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CETTA PETROLLO, Giochiamo a contarci le dita, Genova, Editrice Zona 2021, pp. 118, € 15,00.

(pp. 110-111).

 

Dopo la parentesi in prosa nel 2019 di Margutta 70, Cetta Petrollo torna alla poesia pubblicando sempre con l’Editrice Zona questo Giochiamo a contarci le dita. Ricordare in apertura il libro di memorie ‘romane’ non deve essere considerato come un puro compitare le tappe bibliografiche dell’autrice: c’è infatti un filo robusto che lega questi due testi successivi, pure così differenti, ed è quello della proiezione del passato nel presente e, anzi, di un presente come unica (persino caoticamente tale) dimensione del tempo, che arriva quindi ad annullare il rimpianto per ciò che è trascorso ed ignora, infine, di conseguenza, lo scorrere stesso delle ore, originando l’ossimorica autodefinizione che apriva Margutta 70 di «giovane anziana». Semmai andrà sottolineato che in Giochiamo a contarci le dita l’ossimoro si è fatto ancora più radicale e si è diffuso (come cercherò di indicare tra poco) anche ad altre figure coinvolte nel testo. Questa raccolta si presenta, insomma, come un libro al contempo infantile e senile: aggettivi entrambi da intendere, però, in una loro declinazione assolutamente euforica: e viene in mente per certi versi, pur con tutte le evidenti differenze, l’ultima, meravigliosa e purtroppo non sufficientemente valutata raccolta di Francesco Leonetti, quei Versi estremi, in cui rivivevano nello spazio chiuso e felice delle mura domestiche il presente del «buon vecchio» e il passato militante e letterario. Il libro della Petrollo parla insomma del tempo: ne fa, anzi, un vero e proprio elemento di struttura, visto che le ultime due sequenze che lo formano (A memoria (1978- 1989) e Baci baci baci (1928-1937)) sono collocate, almeno per quel che suggeriscono le date poste dall’autrice (che non sono ovviamente di composizione) in ordine inverso. Giochiamo a contarci le dita si organizza in sette sezioni, e anche se mancano segnali paratestuali in questo senso, a sottolineare la relativa impermeabilità di esse probabilmente anche dal punto di vista dei tempi di composizione, risaltano evidenti elementi di compattezza stilistica interna a ciascuna e di varietà, per contro, tra una e l’altra sezione quanto a registri e persino a forme metriche e strutturazione del testo. Un libro disomogeneo quindi, se vogliamo, per lo meno dal punto di vista dello stile, stratificato, ma non discontinuo. Il nucleo forte è costituito da due sezioni non consecutive nella successione ma evidentemente correlate, Il patrimonio dello sbandato e quella eponima. Al centro di esse troviamo due figure familiari, la figlia divenuta madre e il nipote, che si pongono pertanto e come ovvio in una successione generazionale con l’autrice. Non fosse che, appunto, la percezione di questa successione è radicalmente straniata. Tra i testi più rappresentativi in questo senso c’è Adesso sono due, che credo sia bene citare quasi integralmente: «Adesso sono due / e vanno e vengono per casa. / In tre non abbiamo più di quarant’anni / siamo due mamme giovani / e un piccolo bambino che si diverte / con le due mamme giovani / una è tornata a riprendersi il letto / dove in ammucchio / ci dicevamo buongiorno / l’altra è tornata a far versi / da somaro o da cavallo / e sceglie i pennarelli per dipingersi / il pollice come un sioux. / [...] / Abitano la casa / che ci sia l’una o l’altra / è indifferente (l’odore il sapore le connessioni) / Si portano dentro tutte le case di prima / quando c’erano gli uteri. / Uno non ancora spento / l’altro non ancora acceso». Il momento del gioco collettivo origina una sovrapposizione dei piani cronologici tutti proiettati e realizzati in un unico, multiforme presente in cui tutti i piani biografici (e tutti i tempi, e tutti i luoghi) finiscono per convivere interferendo reciprocamente. Si può quindi avere nel contempo «non [...] più di quarant’anni» tutti insieme ed essere «due mamme giovani» ma nel contempo non smettere di essere madre e figlia, e madre e figlio, e nonna e nipote, in un accavallarsi di ruoli che si salda nel presente, nella «casa» abitata che si porta però «dentro tutte le case di prima». Che il tempo sia multiforme non significa però che sia negato. Il presente continua naturalmente ad esistere ed essere percepibile e lo stesso vale per il passato, come ricordano appunto icasticamente i due versi che chiudono la poesia, solo che sono percepiti soggettivamente dall’io che li (de)scrive. Ma non sono solo i tempi ad essere ripetuti e poi fusi insieme: lo stesso vale per i soggetti, riassunti dall’io che li registra e che può arrivare a sostituirsi (o, meglio ancora, a sovrapporsi) a loro: «siamo due mamme giovani», appunto, ma anche «Abbiamo avuto l’infanzia: / cioè tu l’avevi, io la rifacevo» (Abbiamo avuto l’infanzia). Da qui il ricorrere del motivo dello sdoppiamento e della moltiplicazione dei soggetti («ho nostalgia della mia bambina / del nostro essere in tre / del nostro essere in due», Ho nostalgia della mia bambina; «Certe volte mi fa strano / che ti sei raddoppiata. / E lui ha così tanti segni del raddoppio / che poi è una triplice moltiplicazione», Certe volte mi fa strano) e l’ossessione per i numeri che si manifesta persino nella deliziosa sezione para-rodariana delle Favole in una frase («C’era una volta un papà / che giocava coi numeri / e scappa di qua e scappa di là / i numeri si misero a ridere»). La felicità individuale (perché questa è una poesia felice in maniera persino ingenua: «Lo dico in modo diretto. / Sono felice», Lo dico in modo diretto) si realizza allora nella continuità del tempo, nel suo andare ben oltre la contingenza dell’individuo (e anche qui si possono citare soprattutto alcuni memorabili avvii: «Butta la pelle vecchia / la nuova è già sotto», «Gli spiragli del futuro / non si chiudono mai») e che il presente vive letteralmente e contemporaneamente in un unico punto insieme tanto col passato che col futuro (come nella bellissima Mio nipote si sposerà a Farfa, con la sua epigrammatica conclusione: «La pietra conserverà la memoria / e mio nipote si siederà / su questa pietra / a Farfa, un giorno»). Ad innescare questa etimologica contemporaneità è proprio la figura del nipote, «nato l’anno che muoiono alcuni» e destinato perciò a compensare la frattura tra le generazioni (sullo sfondo di questa raccolta riaffiora spesso la morte, ma senza particolari inquietudini) con il suo presente senza passato, colui per per cui si inventano storie e giochi, il naturale destinatario delle sezioni Streghine e Favole in una frase. Questa felicità dell’oggi lascia spazio solo a rarissimi momenti di nostalgia, ed è su uno di questi che vorrei chiudere. Si tratta del finale di Una poesia una sola poesia, inclusa in quella specie di sghembo canzoniere amoroso che è la sezione Quei bravi ragazzi, quelle giovinette. Una poesia... è una specie di autobiografia intellettuale costruita per accumulo di sostantivi e predicati, quasi un Margutta 70 in estremo compendio, in cui affiora come prevedibile una forma di rimpianto per quanto trascorso. Ma proprio nel finale il discorso subisce un’improvvisa torsione: «Ma non guardiamo / Non guardiamo Indietro! // Sull’asse d’equilibrio / in altro mare / noi dobbiamo / “dobbiamo continuare”». Il verso finale, non a caso tra virgolette, è in realtà un’esplicita citazione dalla sezione conclusiva della Ballata di Rudi di Pagliarani, da cui riprende anche la rima continuare : mare («Ma dobbiamo continuare / come se / non avesse senso pensare / che s’appassisca il mare»). Elio Pagliarani, così ovviamente centrale nell’esistenza di Cetta Petrollo, è invece quasi del tutto assente tra le coordinate stilistiche di questo libro, fatta salva la sezione conclusiva, Baci baci baci, con il suo impianto narrativo e il suo ricorrere a forme idiolettiche che rimandano alla prima stagione di Pagliarani, tra Cronache e altre poesie e l’avvio della Ragazza Carla. Proprio questa sostanziale latenza rende pertanto il recupero che ricordavo particolarmente significativo e impedisce di considerarlo un semplice, neutro omaggio. Il fatto è che la disperata esortazione a ignorare il presente come unica possibilità di continuare a viverlo che siglava appunto la Ballata di Rudi viene presa da Cetta Petrollo e letteralmente ribaltata, trasformandola tutto al contrario in un invito a proseguire, per quanto precari, nel presente, facendo sì che i ricordi, il passato, smettano di essere «zavorra» (per usare un’altra parola pagliaranesca) e diventino invece sostanza vitale del presente e del futuro.
                                                                                                                                                                  (Marco Berisso)


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