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MAX LOREAU, L’épreuve/La prova, a cura di A. Marchetti. Acqueforti di G. Guerri, Rimini, Panozzo Editore, 2010, 67 p.
 
«Quando la parola vuole dire il proprio accadere, la poesia si espone al suo maggiore rischio. La letteratura del silenzio definitivo abita ogni scrittore», esordisce A. Marchetti nella prefazione (p. 7) alla sua traduzione di L’épreuve (Fata Morgana, 1989), riassumendo, con folgorante formula, la ricerca poetica di Max Loreau (1928-1990). Di questo volumetto che ripropone, con testo a fronte, una versione già apparsa in rivista («Origini», IX, 25, 1995), apprezziamo, innanzitutto, l’accurato corredo bibliografico che rende conto del meritorio intento del curatore: quello di procurare alla figura di Loreau – si ricorderà il numero monografico di «Francofonia» a sua cura (n. 41, autunno 2001), dal titolo: Max Loreau. La quête de l’imprévisible. – il riconoscimento che merita oltralpe. Come scrive E. Clémens («Loreau e gli enigmi del visibile», «Studi di Estetica» XXX, 1, 2002), il Loreau filosofo, poeta e critico d’arte è stato tormentato da un’unica questione, «quella dell’invenzione, della venuta alla luce, della genesi del fenomeno» (La génèse du phénomène, del 1989, destinato a compendiare il suo pensiero, è rimasto incompiuto). Al centro delle sue preoccupazioni è quella che egli definisce «autogenesi»: una operazione incessante di ricreazione di sé, mente e corpo in una, che obbliga il soggetto – pensiamo agli Chants de perpétuelle venue del 1977 – a rinunciare ad ogni marca stabile di riconoscimento, sia esso professionale, sociale, intellettuale. Denegazione e, spesso, silenzio: dapprima cercato come prova estrema cui si sottopone il linguaggio; poi, piombato sul soggetto predestinato come ascia ordalica. Ed ecco la ragione annunciata da Marchetti in prefazione: l’intento che anima il curatore di La prova è quello di mostrare come l’esperienza biografica di Loreau possa farsi paradigma di un’esperienza poetica assoluta. Il Loreau studioso dell’umanesimo fiorentino, e autore di Florence portée aux nues è stato, accanto a Bousquet e Michaux, «traduttore del silenzio» per aver incarnato, in vita, la condizione della morte. A seguito di una malattia, ha vissuto nel buio mentale e nel vuoto della memoria, sino a quando non ha avuto luogo un improvviso «risveglio» dell’essere di parola. Risveglio che segna una «fase», al tempo stesso, incoativa e terminativa della sua esistenza (pensiamo al suo Cri. Éclat et phases, del 1977), se consideriamo ch’essa ne costituisce l’ultimo bagliore. Baudelaire comparava l’avvento della modernità, nel Peintre de la vie moderne, alla sensibilità acuta del convalescente che, riscoperte le gioie terrene, si dona al mondo come un infante. Da questa giubilazione è nata L’Épreuve. Una prova iniziatica, appunto, che rimette in gioco l’anonimo protagonista di un’antica lotta: quella della nominazione-dominazione del mondo attraverso il linguaggio. Lotta condotta, da un lato, con quello che egli definisce «l’élémentaire» e, dall’altro, con nomi e concetti. Marchetti sottolinea, in L’épreuve, la forza epifanica delle immagini, che travolge come mare in tempesta la lucida organizzazione delle parti; se non si riconosce, in questo tratto demonico, anti-intellettualistico, una marca di originalità della poesia, è senz’altro inedita la prorompente visionarietà successiva al «dis-astro» (p.8); l’intensità con la quale Loreau esprime la giubilazione per una prova – subito interrotta dalla morte – cui, nuovamente, è chiamato. L’Épreuve, scrive ancora Marchetti, «giunge ai suoi lettori come un lascito», una testimonianza dell’uomo maturo stupefatto, per un istante, di fronte al miracolo della parola nascente; miracolo di fronte al quale l’umanità è, per natura, sprovveduta. Si veda, ad esempio, il testo liminare, che si presenta, a partire dal corsivo, come una lunga parentetica: “(Soudain la maladie./Sans s’annoncer, brutale aveuglément./[…]Silence./Puis rien./Jusqu’à ce qu’un jour la vie reprenant le dessus./Alors il reprend la parole)”, e che Marchetti restituisce con parziale esplicitazione: “(D’improvviso la malattia./Senza annunciarsi, brutale ciecamente/ […] Silenzio./Poi nulla./Finché un giorno ecco la vita riprendere il sopravvento./Allora lui riprende la parola)”. Seguono – ironia del logos – i «propos» (o «discorsi») che il poeta rivolge a se stesso o alla poesia durante una serie di ‘trasfigurazioni’ del corpo; si tratta di un diario intimo, in versi e prosa, che tiene, di un periodo breve e bruciante, il re-iniziato al linguaggio: una ontologia tutta da reinventare, rimodellare, ripianificare, in quella che Loreau ha definito altrove la «voluminosité» del proprio corpo di parola. Le cose si affollano, incalzano la coscienza per venire al mondo, in una luce che inebetisce. «C’est le temps – annota Loreau – qui cherche sa parole» (p. 30). Tempo onirico, crepuscolare – o inaugurale? – poiché la parola baluginante sta per spegnersi, e riaccendersi altrove per una giubilazione definitiva: «Bientôt le large sera là/et je serai debout./Je me dresserai de tout mon être sur la pointe des pieds./Le monde sera vaste, enivré/Ce sera comme si je l’enserrais dans mes bras,/et je balbutierai, heureux» («Presto ci sarà il largo/ed io sarò ritto./Mi solleverò con tutto il mio essere sulla punta dei piedi./Il mondo sarà vasto, inebriato./Sarà come se lo stringessi fra le braccia,/e balbetterò, felice»).
 
(Michela Landi)
 

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