« indietro IN SEMICERCHIO, RIVISTA DI POESIA COMPARATA LXV (2021/2) pp. 108-109 (scarica il pdf) LAURA LIBERALE, Unità stratigrafiche, Osimo (AN), Arcipelago Itaca, 2020, pp. 92, € 13,00 A tre anni di distanza dall’ultimo libro di poesia, La disponibilità della carne (Oèdipus, 2017), Laura Liberale firma un nuovo tassello della sua opera con Unità stratigrafiche, edito a fine 2020 per i tipi di Arcipelago Itaca nella collana “Lacustrine”, diretta da Renata Morresi. Se il libro precedente prendeva il titolo da una citazione del Libro rosso di Carl Gustav Jung – la «disponibilità della carne» è ciò che desidera «l’essere morto che gridava più forte, che stava più in basso e attendeva, quello che soffriva più crudelmente», un desiderio che sostituisce la più tradizionale, e certamente più cruenta, antropologia del sacrificio – Unità stratigrafiche sembra affrontare ancora, seppure con maggior levità, la «verità e responsabilità delle parole», dichiarata da Liberale sempre nella bandella del libro precedente.
Anche in questo caso, la scrittura poetica di Liberale si confronta con la morte facendosi apparente scudo dei saperi attraversati dalla sua professionalità scientifica e, in realtà, aprendo costantemente la propria scrittura alla più estrema delle esposizioni possibili nei confronti del silenzio che è fra tutti il più risuonante. Liberale, infatti, è indologa (ne La disponibilità della carne sono assai frequenti le citazioni dei testi sacri in lingua sanscrita, in un serrato dialogo con i testi poetici dell’autrice) e tanatologa (nelle Unità stratigrafiche è esplicitamente citato il lavoro condotto da Liberale nell’unità GRIM, Gruppo di Ricerca Italiano sulla Medianità): in entrambi i casi, tuttavia, questo sapere specialistico non soverchia il testo, aprendolo, anzi, verso nuovi esiti, capaci di rimettere in discussione tanto la costituzione di tali saperi come “specialistici” quanto la scrittura poetica, spesso caricata di valori assoluti, e in modo mistificatorio, dai suoi praticanti contemporanei superficialmente più laici e disincantati. Si tratta, in ambito poetico, di medianità non del tutto autentiche, simili ai marsupiali dei quali parla Elias Canetti nel Libro della morte, puntualmente citato da Liberale: «Una popolazione di esseri umani con marsupio incorporato, che si portano in giro i loro morti raggrinziti dentro tasche da canguro» (p. 38). In questo caso, Liberale arriva, per il tramite di un lieve understatement, ai toni dell’invettiva: «pare che i morti entrino nella mano dei vivi / per scrivere a precipizio i loro testi // sempre gli stessi i contenuti: / il senza tempo, ricongiungersi, l’estinzione del dolore» (p. 20). Se si trattasse di pura e semplice polemica letteraria, tuttavia, sarebbe una questione, forse, di poco conto: Liberale ne è perfettamente consapevole e ne fa invece una questione conoscitiva più ampia, chiamando in causa quel «commercio tra i vivi e i morti» (p. 10) che invece è ancora possibile, in particolar modo nelle zone interstiziali frequentate dagli «appena morti» (p. 17) e dai «morenti» (p. 18). In fondo, la poesia è ancora e sempre rivisitazione del racconto di Orfeo e Euridice – riscrittura ancora oggi possibile, e non soltanto nel segno del femminile che è tipico del secondo personaggio, tradizionalmente bistrattato, ma anche, forse soprattutto, nel segno del paradosso: «il cuoio delle scarpe dei morti è cedevole / perché non desistano dal tornare sui loro passi / nella nostra direzione» (p. 15). Se altri sono I Mezzi – a loro è dedicata la sequenza finale della prima sezione, il cui titolo generale è, invece, chiaramente legato alla necessità di una dichiarazione di poetica, proponendo la categoria (comunque, più a carattere creativo che non tassonomico) della Tanatoestetica – ciò non serve tanto a censurare gli «smaniosi di parlare» (p. 48) anche al cospetto della morte, quanto a cercare di captare la «frequenza dei morti» che è, sempre sul filo di un fecondo paradosso, «onnisuono inaudibile» (p. 52). Parallelamente a questo “onnisuono”, il sintagma “un Mezzo” diventa, qui, eco anaforica tra testo e testo che, come altre soluzioni formali nel libro – si veda il dialogo, per nulla didascalico, tra testo poetico e nota in fondo alla pagina (riferita ora a un evento aneddotico, ora a dati scientifici) della terza sezione – contribuiscono a un effetto di risonanza più generale, che attraversa tutto il libro. Si tratta, fra l’altro, di un accenno a una possibile struttura poematica che, a dispetto delle occasionali inserzioni di forme testuali eterogenee, tende a unire i brevi testi – “lapidari”, forse, e questo al di là della loro sinteticità o della loro carica gnomica – in un unicum inevitabilmente sostenuto anche dalla possibilità, per quanto embrionale e frammentaria, del canto. (Sostenuto, ancora una volta, da Orfeo e Euridice, si potrebbe dire.) Tra “i Mezzi”, infine, si affaccia il confronto con Cartesio e il suo modello di razionalità scientifica: «un Mezzo parla di vibrazioni e pineale / al che tu scivoli via: / Cartesio, sì, ma soprattutto / la ghianda che tuo padre / al mare faceva calciare / a tua figlia per gioco» (p. 55). Cartesio diventerà, poi, una sorta di buffo lupus in fabula nella seconda sezione, Animal-Animot-Animort, triade che certamente richiama l’animot, e anche l’animort, proposti da Jacques Derrida nel saggio L’Animal que donc je suis (L’animale che dunque sono, 2002), ma che esplicita anche un’altra triade – “male/parola/morte” – di fondamentale importanza nella poetica dell’autrice. A proposito di Derrida, Liberale scrive: «quando il gatto di Jacques Derrida fu sul punto di morire / guardò quell’uomo che gli era capitato in sorte / e percepì in lui un disagio ben diverso / da quello che fiutava se Jacques si ritrovava / nudo al suo cospetto» (p. 59), suggerendo come la morte animale (più che “dell’animale”) resti, tutto sommato, un impensato anche in quella riflessione di Derrida che, comunque, era già portatrice di novità rispetto all’“animale povero di mondo” (weltarm) di Heidegger. In ogni caso, sarà soltanto con il successivo ritorno a Cartesio, con il testo intitolato Stralci di ciò che Monsieur Descartes, in punto di morte e solo parzialmente lucido, disse a Monsieur Grat (p. 72) – con gli immaginari frammenti, cioè, di quello che Cartesio ha forse detto, negli ultimi istanti di vita, al cane da lui sempre amato – che Liberale costruirà in modo più esplicito, e decisivo, quella pietas che, in realtà, accompagna discretamente ogni sguardo verso e dai territori della morte presente nel libro. Come mostra anche la terza e conclusiva sequenza, Fuori sezione, infatti, si tratta di una pietas che è insieme post-umana e umana, umanissima, e che trova la sua scena apicale nella veglia animale per la morte di un ragazzo poco più che ventenne – tragedia di per sé insuperabile, attraverso molte culture e biologie, delineata qui con estrema delicatezza: «il cane si sdraia sulle gambe del ragazzo / non lascia avvicinare nessuno // la distanza tra un corpo vivo e un corpo morto / la copre il suo vigilare» (p. 87). di Lorenzo Mari ¬ top of page |
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