« indietro NAHID NOROZI, Alcune note sulla quête amorosa nelle opere di Dante e del poeta persiano Ne?ami* *Questo articolo costituisce una rielaborazione di un intervento presentato a un convegno internazionale su Dante e Ne?ami in occasione del settecentesimo anniversario di Dante: Cross-Cultural Matches: Nizami and Dante, che ha avuto luogo da remoto, nei giorni 7-9 ottobre 2021, in collaborazione con le Università di: Baku, Napoli, Roma, Milano, Siena, Vercelli, Torino e Pisa.
Premessa Ne?am al-Din Abu Mo?ammad Elyas, conosciuto come Ne?ami Ganjavi (1141-1209 d.C.)[1], poeta persiano nato e morto a Ganja nell’attuale Azerbaijan, è autore di un celebre quintetto di mathnavi ovvero poemi, conosciuti come i “Cinque tesori” (in persiano: panj ganj o khamsé) in distici a rime baciate. I loro titoli in ordine cronologico sono i seguenti: Makhzan al-Asrar (‘L’emporio dei segreti’) un poema etico-filosofico, una sorta di specchio per principi, con venature misticoreligiose[2]; il Khosrow o Shirin (‘Khosrow e Shirin’), il romanzo di cui ci occupiamo nel presente articolo; il Leylà o Majnun (‘Leylà e Majnun’), dal nome della coppia protagonista, un altro romanzo dai toni misticheggianti; il Haft peykar (‘Le sette effigi’) di tono epicoromanzesco; l’Eskandar-namé (‘Il libro di Alessandro’) di carattere epico-sapienziale che racconta la versione persiana delle gesta di Alessandro il Macedone[3]. La fortuna di questo celebre “Quintetto” sarà tale che s’imporrà come modello nelle lettere persiane per gli autori dei secoli successivi[4]. La sua centralità nel canone letterario persiano è, si potrebbe dire, paragonabile a quella dei cinque poemi di materia bretone di Chrétien de Troyes nelle lettere medievali europee[5]. Questo studio è svolto dalla prospettiva di un’iranista che legge Dante, la quale è ben conscia della complessità del confronto tra Dante e Ne?ami, come ben sottolineava anche Carlo Saccone in un recente intervento[6]. In questo lavoro, ci concentreremo solo su uno dei cinque poemi suddetti ossia il Khosrow e Shirin[7] (d’ora in poi abbreviato in KHSH) in cui si narra la storia, già presente nello Shah-namé (‘Il Libro dei Re’)[8] del poeta epico persiano Ferdowsi (940 – 1019/25 ca.)[9], della celebre coppia di amanti formata dal re sassanide Khosrow II (reg. 590-628) e la bella principessa armena Shirin. Il diario degli incontri di Dante con la sua Beatrice come sappiamo è poeticamente trascritto nella Vita Nuova e continua poi nella grande struttura della Commedia dove il poeta-pellegrino incontra nuovamente l’amata, da tempo defunta, alle soglie del paradiso. Ne?ami non possiede un analogo diario della sua vita sentimentale, e del resto il diario sentimentale è un genere pressoché sconosciuto alle lettere persiane sino al Novecento, ma sappiamo che la prima moglie Apaq o Afaq – una schiava kipchaka che Ne?ami ebbe in dono dal governatore di Darband – era stata affrancata dal poeta e, anche lei, come Beatrice, era morta prematuramente. Afaq non avrà quella posizione centrale che occupa Beatrice nella genesi delle maggiori opere dantesche; tuttavia l’ex schiava kipchaka un ruolo lo avrà nella genesi quantomeno di un personaggio, la bella Shirin, protagonista assoluta del più celebre dei cinque mathnavi di Ne?ami, ossia il KHSH.[10] Nella parte finale del romanzo, dal sapore scespiriano ante litteram, che si conclude tragicamente con il suicidio di Shirin accanto al cadavere del marito re Khosrow ucciso da un sicario mandato dal suo stesso figlio (avuto da un precedente matrimonio), Ne?ami, rivolgendosi al proprio pubblico, ha queste parole rivelatrici:
O lettore, tu che hai tratto consiglio da questa storia, che cosa pensi? Che fosse solo una favola?»[12]
Certamente qui Ne?ami rivendica la storicità dei personaggi della sua storia, il principe Khosrow Parviz, sovrano dell’ultimo periodo sassanide e la bella Shirin, ma è lecito pensare che Ne?ami intenda anche altro, infatti ecco come il brano prosegue:
È una storia questa che fa scorrere lacrime, che fa spargere amara acqua di rose per Širin, il cui destino fu una vita breve: come rosa andò al vento nei giorni della giovinezza. Širin aveva il passo leggero come il mio idolo del Qebcaq, si può immaginare che fosse proprio come la mia Afaq: affascinante, sagace, baciata dalla sorte, arrivata fino a me grazie al governatore di Darband. Casta e pura […] aveva il potere di rimproverare i grandi e concesse a me di condividere il cuscino del matrimonio. Ohimè, come capita alle belle turche, dovette abbandonare presto il mondo, ma essendo turca, aveva già saccheggiato [[14]] ogni mio bene…[15]
Il testo dice chiaramente che la prematura morte di Shirin, la protagonista assoluta del KHSH, ricorda al poeta la morte in giovane età dell’amata Afaq. Ma Ne?ami trae dal confronto tra Shirin e Afaq altri precisi parallelismi. Egli dice che Shirin: «si può immaginare che fosse proprio come la mia Afaq: affascinante, sagace, baciata dalla sorte… casta e pura»; capace per il suo carattere integro e moralmente inflessibile “di rimproverare i grandi” senza alcun timore. Insomma lascia intendere che, così come Shirin non aveva peli sulla lingua con il suo re Khosrow – nel romanzo un amante incostante e alquanto superficiale – anche Afaq non ne aveva con suo marito, il nostro Ne?ami. Si potrebbe obiettare che il paragone è alquanto stiracchiato, in fondo Afaq è una ex-schiava mentre Shirin una principessa; ma si dovrebbe ricordare che il modello di Ne?ami era la Shirin dello Shah-namé di Ferdowsi, un’ancella-schiava del principe Khosrow, che Ne?ami riprende sì, ma anche letteralmente ri-scrive elevandola a condizione nobile-aristocratica. Come Ne?ami nella vita aveva affrancato Afaq, allo stesso modo, nella finzione letteraria, egli affranca l’ancella-schiava del poema ferdowsiano facendone la principessa armena Shirin (e in seguito anche regina), e la vera eroina del suo poema[16]. Tornando al confronto con Dante, la bella Afaq esattamente come Beatrice, resterà per sempre nel cuore di Ne?ami. Il poeta persiano non lo dichiara esplicitamente ma ella sarà il modello che “genererà” la figura di Shirin, la principessa armena sposata da Khosrow solo alla fine del romanzo.
1. Gli incontri e i relativi “meravigliosi” effetti Nella prospettiva di mettere a confronto Dante e Ne?ami, ci concentreremo tuttavia non sul principe Khosrow, bensì su un personaggio non protagonista del KHSH, ossia Farhad[17], e in particolare sulla sua casta liaison con Shirin. Il suo amore puro e sfortunato, come vedremo, nel poema nezamiano fa un po’ da controcanto alla passione non sempre sincera ma più fortunata di Khosrow, destinato a sposare la bella Shirin. Farhad è in effetti il secondo personaggio innamorato di Shirin in questo romanzo in versi, e la sua silente ostinazione è emblematicamente compendiata nel suo titolo di kuh-kan (alla lett.: che scava montagne/rocce). Il termine è stato variamente reso dai traduttori e dagli studiosi con “spaccapietre e geometra abilissimo” o “spacca-montagne” o “maestro costruttore” e persino con “scultore”[18], immagine comunque destinata a ispirare molti miniaturisti che lo ritraggono mentre scava nella montagna in due occasioni per amore della principessa Shirin. In breve ricordiamo solo che il principe Khosrow, ingelosito dalle attenzioni peraltro molto discrete di Farhad, fa recapitare a quest’ultimo la falsa notizia della morte improvvisa di Shirin, al che Farhad non vedendo ragione di vivere senza l’amata decide di porre fine ai suoi giorni gettandosi da una rupe[19]. Farhad nelle lettere persiane, a partire da Ne?ami, verrà presto elevato a modello di perseveranza e fedeltà, a eroe dell’amore casto e incondizionato sino all’estremo sacrificio. L’amore di Farhad è in sostanza un amore silente, egli parla raramente a Shirin, ma in una scena memorabile costruirà per lei un canale che fa giungere direttamente dai pascoli montani un fiume di latte sino al palazzo di Shirin che di quel latte aveva manifestato il desiderio. L’altra scena memorabile è quella di un teso colloquio con il principe Khosrow, a cui lo spaccapietre Farhad sa bene che non potrà mai sottrarre la bella Shirin, un colloquio da cui traspare la sua visione dell’amore e su cui ci soffermeremo più avanti.
Ma andiamo con ordine, cominciando dal primo incontro di Farhad con Shirin in cui, potremmo osservare pensando al primo incontro di Dante con Beatrice, i due protagonisti maschili sono talmente scossi e sconvolti che quasi svengono. Lo spaccapietre Farhad viene un giorno convocato a corte ed ecco che lo vediamo nella sala delle udienze mentre attende dietro a una tenda o velo:
Farhad […] pensava a quale gioco, il Cielo prestigiatore, avrebbe fatto saltare fuori da quel velo. All’improvviso il mondo sferrò un attacco crudele da dietro quella tenda, creando inganno ed illusione: entrò Širin ridendo dolcemente e le sue risa melodiose spargevano zucchero. Tolse dallo scrigno dello zucchero [=la bocca] i due lucchetti di rubino [=le labbra] e da quel rubino prese nutrimento lo zucchero stesso. […] Si raccontava infatti che il suo nome fosse Širin perché le sue parole erano incredibilmente dolci[21].
Insomma il potere seduttivo di Shirin comincia sin dalla sua voce, che colpisce gli animali come gli umani. Infatti, ascoltando la voce di Shirin, Farhad quasi sviene:
Quando quel dolce suono raggiunse l’orecchio di Farhad, subito il sangue ribollì di passione nel suo petto, sospirò profondamente, in preda all’agitazione, e cadde a terra come malato. Lì, steso a terra, scosso da tremiti, si contorceva come un serpente sbattendo il capo. […] Ascoltando quella voce soave e le dolci parole, l’intelletto di Farhad si ridusse in uno stato miserabile; certo, riusciva ad ascoltare i discorsi di Širin ma non era in grado di comprenderne il senso. […] interrogò i servitori su quanto era stato detto, poiché: «Io sono come ebbro e il cuore degli ebbri è come un cieco! […]»[23].
Nel poema di Ne?ami leggiamo che Farhad ogni settimana si recava al palazzo per salutare Shirin ed era «felice di ascoltare le sue parole»[24]. Anche Dante nel primo incontro è sconvolto alla visione di Beatrice e quasi sviene, così come egli ci racconta nella Vita Nuova:
Io tenni li piedi in quella parte de la vita di là da la quale non si puote ire più per intendimento di ritornare[25].
E, a proposito della dolcezza, anche nella Vita nuova la voce di Beatrice, quando per la prima volta saluta Dante, fa un simile effetto sull’innamorato Dante che ne è scosso. Nel suo racconto così descrive il momento “inebriante”:
[…] e passando per una via, volse li occhi verso quella parte ov’io era molto pauroso, e per la sua ineffabile cortesia, la quale è oggi meritata nel grande secolo, mi salutò e molto virtuosamente, tanto che me parve allora vedere tutti li termini della beatitudine[26].
Questa impressione violenta che allo stesso tempo ricolma il poeta di infinita dolcezza e “beatitudine” induce Dante a isolarsi dalla gente, a fuggire il volgo, infatti il brano così continua:
[...] quella fu la prima volta che le sue parole si mossero per venire a li miei orecchi, presi tanta dolcezza, che come inebriato mi partìo da le genti, e ricorsi a lo solingo luogo d’una mia camera, e puòsimi a pensare di questa cortesissima[27].
In entrambi l’ascolto della voce dell’amata è di per sé sufficiente a provocare tanto sconquasso nell’anima e nel cuore. In Farhad l’effetto è, se possibile, ancor più sconvolgente. Quando Shirin, in segno di gratitudine per aver terminato di costruire il summenzionato canale per lei, dona allo spaccapietre un gioiello, ecco che Farhad non riesce a reggere l’emozione della sua presenza e sconvolto prende la via del deserto allontanandosi dalla gente:
Farhad elogiò quel tesoro, lo prese dalle sue mani e lo depose ai suoi piedi. Da lì poi, velocissimo prese la strada del deserto, inondando di lacrime la pianura che divenne un mare [...] si allontanò dal consesso degli uomini[29].
Questa fuga di Farhad nel deserto, dove egli trova quella solitudine che Dante trova nel “solingo luogo di una mia camera”, non può non rievocare la parallela vicenda di Majnun, altro personaggio nezamino folle di un amore casto e sfortunato, che fugge nel deserto nell’altro poema romanzesco di Ne?ami, il citato Leylà e Majnun[30], su cui non possiamo qui intrattenerci. Ma la dolcezza di modi e la inebriante presenza dell’amata non influiscono solo sui rispettivi innamorati. Entrambi i poeti parlano diffusamente anche delle impressioni riportate da altri spettatori dinanzi alla “mirabil visione”. Dante, nel celebre sonetto Tanto gentile e tanto onesta pare ci dice che Beatrice:
Mostrasi sì piacente a chi la mira, che dà per li occhi una dolcezza al core, che ’ntender no la può chi no la prova:
e par che de la sua labbia si mova un spirito soave pien d’amore, che va dicendo a l’anima: sospira[31]
Vediamo adesso come descrive Ne?ami l’effetto della dolcezza di Shirin su chi la incontra: Si raccontava che il suo nome fosse Širin perché le sue parole erano incredibilmente dolci. E potrei dire, di tanta dolcezza, tutto quello che vuoi, perfino che al suo suono si addormentavano pesci e uccelli! […] Ad ogni assemblea in cui Širin dischiudeva le labbra, non c’era persona che non abbandonasse l’anima a quella melodia e a chiunque giungessero le sue parole all’orecchio, fosse stato anche Platone, quello perdeva il senno[33].
Si nota tuttavia una differenza, Beatrice colpisce la vista e l’udito dei suoi ammiratori, là dove Ne?ami preferisce, in questo specifico contesto, concentrare i miracolosi effetti prodotti da Shirin sul solo udito degli ammiratori, ma sono nondimeno effetti strabilianti: “non c’era persona che non abbandonasse l’anima a quella melodia” e chiunque fosse presente “perdeva il senno”[34].
2. L’amore spirituale
Ogni volta che era ospite di quella bella luminosa, Farhad si negava alla vista di lei e si teneva lontano[37]. Riferimenti simili sono numerosi nella storia di Farhad e Shirin, vediamone un altro esempio, questa volta non è attraverso la voce narrante che si esprime la stessa idea, bensì attraverso quella di Farhad che si rivolge dentro di sé all’amata: Brucio nell’amore per te, ma da qui, da lontano, perché la farfalla non può resistere alla luce abbacinante del sole[39]
Ancora in un altro punto saliente della storia di Farhad e Shirin, si riscontra questa volontà di Farhad di amare da lontano la sua amata, in particolare nella mona?eré ossia nella tenzone che egli ha con Khosrow. Il geloso re Khosrow si è accorto del silenzioso legame tra la sua Shirin e Farhad, e decide di affrontare il rivale, metterlo alla prova e capire la natura di questo amore, per cui così gli si rivolge:
[Khosrow] gli chiese: “E se non trovi una via verso di lei? / Rispose [Farhad]: “Da lontano si conviene guardare alla luna” [Khosrow] gli disse: “[Ma] tenersi lontani dalla luna non è cosa opportuna! / Rispose [Farhad]: “Meglio da lontano esser sconvolti dalla luna”[41].
Una risposta sorprendente e poetica che certo parte dall’ovvia considerazione che Farhad è ben conscio della incolmabile differenza di status tra lui e la bella principessa, ma non solo. Questo guardare la donna come si guarderebbe la luna, ossia da lontano, sintetizza magnificamente l’inattingibilità dell’oggetto della passione e, allo stesso tempo, la piena liceità della passione dell’umile Farhad che ne è rimasto “sconvolto” (ashofté). Una situazione in fondo non lontana da quell’ “amore da lontano” (amor de lonh) teorizzato e praticato dai trovatori così come, mutatis mutandis, da tanti lirici persiani che cantano entusiasticamente le bellezze di un inattingibile amico; o anche dai poeti arabi della tradizione ‘udhrita[42] che culminerà nella celebrazione del folle d’amore per antonomasia: Majnun, il casto innamorato della bella e inattingibile Leylà. A questa inattingibilità strutturale dell’amata, Dante aggiunge due aspetti particolari, ossia, da un lato egli sublima/spiritualizza la donna amata elevandola «oltre la spera che più alta gira»[43], cioè sino al livello degli angeli: Beatrice è «venuta da cielo in terra a miracol mostrare»[44], egli dirà nel famoso sonetto; dall’altro, la donna così trasfigurata, per il suo poeta-amante si fa agente e dispensatrice di “beatitudine”: non a caso l’amata di Dante si chiama Beatrice “colei che beatifica” e anzi, ci dice Dante, ella è colei che «imparadisa la mia mente»[45]. Tornando a Ne?ami, la protagonista femminile del suo romanzo, Shirin, certamente nasce da una idealizzazione di Afaq, la summenzionata moglie del poeta persiano, che, come Beatrice, era prematuramente scomparsa, ma essa non risulta affatto “angelicata” come lo è Beatrice già nella Vita Nuova e ancor più nella Divina Commedia. E tuttavia in entrambi i poeti le due donne, Beatrice e Shirin, condividono in varia misura tratti che trascendono la realtà terrena, sono aureolate da una sacralità che impedisce a chi non ha “cor gentile” di avvicinarle. Non a caso lo stesso re Khosrow dovrà penare sin quasi alla fine del poema, “purificarsi” e rendersi degno[46] prima di potersi unire alla sua Shirin, e in fondo la sua furente gelosia per il silente Farhad nasce dall’intuizione (o l’intimo sospetto) che il cuore di Farhad, più “gentile” e nobile del suo, potrebbe aver fatto breccia in Shirin. Questo tratto di spiritualizzazione crescente della donna amata è senza dubbio più marcato in Dante che in Ne?ami, dopotutto Shirin – a differenza della Beatrice della Vita Nuova e del Paradiso – è ritratta in tutta la sua concretezza umana e terrena; Ne?ami in compenso – e qui sta la sua magistrale intuizione narrativa – quasi a voler riequilibrare una storia che altrimenti non avrebbe avuto altro protagonista maschile se non l’irruento e carnale re Khosrow, ha scelto di spiritualizzare l’amore di Farhad, figura che egli concepisce con caratteri vistosamente misticheggianti. Lo possiamo constatare in molti punti della storia attraverso vari indizi disseminati qua e là, ad esempio nel teso e fitto dialogo tra Khosrow e Farhad, cui si è fatto cenno sopra, e su cui vale la pena ora soffermarsi. Vediamo dunque alcuni tra i versi più significativi di questa “tenzone” inserita nella storia di Farhad e Shirin: Per prima cosa Khosrow gli disse: “Da dove vieni?” Rispose Farhad: “Dal regno della Conoscenza” Chiese: “In quel regno a che arte ci si dedica?” Rispose: “Si compra dolore e si vende l’anima.” Chiese: “Non è cosa buona vendere l’anima.” Disse: “Non è cosa che stupisca i devoti all’amore.” Chiese: “Fu col cuore che ti innamorasti a tal punto?” Rispose: “Tu dici col cuore, io dico con l’anima.” Chiese: “Com’è per te l’amore per Širin?” Rispose: “Sempre in aumento nella mia anima sottile”[48]. Ecco, l’insistenza a proposito della superiorità dell’anima (jan) sul cuore, che è pur sempre luogo per eccellenza della ricezione del sacro nella tradizione mistica islamica, vuole sottolineare la natura tutta spirituale piuttosto che terrena dell’amore di Farhad per Shirin. Va tenuto presente inoltre che il termine jan in persiano significa, oltre che ‘anima’ o ‘spirito’, anche ‘vita’. E si noti ancora, sin dall’incipit, lo stretto legame tra amore e conoscenza/intimità (ashna’i): dice infatti Farhad “[Vengo] dal regno della Conoscenza…[dove] si compra dolore [amoroso] (anduh) e si vende l’anima”.
Questo essere votato a un amore tutto sublimato per Shirin si riscontra ad esempio anche nel dichiarato rifiuto in Farhad della gioia dell’incontro amoroso e nella ricerca ostinata del dolore/nostalgia (gham/anduh) passionale che conduce alla follia: Farhad con forza allontanava dal suo cuore ogni attimo di gioia che l’avrebbe separato dal dolore d’amore mentre, con totale abbandono, accoglieva senza riserve la sofferenza come intima compagna. […] A tal punto si era identificato con la dedizione all’amata che non era più in grado di distinguere se stesso da lei …[50]
Passo rivelatorio. Qui sottostante è la distinzione, cara ai lirici persiani tra dard/gham/anduh (quasi sinonimi) ossia dolore amoroso o nostalgia causata dalla separazione o lontananza dall’amata, e nesha? (‘gioia/ delizia’) che invece rimanda, in questo contesto, all’idea di un amore pieno o realizzato. L’attaccamento di Farhad al dard ossia passione/dolore denuncia in modo palese il carattere misticheggiante del personaggio che – esattamente come il mistico sufi – ama pur nella dura ineluttabile necessità della separazione dal divino Amato, insomma preferisce la sofferenza amorosa (dard) alla gioia dell’amore[51]. Non meno lampante è il significato della dichiarazione finale di Farhad che afferma, similmente a quanto fanno innumerevoli mistici sufi al culmine delle loro estasi, di non riuscire più a “distinguere” se stesso da Shirin, ovvero l’amante dall’amata. L’affermazione di Farhad è perfettamente in sintonia con quanto si legge in alcuni aneddoti dei mathnavi di autori di schietta impronta mistica come ‘A??ar o Rumi in cui l’amante, proprio come Farhad, sperimenta una forma di estasi amorosa caratterizzata dalla percezione di una “con-fusione” tra sé e l’amata.
3. Dinanzi alla morte
Leggiamo ora il passo in cui re Khosrow viene a sapere dell’amore silente di Farhad per Shirin: Uno dei confidenti di Khosrow così racconta di Farhad: “[…] ciò che so è che la sola vista di [Shirin], quella luna senza legami, lo rende contento ed egli non desidera altro che dimenticarsi di sé, tanto il pensiero di quella dal corpo d’argento è sempre presente in lui[55].
Questo “dimenticarsi di sé” rivela appieno, si direbbe, il senso dell’amore di Farhad e della sua differenza incolmabile con la più terrena passione del rivale re Khosrow: l’unione cui aspira Farhad è quella in cui esiste solo l’amata, in cui il senso dell’esistenza è determinato dalla presenza di lei, dopo l’auto-estinzione dell’amante, dopo la sua “morte”. Non a caso – e vengo all’ultima parte – la tematica della morte è onnipresente nella storia di Farhad. Leggiamo in proposito questo commento di Ne?ami, che qui sembra rivolgersi al suo uditorio come un maestro sufi farebbe con i suoi discepoli: In amore, dunque, bisogna essere come Farhad, essere felici di morire quando è il momento[57].
Essere come Farhad, si noti bene, non come Khosrow! È un tema, questo della morte, che per la sua centralità nelle opere di Dante e Ne?ami meriterebbe forse un saggio a parte. Ci limitiamo qui a osservare che il forte legame tra l’amore e la morte nella storia di Farhad non può certo sfuggire. Lo troviamo sin da prima dell’epilogo tragico, quando Ne?ami ci dice: Il suo cuore [ossia il cuore di Farhad] mostrava le lacerazioni di cento ferite e la sua anima non desiderava che la morte[59].
Allargando un po’ il discorso, questo legame affonda nella tradizione islamica che ricorda un detto attribuito al Profeta dell’Islam che dice: “Colui che amando si mantiene sempre casto, muore martire”. E inevitabilmente questo ci riporta alla grande tradizione araba dell’amore ‘udhrita, che si nutriva dell’idea di un amore casto ed esclusivo fino alla morte[60], ricordato anche dal poeta tedesco Heinrich Heine nella raccolta Romanzero (1851), nel poema Der Asra, in cui egli cita la tribù araba degli Asra, ossia gli ‘Udhrà (Udriti), parlandone come coloro che muoiono quando amano: «... jene Asra / welche sterben wenn sie lieben ». Nel Farhad di Ne?ami riecheggia nitidamente e potentemente tutta questa tradizione arabo-islamica, rivitalizzata dal concetto specificamente sufi dell’autoestinzione (fana) in Dio del viandante o iniziato mistico. Ci si potrebbe chiedere a questo punto: se per Ne?ami la bella Shirin incarna nella finzione poetica l’amata Afaq, in che misura il grande poeta di Ganjé si auto-proietta nella figura di Farhad? Prima di rispondere, andiamo a vedere l’episodio che segna l’esito tragico della vicenda di Farhad. Quando Khosrow constata la determinazione di Farhad nell’amore verso Shirin e la forza indomabile del suo desiderio, non vede altra soluzione che eliminarlo con uno stratagemma: così egli invia un messaggero «dal volto truce e dall’eloquio amaro»[61] per portare all’innamorato spaccapietre la falsa notizia della morte di Shirin, al che Farhad non regge l’emozione e muore precipitando da una rupe. Non è ben chiaro se muoia di crepacuore oppure di suicidio, ma Farhad ha comunque il tempo di dichiarare la forte volontà di seguire Shirin nell’aldilà: “Quando quelle parole giunsero all’orecchio di Farhad, egli cadde giù dalla cima della montagna e dal suo fegato si sollevò un vento freddo di morte come se un bastone gli si fosse conficcato nel fianco. Con gravi lamenti disse: ‘Mio Dio, quanto dolore ho dovuto sopportare, ora con quel dolore muoio senza aver goduto un attimo di pace. […] Se quello snello cipresso [che era Širin] è dunque finito sottoterra, come potrei non gettarmi quella terra sul capo? […] Se si spegne la lampada che illumina il mondo, come potrà il mio giorno non farsi per sempre notte? […] Raggiungerò Širin nel mondo del nulla, correrò veloce verso quel nulla!’ Urlò al mondo la sua sofferenza per Širin, baciò la terra in memoria di lei è morì[63].
La centralità della morte nella storia di Farhad è tale che si riscontra anche in altri momenti, un po’ come premessa o preannuncio dell’esito tragico, e persino nei pensieri passionali di Farhad. Ma al contempo attraverso di essa si sottolinea continuamente nel testo l’aspetto spirituale del suo amore per Shirin: Se dunque sopra la terra non riesco a separarmi dal dolore, allora andrò dentro alla terra per trovare la mia liberazione. Oh, che a nessun altro tocchi di perdere l’anima e la casa, che nessun altro debba vivere tanta amarezza! Il vento della morte mi trascina verso di te, Širin: no, ho sbagliato, è già la mia polvere che il vento solleva. Poiché tu esisti non occorre che io dica che cosa sono, a te appartiene il villaggio e lì dentro io non sono nessuno, non ha senso dire: ‘io sono, tu sei’ perché in quel caso si tratterrebbe già di idolatria![65]
Ancora parole inequivocabili e che ci ricordano come per il mistico sufi nella sua relazione con l’Amato divino la parola “due” sia blasfema: esiste solo “uno”, l’essere amato – Dio – per cui appunto «non ha senso dire: ‘io sono, tu sei’». Per quanto riguarda Dante, nel capitolo XXIII della Vita Nuova egli ci racconta di un sogno in cui ha una specie di visione/allucinazione: gli appaiono donne scapigliate che gli dicono:
«Tu pur morrai»; e poi, dopo queste donne, m’apparvero certi visi diversi e orribili a vedere, li quali mi diceano: «Tu se’ morto».
E nel prosieguo, a Dante sembra che un amico venga a dirgli: «Or non sai? La tua mirabile donna è partita di questo secolo.» Al che Dante scoppia in lacrime, e poco dopo dichiara di voler seguire Beatrice nel luogo in cui si trova nell’aldilà, similmente a come aveva fatto Farhad per l’amata alla falsa notizia della sua morte:
«Dolcissima Morte, vieni a me, e non m’essere villana, però che tu dei essere gentile… Or vieni a me che molto ti desidero; e tu lo vedi, ché io porto già lo tuo colore».
È un desiderio che diventa il tema dominante di questo intenso delirio macabro: Dante deve raggiungerla, uscire dal mondo, se è la Morte che ancora lo separa da lei. E lo farà, ma non come ha fatto Farhad, suicidandosi, bensì la seguirà in un altro modo: attraverso l’arte, nel mondo della fantasia, nella sua Commedia. E come dice Gilson: «Per riuscirci occorreva istruirsi sul paradiso, gli angeli, i beati, insomma su tutto ciò che i filosofi e i teologi possono insegnarci sui misteri dell’altro mondo».[66] Quindi si prenderà tutto il tempo per creare un’opera unica in cui collocare la sua amata, e nella quale andrà a visitarla appunto “uscendo dal mondo”, sia pure nella finzione letteraria, e facendone come sappiamo la propria guida nel Paradiso.
Ma proviamo ora a rispondere alla domanda che ci eravamo posti: in che misura Ne?ami si proietta nella figura così intensamente di stampo ‘udhrita di Farhad? Qui s’impone il parallelo con la vicenda amorosa di Dante. Sappiamo che Dante negli anni dell’esilio e fino alla fine avrà in mente un solo amore, quello di Beatrice morta anzitempo e da lui angelicata e intronata nel Paradiso, ma sappiamo pure che questo non gli impedì di sposarsi e di avere figli con una comune mortale; Ne?ami avrà altre due mogli dopo la scomparsa dell’amatissima Afaq da cui peraltro aveva avuto un figlio e che, come ci lascia intendere il passo citato dal poema KHSH (v. supra), rimase l’amore della sua vita. Ecco, i due poeti non furono certamente degli asceti e anzi furono pienamente calati nel loro secolo, ma entrambi condivisero tensioni spirituali sia pure in varia misura e diverse modalità. Si potrebbe dire che l’aspetto “‘udhrita” della vita sentimentale dei due emerge in tutta la sua portata dopo la morte delle loro amate, idealizzate rispettivamente in Shirin per Ne?ami e Beatrice per Dante. Tale trasporto spirituale fruttificherà largamente nella fantasia poetica dell’uno e dell’altro poeta sino a fornire loro l’ispirazione per creare il personaggio centrale, il protagonista assoluto, dei rispettivi capolavori.
Ma tornando al tema dell’auto-proiezione di Ne?ami, ci si potrebbe chiedere se proprio questa esigenza abbia determinato il poeta a creare, inventare di sana pianta, la figura di Farhad, personaggio assente nello Shah-namé di Ferdowsi[67] in cui pure, come abbiamo già accennato, si narrava la storia di Khosrow e Shirin, opera che risulta forse la fonte più importante di Nahid Norozi Ne?ami nel comporre il suo KHSH. Come sappiamo, Ne?ami non è affatto tenero con il re Khosrow, di cui sottolinea a più riprese il carattere irruento, superficiale, a volte frivolo e portato all’infedeltà in amore (respinto per l’ennesima volta da Shirin, egli, morta la prima moglie Maryam, sposerà un’altra donna, Shekar, per poi pentirsene ben presto). Ne?ami a un certo punto doveva aver sentito la necessità di contrastare la figura terra terra di Khosrow, che in fondo non meritava la sua meravigliosa Shirin/Afaq, con una controfigura dai caratteri più puri e nobili. Ed ecco che nasce così Farhad, l’anti-Khosrow verrebbe da dire, in cui è tipificato quell’amante ideale “all’ ‘udhrita”, e in cui il poeta doveva riconoscersi almeno dalla scomparsa dell’amata Afaq. E non a caso Ne?ami simpatizza vistosamente con Farhad, come appare per esempio in questo verso: «[…] Attento! Il caprone ha denti aguzzi e li ha proprio per mangiare la carne prelibata di chi è caduto nella trappola!».[68] Dove Ne?ami dà del “caprone” a re Khosrow alla vigilia del delitto che il re sta per organizzare inducendo alla morte Farhad, un verso da cui emerge non solo la simpatia per lo sfortunato spaccapietre ma anche un chiaro giudizio morale sul più fortunato e aristocratico rivale. In definitiva, Ne?ami – crediamo – in questo Farhad che in silenzio coltiva l’amore puro per Shirin, ha scientemente proiettato se stesso che in silenzio doveva continuare a vivere l’amore per la scomparsa amatissima Afaq; così come, analogamente, Dante doveva continuare a coltivare il suo amore per la scomparsa Beatrice ma, occorre dire, non rimanendo dietro lo schermo di un personaggio (a differenza di Ne?ami). Quest’ultimo però, non è l’unico schermo usato da Ne?ami: la sua Afaq non è certo pienamente sovrapponibile con Beatrice; anche il poeta persiano ha chiaramente inteso tenere viva la sua amata attraverso la poesia, ma appunto dietro lo “schermo” di Shirin. Come è ben noto, nella letteratura persiana medievale la donna amata, sposata o meno, non viene mai cantata/lodata e neppure nominata: l’amato/a rimane sempre una figura indefinita, anche grazie all’assenza di genere grammaticale nella lingua persiana che lascia nel vago persino il suo sesso[69]. Per cui se Ne?ami – almeno nel passo all’inizio citato – menziona per nome la sua Afaq, dicendo esplicitamente che Shirin era “come il mio idolo kipchako, si può immaginare che fosse proprio come la mia Afaq”, compie un atto coraggioso, rarissimo e anticonvenzionale, che corrobora l’ipotesi che Afaq fosse davvero la sua musa ispiratrice per il KHSH oltre che il chiaro modello di Shirin. E nel personaggio indimenticabile di Shirin egli l’ha davvero resa eterna, come fa da parte sua Dante con la Beatrice sua guida celeste. Anche se Shirin/Afaq non è certamente quella donna angelicata e dalle connotazioni soprannaturali che è la Beatrice della Commedia, Ne?ami attraverso il suo alter ego, l’adorante Farhad, ne ha fatto davvero l’angelo unico e adorabile della sua anima.
Infine, per concludere, citiamo alcuni versi di Ne?ami tratti da un lungo brano, quasi un inno all’amore, in cui si coglie la centralità cosmica ed esistenziale che esso doveva avere per lui: Il cielo stesso ha nell’amore il suo mihrab e il mondo non vale nulla, privo del territorio dell’amore; renditi dunque schiavo dell’amore giacché la conclusione è questa, che tale è il compito degli uomini dotati di cuore. Il mondo è amore e tutto il resto non è che ipocrisia, illusione e cosa senza valore, giacché se non fosse l’amore l’anima del mondo chi potrebbe sopravvivere alle rotazioni dell’universo?[71]
Parole particolarmente consonanti con la concezione dell’amore in Dante, compendiata nel celebre verso che suggella la Commedia:
L’amor che move il sole e l’altre stelle. [1] Su Ne?ami esiste una vasta bibliografia, impossibile da elencare nella sua interezza in questa sede, tuttavia citiamo alcuni studi più noti, a cominciare dalla rassegna bibliografica sul poeta: A.Q. Radfar, Ketab-shenasi-ye Ne?ami-ye Ganjavi [‘Bibliografia di Ne?ami di Ganja’], Mo’assese-ye mo?ale‘at va ta?qiqat-e farhangi, Tehran 1371/1992; gli altri studi sono: A. J. Arberry, Classical Persian Literature, Richmond, Curzon Press 19672, pp. 122-129; A. Bausani, La letteratura neopersiana, in Bausani A.; Pagliaro A., Storia della letteratura persiana, Milano, Nuova Accademia 1960, pp. 640-697; Rypka J., History of Iranian Literature, Dordrecht, D. Reidel Publishing Company 1968, pp. 210-213; A. M. Piemontese, Storia della letteratura persiana, vol. 1, Milano, Fratelli Fabbri 1970, pp. 108-116; P. Chelkoswki, s.v. «Ni?ami Gandjawi», in Encyclopaedia of Islam II (1995), vol. 8, pp. 76-81; K. Talattof e J. W. Clinton (eds), The poetry of Nizami Ganjavi: Knowledge, Love, and Rhetoric, New York, Palgrave 2000; J. C. Bürgel, “Il discorso è nave, il significato un mare”. Saggi sull’amore e il viaggio nella poesia persiana medievale, a cura di C. Saccone, Roma, Carocci 2006, pp. 25-29, 63, 149-224. Si veda inoltre J. C. Bürgel; C. van Ruymbeke (eds.), A Key to the treasure of the Hakim. Artistic and humanistic aspects of Nizami Ganjavi’s Khamsa, Leiden, Leiden University Press 2011.Infine segnaliamo l’opera del famoso comparatista e teorico russo che esamina in vari punti i poemi di Ne?ami: E. M. Meletinskij, Srednevekovyi roman. Proischoždenie i klassiceskie formy, Moskva, Nauka 1983, di cui esiste una traduzione italiana: Il romanzo medievale. Genesi e forme classiche, a cura di M. Bonafin, Macerata, EUM Edizioni Università di Macerata 2018 (cfr. i numerosi riferimenti a Ne?ami nell’indice dei nomi, p. 424). [2] La vena spirituale dell’opera è asserita fra gli altri da Na?eri Tazeshahri N., Tajalli-ye ‘erfan va ta?avvof dar Makhzan alasrar- e Ne?ami [‘La manifestazione della gnosi e del sufismo nell’Emporio dei segreti di Ne?ami’], in «Fa?lname-ye adabiyat-e farsi», n. 3 (1384/2005), pp. 166-190. Gli aspetti misticheggianti dell’opera sono visibili già a partire dai titoli di alcuni capitoli in cui compaiono termini tecnici e concetti di tipo spirituale-ascetico, come “isolamento/ritiro” (khalvat), “conoscere il cuore” (shenakhtan-e del), “nutrimento del cuore” (parvaresh-e del) e altri ancora; tuttavia secondo Bertels, questi “titoli che richiamano la sapienza del sufismo” sono lontani dalla “scolastica arida e astratta di Sana’i” – autore mistico del’XI sec. alla cui opera ?adiqat al-?aqiqa (‘Il giardino delle verità’) Ne?ami sembra si sia ispirato per il suo Emporio dei segreti – e “dei teorici sufi a lui vicini”. Quindi non si avrebbe, secondo Bertels, a che fare con un sufismo di tipo estatico bensì con quello della confraternita/corporazione degli Akhi a cui Ne?ami fu legato, la quale aveva «scopi assolutamente concreti, realizzabili su questa terra, mirati al miglioramento delle condizioni di vita della popolazione urbana e contadina. Secondo gli insegnamenti dei suoi maestri, Nizami accolse nella propria stilistica le forme tipiche della poesia sufi [...]», in E. Bertels, Il grande poeta azerbaigiano Nizami Ganjavi, trad. a cura di F. Pastore, Roma, Sandro Teti 2019, p. 71. [3] Per le traduzioni italiane delle opere dell’Autore si vedano: Nezami di Ganjè, Le sette principesse (Haft peykar), a cura di A. Bausani, Milano, Rizzoli 19822; Nezami, Il Libro della fortuna di Alessandro (Eqbal-namé), a cura di C. Saccone, Milano, Rizzoli 1997; Ne?ami, Leyla e Majnun (Leylà vo Majnun), a cura di G. Calasso, Milano, Adelphi 1985; Ne?ami, Khosrow e Širin. Amore e saggezza nella Persia antica, a cura di D. Meneghini, Milano, Ariele 2017. [4] Esistono varie imitazioni/rifacimenti della pentalogia di Ne?ami da parte di autori successivi, su cui rimandiamo a M. Rastegar Fasa’i, Khamse-sara’i dar adab-e farsi [‘Comporre quintetti di poemi nella letteratura persiana’], in «Ayine-ye mirath», n. 36-37 (1386/2007), pp. 243-257. Qui a mo’ di esempio e volendoci concentrare solo sul poema Khosrow e Shirin, tra i diversi studi, citiamo: P. Orsatti, s.v. «?osrow o Širin and its imitations», in Encyclopaedia Iranica (2006), leggibile online: http://www.iranicaonline.org/articles/kosrowo- sirin.html, e in persiano: Zolfagari ?., Yek?ad man?ume-ye ‘asheqane-ye farsi, [‘Centi poemi amorosi persiani’], Tehran, Charkh 1394/2015, pp. 276-320. [5] Si veda E. M. Meletinskij, Introduzione alla poetica storica dell’epos e del romanzo (tit. orig.: Vvedenije v istoriceskuju poetiku eposa i romana), Bologna, Il Mulino 1993, in particolare pp. 236-254. [6] C. Saccone, Alcune riflessioni su poesia e teologia in Dante e Nezami, in «Quaderni di Meykhane», XI (2021), pp. 1-12, qui pp. 1-2. [7] La traduzione italiana dell’opera da noi utilizzata, qui abbreviata in KHSH, è: Ne?ami, Khosrow e Širin. Amore e saggezza nella Persia antica, cit. [8] In italiano è disponibile una traduzione ottocentesca in endecasillabi sciolti degli oltre 50000 distici del poema, frutto di tre decenni di paziente lavoro del pioniere dell’iranistica italiana Italo Pizzi (a suo tempo lodato dal Carducci): Firdusi [Ferdowsi], Il libro dei Re, 8 voll., introduzione traduzione e note a cura di I. Pizzi, Torino, UTET 1886-88. La storia di Khosrow e Shirin in questa traduzione si trova nel vol. VIII, pp. 271-378. A proposito delle comparazioni tra la storia di Khosrow e Shirin di Ferdowsi e quella di Ne?ami vi sono vari studi di cui citiamo solo alcuni: E. Eqbali, Moqayese-ye dastan-e Khosrow vo Shirin-e Ferdowsi ba Ne?ami [‘Comparazione della storia di Khosrow e Shirin di Ferdowsi con quella di Ne?ami’], in «Pazhuhesh-e zaban va adabiyat-e farsi», nuova serie, n. 3 (1383/2004), pp. 125-136; Pakdel M., Moqayese-ye man?mueha-ye Khosrow vo Shirin-e Ferdowsi va Ne?ami [‘Comparazione dei due poemi di Khosrow e Shirin in Ferdowsi e Ne?ami’], in «Pazhuhesh-name-ye farhang 41 LXVI-LXVII 01-02/2022 Dante fuori di sé Nahid Norozi o adab» n. XIII (1391/2012), pp. 240-258; e A. H. Moghadam; A. Q. Ghavam, Ta?lil-e degarguni-ye shakh?iyat-e Shirin az revayat-e Ferdowsi ta revayat-e Ne?ami ba tekyé bar ‘ana?er-e goftoman-madar-e Shah-namé va Khosrow vo Shirin [‘Analisi della trasformazione della personalità di Shirin dalla narrazione di Ferdowsi a quella di Ne?ami sulla base degli elementi discorsivi dello Shah-namé e del Khosrow e Shirin’], in «Fa?l-name-ye matn-shenasi-ye adab-e farsi», IX, 4 (1396/2018), pp. 93-113 [9] Per una prima notizia sulla biografia e l’opera di Ferdowsi segnaliamo soltanto: A. Bausani, La letteratura neopersiana, cit., 359-61, 362-84, 421-3; A. M. Piemontese, Storia della letteratura persiana, cit. vol. 1, pp. 20-5; A. J. Arberry, Classical Persian Literature, cit., pp. 42-52; Khaleghi-Motlagh Dj., s.v. «Ferdowsi Abu’l Qasem», in Encyclopaedia Iranica (1999), leggibile online: http://www.iranicaonline.org/articles/ferdowsi-i. [10] Sui personaggi femminili e più in generale sulla figura della donna nelle lettere persiane, si veda N. Norozi, Esordi del romanzo persiano. Dal Vis e Ramin di Gorgani (XI sec.) al ciclo di Tristano, con una premessa di F. Benozzo, Collana “Il cavaliere del leone”, diretta da Andrea Fassò, Alessandria, Edizioni dell’Orso 20222, pp. 199-223; mentre per la centralità della figura di Shirin in Ferdowsi, Ne?ami e altri imitatori della storia di Khosrow e Shirin si veda T. Be?ari, Chehre-ye Shirin [‘La figura di Shirin’], Tehran, Entesharat-e Daneshgah-e Jondi Shapur 1350/1971. [11] Ne?ami Qomi Ganjavi, Khosrow vo Shirin, a cura di ?. Va?id- Dastgerdi, Tehran, Ebn-e Sina 1333-1954 (d’ora in poi: Khosrow vo Shirin), p. 429, v. 14. È significativo che il curatore Va?id-Dastgerdi, un poeta nazionalista, anteponga al cognome toponimico Ganjavi quello di “Qomi”, ossia della città di Qom situata nell’Iran centrale, per ribadire le origini persiane del Poeta e non azerbaigiane. In effetti Va?id-Dastgerdi precisa puntigliosamente Ne?ami-ye Qomi shahir be ganjavi (alla lettera: ‘Ne?ami di Qom conosciuto come di Ganjé’). [12]KHSH: Ne?ami, Khosrow e Širin. Amore e saggezza nella Persia antica, cit., p. 289. [13] Khosrow vo Shirin, p. 430, vv. 1-4, 6-7. [14] Si noti che il topos della bella o del bello paragonata/o a un turco predone che saccheggia il cuore del poeta è un motivo ricorrente nella lirica persiana, che sarà poi canonizzato nel famoso ghazal (una specie di sonetto monorimico) di ?afe? che comincia con agar an tork-e shirazì be dast arad del-e ma ra ... (‘Se quel turco di Shiraz il cuore mio si prende in mano’…), leggibile in versione italiana in Hafez, Il Coppiere di Dio. Antologia dal Canzoniere, a cura di C. Saccone, Seattle, Centro Essad Bey-Amazon IP, 20192, pp. 132-3. [15]KHSH, p. 289. [16] Tra gli studiosi che affermano che Ne?ami creò la sua Shirin in memoria di sua moglie A faq, segnaliamo E. E. Bertel’s, Izbrannye Trudy: Nizami i Fuzuli, Moskava, Izdatel’stvo Vostocnoj literatury, 1962, p. 255, citato in Bürgel, “Il discorso è nave, il significato un mare”, cit., p. 65; e A. Zarrinkub, Pir-e Ganjé dar jostoju-ye nakoja-abad. Darbare-ye zendegi, athar va andishe-ye Ne?ami ['Il maestro di Ganjé in cerca della terra del Non-Dove. Su vita, opera e pensiero di Ne?ami'], Tehran, Sokhan 2004, pp. 24-26. [17] Dopo Ne?ami la storia di Farhad e Shirin sarà oggetto di una serie di imitazioni, rifacimenti o arrangiamenti nelle lettere persiane ma anche turche, per cui rimandiamo a H. W. Duda, Ferhad und Schirin. Die literarische Geschichte eines persischen Sagenstoffes, Prague, Orientální Ústav 1933; e, per una più rapida lettura, si vedano: H. Moayyad, [1999], s.v. «Farhad», in Encyclopaedia Iranica, accessibile online: http:// www.iranicaonline.org/articles/farhad%20(1). [18] Cfr. rispettivamente: A. Bausani, La letteratura neopersiana, cit., p. 655; Meneghini, KHSH, p. 147, e nella riscrittura del narratore ungherese Mòr Jòkai, Shirin, a cura di L.A. Teszler, in «Quaderni di Meykhane», XI (2021), pp. 1-18. [19] La storia di Farhad è significativamente collocata da Ne?ami proprio nel centro del poema, in italiano leggibile in KHSH, cit., pp. 147-76. [20] Khosrow vo Shirin, p. 218, vv. 5-8, 12, p. 219, v. 2. [21] KHSH, p. 148. [22] Khosrow vo Shirin, p. 219, vv. 3-5, 9-10, p. 220, v. 1. [23]KHSH, pp. 148-9. [24]Ivi, p. 154. [25]Vita Nuova, cap. XIV. [26]Vita Nuova, cap. III. [27]Vita Nuova, cap. III. [28]Khosrow vo Shirin, p. 221, vv. 16-17, p. 222, v. 1. [29]KHSH, p. 150. [30] Si veda Ne?ami, Leyla e Majnun, cit. [31]Vita Nuova, cap. XXVI, 5-7. [32]Khosrow vo Shirin, p. 218, vv. 12-13, p. 219, vv. 1-2. [33]KHSH, p. 148. [34] Non a caso il poeta cita Platone, poiché il filosofo ateniese, in un famoso episodio dell’Alessandreide (Eskandar-namé) di Ne?ami (composta in realtà successivamente al KHSH), risulta l’inventore di uno strumento musicale la cui melodia, che si accordava all’armonia delle sette sfere celesti, era capace di far perdere conoscenza agli animali e agli uomini, e persino ad Aristotele che aveva sfidato il Maestro. Di qui l’espressione iperbolica di Ne?ami per il quale la voce di Shirin fa perdere il senno a chiunque, “fosse anche Platone”. Cfr. Nezami, Il Libro della fortuna di Alessandro, cit., pp. 132-7. [35]Vita Nuova, cap. XXVI. [36]Khosrow vo Shirin, p. 226, v. 9. [37] KHSH, p. 153. [38] Khosrow vo Shirin, p. 241, v. 2. [39] KHSH, p. 163. [40] Khosrow vo Shirin, p. 234, vv. 8-9. [41] In questo articolo abbiamo sempre utilizzato la pregevole traduzione di Daniela Meneghini, ma in questo caso, essendo saltato il secondo dei due distici, abbiamo fornito la relativa traduzione. [42] L’amore casto di origine araba beduina – che corrisponde a una sorta di amore platonico, caratterizzato dalla nobiltà d’animo, dalla rinuncia alla soddisfazione carnale e dalla ricerca quasi voluttuosa della sofferenza amorosa -, nasce secondo la leggenda nella tribù degli ‘Udhrà, da cui appunto l’espressione “amor ‘udhrita” (?ubb al-‘udhri). Il massimo esponente poetico di questo amore puro, come sottolinea Francesco Gabrieli, è il “perfetto amante” Jamil (morto nel 701) innamo42 LXVI-LXVII 01-02/2022 Dante fuori di sé Alcune note sulla quête amorosa nelle opere di Dante rato della bella Buthaina, cfr. F. Gabrieli, La letteratura araba, Firenze-Milano, Sansoni-Accademia 1967, pp. 107-9. In proposito, in relazione alla leggenda di Majnun (‘il folle [d’amore]’) spiluppatasi nella stessa tradizione ‘udhrita, si veda C. Saccone, Il Leylà e Majnun di Nezâmi, ovvero paradigmi dell’amore folle nel romanzo persiano medievale, in Prospettive della semantica / Perspectives on Semantics, a cura di F. Benozzo [special issue of «Quaderni di Semantica», n.s. 3 -4 (2017-2018), pp. 749-81, in particolare 760-2. [43]Vita Nuova, ultimo sonetto. [44]Vita Nuova, cap. XXVI. [45]Canto XXVIII, v. 3. [46]Sulla tormentata vicenda amorosa di Khosrow e Shirin, segnata da battibecchi e abbandoni ripetuti, si veda N. Norozi, Scenografie dell’incontro amoroso al balcone nel Vis e Ramin di Gorgani (XI sec.) e sua esemplarità per i posteriori poemi persiani, in «Quaderni di Meykhane», VIII (2018), pp. 1-31, qui in particolare pp. 22-5. [47] Khosrow vo Shirin, p. 233, vv. 10-12, p. 234, vv. 1-2. [48] KHSH, p. 159. [49] Khosrow vo Shirin, p. 225, vv. 11-12. [50]KHSH, p. 153. [51] Più in generale sulla distinzione tra dolore (dard) e amore (‘eshq) si veda C. Saccone, La canzone di Rosa e Usignuolo: paradigmi dell’amore nella poesia persiana medievale, in ‘Attâr F., La rosa e l’usignuolo, a cura di C. Saccone, Roma, Carocci 2003, pp. 125-201, qui pp. 169-72. [52] Sull’argomento delle stazioni mistiche nel sufismo esiste una letteratura sterminata, ci limitiamo segnalare in italiano M. Molé, I mistici musulmani, trad. it. di G. Calasso, Milano, Adelphi 1992; Kalabadhi, Il sufismo nelle parole degli antichi, a cura di P. Urizzi, Palermo, Officina di Studi Medievali 2002; Ansari di Herat, Le cento pianure dello Spirito, a cura di C. Saccone, Padova, EMP 2012. [53] Oltre a ricordare la sua appartenenza alla confraternita degli Akhi, Ne?ami senz’altro conosceva il mistico persiano del IX secolo Abu Yazid al-Bis?ami e i suoi detti che almeno da tre secoli circolavano nell’ecumene islamica. In particolare al-Bis?ami nella sua intima esperienza dell’unione amorosa con Dio aveva esperito la stazione spirituale del fana (‘autoestinzione/ auto-annientamento [in Dio]’), per cui rimandiamo ad al-Sahlaji, Il libro della Luce. Fatti e detti di Abu Yazid al- Bis?ami, a cura di N. Norozi, Bussoleno (TO), Edizioni Ester 2018; in particolare per un commento si veda ivi, N. Norozi, Il santo, lo “specchio di Dio”. Introduzione ai detti di Abu Yazid al-Bis?ami riportati nel Kitab al-Nur di al-Sahlaji, pp. 17-80, qui pp. 47-8. [54] Khosrow vo Shirin, p. 226, v. 15, 227, vv. 3-4. [55]KHSH, p. 154. [56] Khosrow vo Shirin, p. 262, v. 2. [57]KHSH, p. 173. [58] Khosrow vo Shirin, p. 223, v. 6. [59]KHSH, p. 151. [60] In proposito Annemarie Schimmel così si esprimeva: «The discussions on mystical love became more complicated in the Baghdad circles about 900, with the introduction of the notion of ?ubb ‘udhri, “platonic love”. Jamil, a noted poet from the tribe of ‘Udhra in the late seventh century, had sung of his chaste love for Buthayna in delicate verses that almost foreshadow the love lyrics of Spanish and French troubadours; and soon a ?adith was coined, according to which the Prophet had said: “Whoever loves and remains chaste, and dies, dies as a martyr.”» A. Schimmel, Mystical Dimensions of Islam, Chapel Hill, The University of North Carolina Press 1975, pp. 137-8. Circa l’amore ‘udhrita v. anche la nota 42. [61] KHSH, p. 171. [62] Khosrow vo Shirin, p. 256, vv. 9-10; p. 257, vv. 4, 7, 9; p. 258, v. 1. [63]KHSH, p. 171. [64] Khosrow vo Shirin, p. 246, vv. 13-16. [65]KHSH, p. 166. [66]É. Gilson, Dante e Beatrice, a cura di B. Gravelli, Milano, Medusa 2004, p. 129. [67]Sulle fonti storiche del personaggio di Farhad si veda G. Scarcia, “Alla ricerca di un Ur-Farhâd: Hercules patiens, magnetico signor dottore, scalpellino, feldmaresciallo, mecenate?”, in E. Morano; E. Provasi; A. V. Rossi, (a cura di), Studia Philologica Iranica. Gherardo Gnoli Memorial Volume, Roma, Scienze e Lettere 2017, pp. 395-412; P. Orsatti, Materials for a History of the Persian Narrative Tradition, Two Characters: Farhad and Turandot, Collana di Filologie medievali e moderne 19, serie orientale 4, Venezia, Edizioni Ca' Foscari 2019, pp. 19-59. [68]KHSH, p. 161. [69]Si veda ad esempio C. Saccone, Storia tematica della letteratura persiana classica, vol. II: Il maestro sufi e la bella cristiana. Poetica della perversione nella Persia medievale, Roma, Carocci 2005, pp. 117-24. [70] Khosrow vo Shirin, p. 33, vv. 7-11. [71]KHSH, p. 30. ¬ top of page |
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