana, collegando la simbologia religiosa delle scimmie egizie alla sacralità dei poeti, che il mondo invece disprezzò e derise finché il pontefice (Leone X, mecenate a occhio e croce del 70% degli autori qui ospitati), che pure stava lavorando alla crociata contro i Turchi, non decise di riconoscere loro la dignità che meritavano. Ancora più feroce la satira della cena di Carnevale, le cui maschere sono i poeti ridicolizzati nei versi, e dei quali il commento di Parenti rivela le biografie romanzesche, talora tragiche come quella dell’improvvisatore Camillo Querno, incoronato Archipoeta alla maniera medievale, che finì in miseria e si suicidò «squarciandosi il ventre con le forbici». L’attenzione di Parenti al rapporto con l’arte e le sue rappresentazioni testuali trova il suo picco nel poemetto Laocoon del modenese Iacopo Sadoleto, poi vescovo di Carprentras, che si esercita sul celebre gruppo marmoreo scoperto proprio nel 1506 a Roma e identificato con quello di Agesandro, Polidoro e Atenodoro di Rodi già descritto da Plinio e, a gara, dai poeti romani dell’epoca. Rappresentava, come si ricorderà, il sacerdote che aveva svelato la trappola del cavallo di Troia ma fu stritolato insieme ai figli da serpenti marini inviati dalle divinità avverse. Questo li supera tutti nel «rendere con pertinenza di linguaggio anatomico e finezza di penetrazione gli effetti fisici e psicologici prodotti dal dolore e dal terrore sui tre personaggi, la tensione muscolare e lo spasimo dei corpi avvinti dalle spire serpentine e la pietà dipinti nei volti e negli atteggiamenti» creando una sorta di illusionismo poetico attraverso lo sguardo che via via chiama in primo piano i vari dettagli della scultura. Francesco Maria Molza, anch’egli modenese, celebre per plurilinguismo e poliglossia, è in questa antologia il campione dell’ortodossia tibulliana, che condivide equilibrio sentimentale, controllo formale e adulazione encomiastica, ma sa trovare i toni per consolare la cortigiana Beatrice dell’assassinio dell’amante adattando il motivo petrarchesco dei capelli che imprigionano l’anima (e che a lei furono tagliati, scrisse quella malalingua di Pietro Aretino, per curare la rogna) ma ne celebra anche la gravidanza, infrangendo i luoghi comuni della comunicazione da salotto e nella sua versatilità giunge a prestare anche un’occhiata alla storia del tempo nell’empatica eroide in voce di Caterina ripudiata dal terribile Enrico VIII. Del veronese Giovanni Cotta, morto a trent’anni dopo vita pienissima di “negozi” politici e militari, Parenti illumina la retorica che sa essere catulliana senza imitarlo – e ci vuole orecchio allenato – e certi accenni à la Riccardo Cocciante («Allora va, canta, mia luce; spogliati tutta»), ma anche la competizione con Marziale (e Pontano) nell’epitafio per il cane Caparione. Baldassarre Castiglione, il letterato (ma anche politico e militare) del Cortegiano, amico di Raffaello, si dimostra padrone assoluto del codice bucolico e soprattutto, nell’Alcon, delle sue versioni funebri ma rimane sempre dentro la letteratura. Parenti ne estrae anche un carme sulla presunta statua di Cleopatra (in realtà Arianna) del Belvedere, rappresentata come eroina stoica, e uno su Lodovico Pico della Mirandola ferito alla testa in una battaglia contro l’esercito di Venezia, ma proprio in queste occasioni la tracimazione del materiale di recupero classicistico crea un effetto di artificio che rende acrobatica ogni identificazione emotiva. Più originale, sempre entro questi limiti, l’epistola metrica scritta in persona di sua moglie Ippolita a lui stesso, perché ingloba una lettera reale e conservata, forzando le norme del genere letterario in un raffinato gioco di specchi. Di questo Rinascimento libresco diventa esemplare il profilo di Celio Calcagnini, anch’egli militare e funzionario, attivo persino nell’Ungheria minacciata dai Turchi e poi alla corte del cardinale Ippolito d’Este e quindi amico dell’Ariosto, e infine canonico a Ferrara e dottore di diritto all’università, la cui poesia il Giraldi definì aspersa di fiorellini splendenti come gemme ma frammischiati in così tanti passi da diventare brutti. Eppure anche lui sa stupirci con il carme sul carnevale, composto durante una spedizione di guerra, rappresentato come allegoria della vita che è gioco e teatro, e che a differenza della vita consente la scelta del ruolo, ma descritto anche nelle sue pieghe realistiche come tempo «in cui era data licenza di girar mascherati per le chiese, i teatri, la reggia; né era delitto palpare arrendevoli seni, far di nascosto una lasciva carezza, e insinuarsi tentatori tra ingenue ragazze», come purtroppo pare sia avvenuto ancora nel capodanno di Colonia qualche anno fa. Parenti ne salva anche la parodia di una battaglia a pallate di neve, che riprende un motivo erotico petroniano e poi quattrocentesco. Perfino il suo encomio, erasmiano e lucianeo, del riso fatto oggetto di culto dagli Spartani dopo i combattimenti, è quanto di più emblematico dell’aspetto postmedievale della cultura rinascimentale. Anche di Giraldi, che Parenti antologizza ma definisce «non precisamente nato per la poesia», si riesce a trovare nei Dialogismi una chicca che interpreta il vello d’oro come simbolo dei segreti dell’alchimia, i cui libri Diocleziano avrebbe fatto distruggere per evitare che gli Egizi se ne arricchissero. Chiude il primo volume, prima di Navagero, un altro pezzo da novanta (ma non in poesia latina), cioè il cardinal Pietro Bembo maestro di lingua, il cui umanesimo è qui definito ellenizzante, “inteso a raggiungere la grazia cesellata degli alessandrini” e del finto antico, fra fauni e ninfe. Parenti gli tende un tranello e ne antologizza un carme osceno ma a suo modo brillante su Priapo, anzi su una ‘piccola menta’ (mentula, il membro maschile). Navagero, letterato puro ma nevrotico che faceva falò rituali dei suoi scritti, è presente con cammei agresti e pastorali di impalpabile leggerezza. I poeti di spessore arrivano nel secondo volume. Non tanto il grecista Benedetto Lampridio riesumatore dell’ode pindarica, quanto Flaminio, Vida e Fracastoro. Il primo, irrobustito da preoccupazioni filosofiche e perfino bibliche, rilancia – contro gli strali del Castelvetro - la moda medievale dei salmi poetici, qui in dimetri giambici, da cui non era stato esente nemmeno un superlaico come Leon Battista Alberti, e ricade nella contrapposizione fra stile antichizzante e contenuto religioso, che tornano a essere considerati incompatibili nonostante gli sforzi dei mille anni precedenti. Proprio per questo la sua poesia resta «una provincia riservata agli aspetti più esteriori, occasionali e mondani» e ai generi di cammeo innodico che, per essere brevi, richiedono perfezione formale assoluta e spesso solo quella. Ma almeno è esente da esibizionismo intertestuale e sa fare proprio il materiale di reimpiego, fino a raggiungere accenti personali nel carme per la riconquista del campicello paterno e in quello sulla turunda, indigesta focaccia di semi di canapa insaporiti con mandorle. Il vertice della raccolta, come annuncia anche il Mazzi nell’Introduzione, è senza dubbio nel sacerdote cremonese e poi vescovo di Alba Marcantonio (poi anticato in Marco Girolamo) Vida, anch’egli all’ombra di papi e cardinali medicei. Fu l’unico dotato di respiro epico, che applicò a temi diversi culminando nella Cristiade con cui raccoglieva il testimone del capolavoro coevo, il De partu virginis di Sannazzaro. Parenti ne sottolinea la potenza di ispirazione e la nobiltà dell’esametro: considerato un classico già dai contemporanei come l’Ariosto, aprirà la strada a Tasso, Milton e Klopstock, fra i massimi, mentre il suo De arte poetica in versi, anch’esso qui ampiamente tradotto, «è il testo i cui la poesia umanistica giunge alla piena consapevolezza di sé, riflettendo con distaccata padronanza dei propri mezzi, sopra la natura, gli scopi e i limiti del suo stesso operare». Figuralità, coralità, dinamicità dei passaggi simbolici, ma anche la partecipazione emotiva assenti in quasi tutti gli altri suoi concorrenti e una gestione creativa della narrazione, rispetto alle fonti evangeliche, che ne fanno un adattatore moderno. Miltoniano è il concilio dei demoni, basato sull’apocrifo Vangelo di Nicodemo già ripreso dal Filocolo boccacciano, che Satana convoca per contrastare la discesa salvifica di Cristo all’inferno. Vida lo modella sul concilio infernale dell’In Rufinum di Claudiano, ma la statura morale di Satana è quella che ispirerà a Milton il grandioso affresco teatrale nel primo libro del Paradise Lost farà di questa scena. Mentre nemmeno Milton sarà capace di raggiungere la sontuosa sensualità della Maddalena che si sdemonia dalle sue presunte debolezze per ungere i piedi di Cristo. La stessa, con forzatura coerente delle fonti, sarà protagonista della Resurrezione, in una scena ispirata alla divinizzazione di Enea in Ovidio ma modellata sul De ave Phoenice di Lattanzio. Ma c’è chi considera il suo capolavoro il poemetto georgico Bombyx, antropomorfizzazione del baco da seta così materialmente collegato ai lussi delle corti ecclesiastiche e non. L’ampia sezione dedicata al Vida si chiude con una parodia bellica del gioco degli scacchi, che fin dal Duecento era diventato oggetto di trattati moralizzanti ma che quasi nessuno aveva affrontato in poesia. Dopo di lui, con Fracastoro entra in scena il nuovo mondo americano, dalla cui esplorazione emersero il guaiaco, la pianta che guariva la sifilide, ma anche un ambiente e un contesto la cui dirompente alterità insieme di terra fortunata e di teatro di empi massacri (di pappagalli) con uso di polvere da sparo, scompaginò finalmente l’accademia d fauni e ninfette che mascherava la realtà. Compresa l’origine della malattia dal pastore Sifilo, punito da Apollo per infedeltà. Dopo di lui, anche il vivace sperimentalismo dei Numeri (‘ritmi’, più che ‘versi’) di Niccolò d’Arco con le sue dispute sul latino ciceroniano o apuleiano e l’esaltazione dell’arte che preserva la bellezza o l’ode pederastica contro Licisco e Giovanni Della Casa col suo orazianismo seppure non virtuosistico sembrano luce di stelle lontane che sembrano ancora brillare ma sono già spente in origine. di Francesco Stella (una versione ridotta di questa recensione è uscita su Alias de “il Manifesto”)
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