« indietro IN SEMICERCHIO. RIVISTA DI POESIA COMPARATA LXIV (2021/1) pp. 94-95 (scarica il pdf) CHARLES WRIGHT, Oblivion Banjo, New York, Farrar, Straus and Giroux 2019, pp. 754, € 50,00 Oblivion Banjo si apre con un tributo, su sfondo veneziano, a Ezra Pound, che verso la fine degli anni Cinquanta, fece scoprire la vocazione poetica a Charles Wright. Questo Homage al suo primo maestro ci rimanda al 1973, alla sua seconda raccolta di versi, Hard Freight, che si apriva proprio con questa poesia. Ora, a quasi cinquant’anni di distanza, da poeta-curatore, Wright la ripropone all’inizio del suo zibaldone lirico di oltre settecento pagine che raccoglie quasi tutta la sua opera: «Awash in the wrong life, / Cut loose upon the lagoon […] the tide going out…/ Here is your caul and caustic, / Here is your garment, / Cold blooded father of light – / Rise and be whole again». Così, con un atto di umiltà verso l’autore dei versi, ambientati in Italia e casualmente scoperti mentre era nell’esercito americano a Verona, iniziava un progetto lungo diciassette premiatissimi libri nei quali Wright ha elaborato il suo inconfondibile stile, sempre più perfetto, per trattare di metafisica nel quotidiano e nel paesaggio. Il punto di partenza scelto nel riorganizzare la sua intera opera segna infatti il momento in cui i suoi tre temi – la lingua, il paesaggio, l’idea del divino - e le sue tipiche modalità espressive presero forma dopo l’apprendistato, avvenuto attraverso la traduzione dei Mottetti e della Bufera di Montale (l’altro grande pilastro del suo albero genealogico) e con lo studio sistematico della poesia, le lezioni di Donald Justice all’University of Iowa e un secondo soggiorno italiano da studente Fulbright a Roma, quando s'avvicinò anche all’opera di Dante e Campana. In Oblivion Banjo, Wright presenta la sua poesia come fosse un lungo unico testo scandito dallo scorrere dei titoli e delle date delle singole raccolte, da Hard Freight, appunto, alla più recente, Caribou (2014), senza le originarie divisioni interne. Non è, questa, la prima riorganizzazione d’insieme della propria scrittura compiuta da Wright, che ha periodicamente ricomposto i suoi libri in macrotesti per chiudere diversi approcci stilistici e fasi della sua scrittura. Ma questo elegante e imponente volume ci mette ora davanti uno dei più straordinari risultati di una vita in poesia. In una recente intervista, Wright ha dichiarato che Oblivion Banjo sarà il suo ultimo libro e che due anni fa ha passato un’estate intera a scegliere i testi per questa sorta di ‘nuova’ raccolta creando, come suo solito, un disegno. Da sempre attento alla compiutezza formale (si ricordano le tre trilogy of trilogies in cui ha ridisposto la sua scrittura fino al 2000 ispirandosi alla Commedia di Dante), anche qui Wright richiama la nostra attenzione sulla struttura unitaria del volume organizzato per capitoli e sul disegno che questo nuovo schema suggerisce: una lenta ascesa verso il picco di una montagna e la discesa verso la sua base, dove tutto rallenta e si placa. Oppure, facendo fede alle parole del poeta, un treno che corre su un binario fitto di gallerie «heading down the line into the dark», ogni vagone un segmento della sua poesia, dagli esordi a oggi. Ecco allora che i testi tratti da Hard Freight e collocati all’inizio di Oblivion Banjo appaiono come delle dichiarazioni di poetica. Avvertono il lettore sul genere di poesia che si appresta a leggere e lo allenano all’arduo viaggio che l’aspetta quando entrerà nel vivo della sua scrittura con i bellissimi libri giovanili Bloodlines e China Trace, ancora legati al verso breve e asciutto alla maniera di Montale, ma già innegabilmente wrightiani per il ritmo musicale del verso, la varietà dei registri stilistici (dall’ieratico al popolare) e la presenza dell’autobiografico poeta-pellegrino in cerca di una strada che lo conduca verso una qualche rivelazione del mistero che avvolge ogni cosa visibile: «And what does it come to, Pilgrim, /This walking to and fro on the earth, knowing / That nothing changes, or everything / And only to tell it, these sad marks, /Phrases half-parsed, ellipses and scratches across the dirt?. / It comes to a point. It comes and it goes». La strada che Wright indica è tutt’altro che dritta e pianeggiante: ci sono molte ‘deviazioni’ verso, ad esempio, gli autori, gli artisti e i filosofi cui si rivolge per illuminare il suo percorso – da Dante, Dickinson, Rimbaud, Sant’Agostino e Kafka agli amati artisti Cézanne, Morandi e Rothko. A questa comunità di spiriti affini, pressoché immutata nel tempo, Wright dedica poesie che non sono più soltanto tributi o moniti rivolti a se stesso che lo esortano alla disciplina e all’umiltà, ma conversazioni con dei compagni di strada nella cui opera trova un avallo alla sua, una guida al suo percorso tutto umano e screziato di indecifrabili ‘schegge’ del divino. «There is no light for us at the end of the light. / No one redeems the grass our shadows lie on», dice al poeta medievale cinese Chi K’ang. E a Lapo Gianni (ricalcando l’attacco del noto sonetto di Dante): «Lapo, we’re all slow orphans under the cruel sleep of heaven…». Ci sono inoltre continue soste ogni volta che il viandante interrompe le sue rappresentazioni, fortemente pittoriche, di un paesaggio magico e misterioso per tentare di carpirne il significato, per meditare sulla vita e sulla morte: «I’m here, on the dark porch, restyled in my mother’s chair. / 10:45 and no moon. / Below the house, car lights /swing down, on the canyon floor, to the sea. / In this they resemble us, / Dropping like match flames through the great void / under our feet…», si legge in China Trace. Oppure per riflettere sul traguardo raggiunto alla fine di ogni decennio della sua vita: «At 40, the apricot/ Seems raised to a higher power, the fire ant and the weed. / And I turn in the wind, / Not knowing what sign to make, or where I should kneel». Oppure per recuperare frammenti del suo passato: «Here where Catullus sat like snow / Over the Adige the blooms drift /West on the west-drifting wind». Si procede anche per movimenti circolari, intorno allo scorrere dei mesi e delle ore del giorno, per cambiare prospettiva sulla meta ultima del suo destino e immaginare il suo ricongiungimento, dopo la morte, da non credente e in senso panteistico, con il mondo naturale e l’intero universo. Ecco l’inizio, sempre nella prima parte del libro, di Saturday 6 a.m: «The month gone and the day coming up like a bad cold / Insistent behind the eyes, a fine sweat on the mustard stalks. / There’s something I want to say, // […] I don’t move. I let the wind speak». Al centro, o in cima alla montagna, incontriamo i grandi poemetti degli anni Ottanta e il suo tipico verso prosastico, più sillabico che accentuativo, che si rompe in due lunghi emistichi graficamente separati: da un lato The Southern Cross, The Other Side of the River, Homage to Paul Cézanne, i diari di Zone Journals, dove il passato, il presente e il mondo reale s’intrecciano alle meditazioni sulla poesia e su cosa significhi esistere nel tempo; dall’altro il negativo della vita, l’ultraterreno verso cui il viaggio di Wright tende con Chickamauga, Black Zodiac, Appalachia, i tre libri in cui il poeta immagina l’ultimo tratto della vita umana e dove il tema della morte è più che mai presente. Le poesie intitolate The Appalachian Book of the Dead, ispirate a Il libro dei morti egiziano e tibetano, compongono una sorta di guida al passaggio nell’aldilà, ambientata nella sua terra del sud-est americano. Nell’ultimo tratto del viaggio, il poeta-pellegrino si prepara all’ultima stazione della vita nei sei bellissimi libri dall’atmosfera sempre più visionaria e elegiaca scritti dopo il 2000. E fa un bilancio: «I’ve said what I had to say / As melodiously as it was given to me. // I’ve said what I had to say / As far down as I could go». Spiccano i poemetti A Short History of the Shadow, la serie intitolata Buffalo Yoga e Sestets, il libro di oltre settanta poesie di sei versi ciascuna. In questa sezione è riprodotto integralmente Littlefoot, forse il suo capolavoro di questi anni, un volume fatto di un’unica poesia in 35 parti scandite dalle stagioni e dai mesi nel corso del settantesimo anno del poeta, che ora torna ai suoi classici temi sullo sfondo del paesaggio del Montana e guarda alla propria vita e al mondo quasi da fuoriuscito. Il viaggio rallenta e ogni vibrazione sembra placarsi in Caribou, l’ultimo capitolo di Oblivion Banjo e una vera e propria elegia a se stesso e alla sua opera con lo sguardo rivolto all’eponima montagna nello stato del Montana, qui traslata in una sorta di monte del Purgatorio: «No darkness steps out of the woods, /no angel appears. / I listen, no word, I look, no thing. / Eternity must be hiding back there, it’s done so before … ». Per chi ha familiarità con la poesia di Wright leggere Oblivion Benjo sarà come rivisitare una città conosciuta e ritrovarne la topografia attraverso i luoghi, ricostruiti sul filo della memoria, che fanno parte della mitografia wrightiana: Venezia, Verona, i paesi intorno al Lago di Garda, il nord-est italiano e Kingsport dove è cresciuto, Charlottesville dove abita da molti anni, il sud-est americano, il Montana; sarà l’occasione per ritrovare quella metafisica del quotidiano alla base della sua scrittura, ammirare gli splendidi notturni a cui il poeta anela ascendere, riconoscere il suo marchio stilistico, la musicalità della lingua, l’andamento liturgico dei versi e, nel sottofondo, i ritmi della musica country e bluegrass, il gospel e gli spiritual. Eppure, benché tutto sia familiare, ogni verso ritorna nuovo come se lo si leggesse per la prima volta, ogni poesia rimane meravigliosamente misteriosa benché tutto giunga assolutamente chiaro. È come se la sua lingua, sempre più vicina alla musica, si rinnovasse continuamente, e ogni lettura imponesse di ricominciare da capo. I titoli stessi delle singole poesie acquistano ora un nuovo ruolo e segnano una traccia per orientarsi nel viaggio che Oblivion Banjo invita a percorrere. La foto sulla copertina, opera della moglie fotografa, mostra il polpastrello di un dito su sfondo nero, la punta in dissolvenza coperta di polvere o granelli di sabbia: una trasposizione visiva e scaramantica di quell’oblio del suo canto verso cui Wright sente di avvicinarsi e, in sintesi, l’immagine della metafisica wrightiana per cui ogni cosa visibile contiene il suo impenetrabile mistero e, a chi cerca di sondarlo, rimanda soltanto uno spolverio di verità. «What’s up, grand architect of the universe?», chiede, occhi rivolti al cielo notturno, in una delle ultime poesie del volume facendo sfumare nell’umoristico, come spesso avviene nei suoi versi, il dramma dell’io poetico continuamente respinto entro i suoi limiti conoscitivi. Invitato nel 1996 da questa rivista a un convegno montaliano, parlando di traduzione, Wright disse che «[a] little ignorance is a good thing» quando si traduce. Questa raccomandazione vale, a mio avviso, anche per leggere e apprezzare la bellezza dei suoi versi, che non trattano delle stelle, ma sono, sottile ricamo di filigrana, «what’s between them». di Antonella Francini ¬ top of page |
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