« indietro LINGUE STRANIERE DELLA GIOVANE POESIA POLACCA*
di Jerzy Franczak
Bernardo Bellotto, Veduta di Varsavia con la Vistola dal sobborgo di Praga (1770, Varsavia, castello reale). Il titolo di quest’intervento allude a un saggio di Bohdan Zadura e, allo stesso tempo, alla parola d’ordine del di battito organizzato in occasione del Festival degli autori emergenti (Cracovia, 16-19 novembre 2000).
Per la poesia giovane intendo l’attività degli autori nati negli e dopo gli anni Settanta, attorno alla quale sono sorte non poche controversie. Esse sono dovute principalmente alla strategia di numerose giovani riviste letterarie che si sono proposte lo scopo di promuovere e descrivere il fenomeno della nuova generazione letteraria. Sebbene, tuttavia, abbiamo a che fare con il numero enorme dei libri di bassa tiratura che costituiscono una sorta di biblioteca spettrale – è difficile per tutti definire la specificità della poesia più giovane. Compaiono, è vero, diverse proposte, ma fra queste certe sono eccessivamente generiche – come quella di Wojtek Wróbel, la formula de «l’assimilazione del famigerato idioma di colloquialità, della maggiore libertà di ricerca artistica e dell’allargamento del campo delle ispirazioni individuali» – altre troppo azzardate, come per esempio il tentativo di individuare come caratteristica di questa poesia «la diluizione, dispersione e isolamento», con la mancanza dell’esperienza generazionale. Di conseguenza, a causa di queste polemiche, la categoria della «generazione», abusata dai giovani autori e critici, ha perso quasi del tutto il va lore descrittivo e viene percepita quale strumento di schermaglia critica o addirittura di marketing.
Intanto, a prescindere da ogni polemica e divagazione, si pubblicano altri libri, la cui quantità fa girare la testa ai critici desiderosi di abbracciare l’insieme del fenomeno. La reazione frequente a quest’eccesso consiste nel lamentarsi del mercato editoriale e della facilità di pubblicare le proprie produzioni sotto la forma d’un libro – facilità che non favorisce il lavoro di cesello e riflessione critica che invece richiede tempo. Dalla stampa letteraria si avanzano nei confronti della poesia più giovane le accuse d’incomprensibilità e di propensione al postmodernismo – sterile, a detta dei critici, nel campo della letteratura. Al postmodernismo concepito alla pubblicistica, come libertà senza limiti, con senso all’imitazione e rinuncia ai valori tradizionalmente attribuibili alla letteratura.
Tali accuse mi sembrano sconsiderate, anche se non infondate. Infatti, non è difficile rilevare nella poesia degli autori nati nei Settanta quelle caratteristiche che per Ihab Hassan sono determinanti per il postmodernismo: indeterminatezza e frammentarietà, crepuscolo delle norme e autorità, tramonto dell’ego e della «profondità», non-rappresentabilità, ironia, predilezione per il pastiche, parodia e travestimento. Non attribuirei però queste tendenze esclusivamente al fascino delle novità filosofiche e letterarie. Può darsi che, nel contesto della letteratura liberata con il comune consenso dagli obblighi extraletterari, l’attenzione degli scrittori si concentri nuovamente sulla stessa materia letteraria? Forse se ricordassimo la fioritura delle avanguardie artistiche nel ventennio fra le due guerre, la tendenza si rivelerebbe una regola? Infatti, quanto ancora una decade fa i poeti che entravano nella scena letteraria come «generazione di bruLion» erano coinvolti nelle antinomie «privacy»-«dovere», «confessione»-«testimonianza», quanto il linguaggio comune, non libero dai prosaismi e volgarismi, e il parlare ostentatamente solo a nome proprio costituivano una reazione a quel non lontano suono del linguaggio ligneo di propaganda e all’idea di subordinare l’arte alle regole della vita collettiva (vedi la famosa poesia di Marcin Świetlicki «Per Jan Polkowski»), tanto la poesia degli autori nati negli anni Settanta è implicata nella dialettica del «reale» e del «linguistico».
Azzarderei persino l’ipotesi che le caratteristiche dominanti della giovane poesia consistano, appunto, nel maggior interessamento alla materia delle parole, della lingua che funge non più soltanto da strumento non trasparente, ma, anzi – da oggetto di conoscenza, e nella specifica sopracoscienza artistica che diventa talvolta un’ossessiva sensazione d’imprigionamento nella parola. [1] Nel saggio, al quale allude il titolo di quest’intervento, Bohdan Zadura scrive: «si tratta delle lingue cui la poesia ricorre, lingue che sono, o – per meglio dire – sono o talvolta sono la poesia». Esaminiamo le lingue che sono o talvolta sono la poesia più giovane.
1. Inizio e finisco sulla superficie Jarosław Lipszyc (nato nel 1975) è stato acclamato dalla critica «il poeta separato», sia grazie a un’originale strategia lirica, sia a un’ostentata forma del manifesto che fa sì che le sue poesie si trasformino nelle confessioni poetiche del (non)credo.
Lipszyc sceglie il linguaggio delle avanguardie poetiche (linguismo!), «mette la lingua sul primo piano», ma non lo fa in nome dell’originalità. Vengono in mente le parole di Matea Calinescu: «l’avanguardia storica (...) è diventata stato cronico dell’arte, sia la retorica della distruzione che la retorica della novità persero ogni traccia d’eroismo»:
Lipszyc non è però, a dispetto dei suggerimenti di una parte della critica, un semplice seguace delle tradizioni del linguismo. Anche se costruisce le strutture poetiche, lunghe e contorte, basandosi sulla serie di associazioni verbali, accumula le metafore fondate sui giochi di parole moltiplicandoli secondo la regola «offendi il quadro» (obraź obraz) fa qualcosa di più – infatti, come giustamente osserva Marian Stala, opera con le unità di vario genere, non solo con i significati delle parole, ma anche con le immagini, topoi, idee, ricorrendo, come dichiara lui stesso, «a quel grande magazzino passi» (Dormire):
Nelle varie dichiarazioni sparse nelle sue poesie, Lipszyc annuncia la morte della verità, la bancarotta delle fedi e misure d’una volta:
«La vecchia fede» – fede nella validità delle idee, nella potenza delle grandi narrazioni – necessitava subordina zione, obbedienza, si basava sulla violenza. Ora che l’antico ordine è crollato, quando è morta quella «fede nelle pri missime basi e acidi acetici» (Dittico folle...), ci vuole una nuova strategia, un nuovo modo di esistere nel mondo e nella lingua:
Con queste parole Lipszyc annuncia la crisi della rappresentazione tradizionale, e poi rileva un’altra fonte del suo atteggiamento: la diffidenza nei confronti della lingua che implica gli schemi mentali, cliché con cui sistematizziamo il mondo costruendo le ricette sospette contro il caos onnipresente:
La strategia lirica di Lipszyc si basa sulla convinzione che nessuna parola e nessuna affermazione possano raggiungere la cosiddetta realtà. In questo luogo non è possibile non ricordare la tesi di Baudrillard: non c’è più il reale poiché oramai indistinguibile dalla propria descrizione, interpretazione e rappresentazione. In questo approccio la poesia perde ogni contatto con la realtà, diventa un simulacro di se stessa:
Lipszyc crea quindi una sorta di metalinguaggio autofago: innalza con le parole le costruzioni autoriflessive o per così dire – «ricorsive» che vanno in ricerca delle regole della propria attività. La lingua stessa detta le leggi dell’opera letteraria. Nell’ambito di un’unica poesia s’incontrano, si scontrano e si cancellano i sensi, il che deve portare a quella «implosione dei sensi e alla metamorfosi in uno stato dell’indifferenziazione universale» descritta da Baudrillard.
Se Lipszyc si dichiara a favore del lato oscuro, diciamo «baudrillardiano» della visione del postmodernismo, a Grzegorz Jankowicz (nato nel 1978) è più vicina la visione più luminosa, «lyotardiana». Dai suoi versi traspare un’epidermica gioia dello scrivere libero dalle regole che porta al mondo della varietà. La gioia di creare un mondo «testile-testuale».
Le poesie di Jankowicz sono pervase dalla consapevolezza della convenzione, dal senso di letterarietà, concepita però non come artificio, ma come una specie di «forza maggiore» legata strettamente allo stesso fatto di esistere nella lingua. ‘Immediatezza’, ‘espressione della personalità’, ‘confessionalità’ – afferma Jankowicz in una delle interviste– «sono convenzioni appartenenti alla lingua piuttosto che a ‘l’esistenza’. Quest’enumerazione assomiglia un po’ alla sfilata delle maschere scolpite nella lingua. In realtà, tutta la letteratura è tale sfilata».
Agnieszka Sobol, interpretando queste poesie, si è avvalsa della categoria Welschiana della «mente trasversale», libera dall’onnipotenza, mente che fa domande invece di dare risposte, che rinuncia alla profondità a favore della superficialità. Jankowicz evidentemente tende a disperdere i sensi invece di generalizzare, in una caccia alle parole concatenate come associazioni staccate vuole esprimere lo scintillare dei momenti di consapevolezza. Tende a «nascondere la profondità – sulla superficie delle cose»:
Il nostro essere nel mondo è irrimediabilmente mediato dalla lingua: oltre la lingua si estende il mondo dell’inumano, «il cosmo che assedia il nostro giardino di lusso». Pertanto l’uso libero dell’arsenale dei mezzi e convenzioni diventa l’unico modo di sfiorare il Mistero, di raggiungere «l’innominabile e l’invisibile»:
Jankowicz ricorre agli svariati linguaggi che agiscono assieme e uno contro l’altro, li coinvolge in un complesso gioco intertestuale. «Può darsi che io sappia rendere la mia lingua abbastanza ospitale da contenere la lingua altrui» – afferma nell’intervista qui citata. «Forse una frase che mi ha intrigato continua a tenermi legato, non lasciando che mi allontani. Ne lascio la traccia nella mia poesia». L’ospitalità ha tuttavia dei limiti: lo scopo è di trovare la propria voce:
Per Lipszyc coltivare l’arte del «senso privo di sublime» e della «forma priva di struttura» è l’unico modo di parlare di se stesso e del mondo. È una voce interna a dettare frasi strappate, facendone scaturire l’incongruenza e l’illogicità, «questa voce che detta sempre più veloce fino a fare disperdere le virgolette / coltellini della logica» (Ascolta). Jankowicz non si affida esclusivamente al suo daimonion: adotta per ogni singola poesia un certo rigore, di carattere quasi matematico, ispirato al gruppo OuLiPo fondato tra gli altri da Queneau, Calvino e Perec. In questo modo propone un complesso gioco di superfici multiple che diventa particolarmente fine nelle poesie corredate di note al testo. Queste note hanno un ruolo completamente diverso da quello svolto nel poema di Eliot: non spiegano nulla. L’autore gioca con le note contro la loro funzionalità. «È un incoraggiamento al lettore che deve aggiungere le proprie parti della poesia, che non deve permettere che la lingua si pietrifichi» – spiega Jankowicz. «Grazie a queste note al testo, la lingua si trova in continuo movimento. Ed è proprio questo ciò a cui tengo».
Difficile contraddire le tesi di coloro fra i critici che definiscono la poesia di Lipszyc e Jankowicz «postmoderna», è altrettanto difficile però acconsentire che i «giri a vuoto» della lingua e l’utilizzo della «forma priva di struttura» siano giochi letterari senza alcun valore. Rifiuto delle regole – che secondo Lyotard sono soltanto «mezzi per ingannare, tentare, rassicurare, che non lasciano esprimere la ‘verità’» – può essere concepito come un gesto radicale dell’umanista desideroso di sfiorare la «verità» attraverso l’illusione dei segni. L’immersione nella lingua, consapevole e totale, lo smarrimento nel linguaggio possono essere interpretati per mezzo delle categorie epistemologiche. Lipszyc si rifà alla metafora borgesiana della mappa:
I cartografi di Borges, cercando di creare la mappa ideale, ricoprono tutto l’Impero di una mappa. Secondo Baudrillard questa metafora rispecchia il carattere dei nostri tempi, nei quali «il territorio non precede più la mappa – è la mappa a precedere e a generare il territorio». Se ammettiamo che la conoscenza del mondo avviene soltanto attraverso la lingua, l’esplorazione della lingua diventa atto epistemologico. In altre parole, se la lingua è primaria, mentre l’uomo partecipa solamente a un gioco da essa iniziato – secondo la regola di Derrida: «non sono io a parlare, ma tutto quello di cui parlo parla attraverso me» – la strategia di disintegrare sensi e legami, di fonderli nella materia linguistica può meritare la definizione de «l’iperrealismo», adoperata da Słomczyński a proposito dell’opera di Joyce. In fin dei conti, perfino la poesia del «senso privo di sublime» e della «forma prova di struttura» è pervasa dalla nostalgia del punto di riferimento non linguistico e del contatto extraverbale:
2. Archivi di tenebra Nella poesia di Jarosaw Lipszyc si fa percepire la nostalgia de «l’antica fede», dell’ordine dei «labirinti antichi», il bisogno di «affrontare faccia a faccia, e capire». Diverso il caso di Roman Honet (nato nel 1974) cui aderirono le etichette del decadente e surrealista: una grazie agli accessori del passato fin de siècle, alla topica della morte e del marasma, alla retorica escatologica che espone vecchiaia e squallore; l’altra – per il gioco visionario dell’immaginazione.
Ma Honet va ben oltre. Non solo sacralizza il proprio caos – come Rimbaud – per vedere facilmente una moschea invece di una fabbrica, ma scopre anche la follia inerente alla lingua stessa. La sua poesia è un inseguire la follia inerente alle parole, follia sulla quale si fonda il nostro concetto del mondo. Vengono frantumate sia la visione del mondo che la frase e l’immagine. Come in quella famosa formula di Foucault: «Liberata dalle regole di saggezza e scienza, l’immagine si riduce alla propria negazione». Tutta l’eredità della cultura, di cui la lingua è portatrice, appare in veste degli «archivi di tenebra», «mescolanza di giardini i sensi». «La lingua liberata, priva di ancoraggio – scrive Jakub Momro – descrive insistentemente alcuni motivi neuroticamente ricorrenti, produzione dell’immaginazione indipendente». Vi ricorrono quindi le frasi bibliche distorte, gli archetipi di luce e tenebra, torri e scettri, Hans Christian Andersen e Rudolf Hess, angeli ed SS. Il soggetto di questa poesia assomiglia a un medium, attraverso il quale scorrono le visioni oscure e surreali. Probabilmente per questo motivo Radosław Kobierski presume «che il poeta abbia scelto il consenso al delirio, data la mancanza della sensazione d’insopportabilità dell’essere. Vi è invece qualcosa di peggio – l’indifferenza»:
La sensazione d’insopportabilità dell’essere ha dominato invece la poesia di Piotr Czerniawski (nato nel 1976). Le fa da modello Rafał Wojaczek, molte volte peraltro evocato. Come per Wojaczek, il punto di riferimento per Czerniawski è «stato di chiaroveggenza», «rilassamento di tutti i sensi», distacco dalla realtà. Quello stato, identificato da Wojaczek con la follia del secolo, da Czerniawski con la follia della lingua, diventa maledizione dell’individuo che tenta di ritornare nel cerchio della comunità. «Wojaczek cerca di salvarsi dallo stato realmente sperimentato» – le parole con cui Tymoteusz Karpowicz introduceva sulla scena letteraria l’esordiente Wojaczek potrebbero riguardare anche Czerniawski:
La via di ritorno dal mondo dell’immaginazione segnato dalla follia porta attraverso le vie deserte di una città immersa nel buio, attraverso vicoli, bettole e bordelli. Negli appunti amorfi, come estrapolati da un quaderno, ritornano gli stessi luoghi, mentre il balbettio delle enunciazioni giornalistiche («cresce il pericolo delle sette nella società / l’acqua minerale è la piscia dei dinosauri») si mescola con il balbettio delle conversazioni sul tram («ti dico, mi è venuta ieri una diarrea e ho pensato che questo, cazzo, è l’universo»). Alla fine della strada c’è soltanto, e perfino – la poesia pura:
3. Cresce attorno a me quest’assenza
Il punto di partenza è quindi la diagnosi della condizione umana nell’epoca postmoderna, la consapevolezza della letterarietà e del carattere retorico della lingua e dei prodotti linguistici, infine – il senso d’imprigionamento nella materia delle parole che vanno allontanandosi sempre di più dai loro designati. Le reazioni dei poeti sono tuttavia diverse, come diverse sono le loro personalità artistiche. Lipszyc, immergendosi totalmente nell’elemento linguistico, penetra i livelli degli infrasensi per scoprire non tanto il mondo quanto i meccanismi che reggono il nostro percepire il mondo nella sua continua disintegrazione. Jankowicz invita a un complesso gioco testuale, in cui frammenti dei sensi sono solo apparentemente dispersi come «le ossa meticolosamente ordinate dal vento» (*** mi sdraio su una panca di legno). Honet smaschera la follia inerente alla lingua, privando le proprie visioni surreali di qualsiasi possi bilità d’interpretazione. Czerniawski intraprende il tentativo di rinnovare i legami rotti con la comunità: vuole avvici narsi a quella «simmetria danneggiata» della città e della psiche umana.
Mateusz Wabik (nato nel 1975) sceglie lo stesso punto di partenza; il senso di dispersione nel momento e di disintegrazione della personalità, la consapevolezza del carattere linguistico del mondo comporta irritazione e amaro disincanto:
La sopracoscienza linguistica, della quale ho già parlato, il senso d’imprigionamento nella parola prendono nel caso di Wabik la forma del Leitmotiv, ricorrente con una regolarità ossessiva:
La caratteristica più sintomatica di questo atteggiamento artistico è, tuttavia, il bisogno di trascendere la lingua, di rifiutare le parole che «come cenere entrano a manate nella bocca» (Dicembre, da lontano). Diversamente da Czerniawski, Wabik non cerca di ritornare alla comunità, «la rete della mano» è per lui una trappola, esattamente come «la rete delle parole». In una serie di scene dalla vita quotidiana egli dimostra il vuoto dei contatti umani, mette il segno d’uguale fra «presenza» ed «estraneità» (obcowanie i obcość). L’unica speranza è amore:
Così inizia la descrizione d’un fallito tentativo di creare il contatto intimo, non mediato dalle parole – descrizione che si trasforma in un ciclo erotico assai brutale. Ma anche questo tentativo finisce con uno «sprofondamento nel testo», nella letterarietà artificiosa:
Alla fine resta la disperazione della mancata espressione, silenzio. «Un foglio / di carta bianco attraverso cui / fuggo» (*** l’ombra delle parole).
Marcin Ożóg arriva a diagnosi analoghe: viviamo nell’epoca in cui muoiono le antiche fedi:
Ożóg cataloga «le crescenti perdite umane», vuole dar forma allo smarrimento e all’incolmabile vuoto, descrivere quel «crescere dell’assenza» – assenza dell’assoluto in un essere umano che «da tempo smise di parlare agli déi» (assassino dei batteri). L’esistenza della trascendenza non viene messa in dubbio: il profondo esiste, ma velato dalle parole:
Nell’interpretazione di Edward Balcerzan Andrzej Bursa riteneva non autentica la consapevolezza fatta dalle credenze astratte, pertanto si dichiarava a favore di «una coscienza implicata nei processi somatici» e si nascondeva dietro la biologia – in «quell’ultima roccaforte dell’autonomia individuale». Ożóg cerca salvezza dalla falsità della lingua, e la cerca nel dolore. Solo nel dolore egli vede speranza di rompere il circolo vizioso dei segni, di uscire al gioco di apparenze linguistiche, di «uscire dalla poesia»:
La lingua non è più casa dell’essere: in questa battaglia contro la tirannide della lingua la cicatrice diventa prova dell’esistenza, a prescindere dal fatto che i Cechi la chiamino scoreggia (blizna – bździna). Quel pensare al dolore non solo fa sì che il poeta ritorni nel mondo reale, ma diventa pure un fondamento per costruire casa comune coi morti – con i parenti e con la madre alla quale talvolta bisogna «cambiare il sudario». Resta la consapevolezza di non poter trovare nessun equivalente linguistico al dolore: «nel 1320 / durante la propria incoronazione / Ladislao il Corto / ordinò di frustare i bambini / (...) per questo ho interrotto la poesia» (In memoria di François Mitterand). Pensare al dolore come a una casa dell’essere permette anche di fermare il processo di dispersione, di vedere il mondo e se stessi come una cosa sola:
4. Il traguardo è dentro
Dentro? Vuol dire – dove? Dentro di me – risponde Maria Cyranowicz (nata nel 1974). Dentro di me, nelle mie budella. All’inizio di me, nella mia infanzia. Lo dichiara con forza nella prima poesia del suo primo volume:
Cyranowicz riesce a superare la stessa consapevolezza che paralizza gli altri poeti: consapevolezza della lingua. Crea un’arcadia dell’infanzia, visioni della sua epoca geniale, non mitologizzandola: la raggiunge attraverso lo «sprofondamento nel proprio corpo», scegliendo il corpo, appunto, «come punto d’arrivo in se stessa»:
La sua poesia è una storia della metamorfosi di una ragazza in una donna e, allo stesso tempo, storia del non abituarsi al mondo degli adulti, o piuttosto – dei «bambini di noncuranza speciale che fingono di sapere le regole del gioco» (ventidue). Dal passato non c’è ritorno:
Come per Marcin Ożóg, tranne il corpo tutto è fallace – soprattutto la lingua. La prospettiva ristretta, l’ego rimpicciolito fino alle dimensioni d’un bambino si esprime attraverso una «demolizione della lingua»:
Giochi di parole assomigliano a delle infantili prove della lingua – le alterazioni studiate, lapsus, cambiamenti, associazioni fonetiche, ecolalie – alle loro basi si fa sentire il bisogno di svelare il carattere artificiale della lingua che può essere al massimo lo strumento utile d’un ricercato gioco:
Lo stesso atto di scrivere ha potere catartico: alterando appositamente qualche parola o ripetendola più volte il bambino scopre nella lingua le risorse dello humour e, allo stesso tempo, si accorge che la lingua non aderisce al mondo. Per la Cyranowicz il moto della lingua rende «il moto del sangue» – questa strategia del falsamente ingenuo rapporto con la lingua le permette di superare l’artificiosità implicita alla letteratura e di raggiungere se stessa, per mette di «scrivere solo nel buio o con le mani sull’aria» (‘stostasto).
Contrariamente alla strategia della ‘bambinaggine’ consapevole di se stessa, la proposta di Tadeusz Dąbrowski (nato nel 1979) sembra una soluzione troppo facile e troppo pericolosa. Dąbrowski ripropone la rielaborata formula della ‘nuova privacy’ e della ‘lirica di confessione’: cerca la salvezza dal falso della lingua nei contatti intimi, nelle prove materiali della vicinanza:
Dąbrowski contrappone la città – spazio della solitudine – alla propria camera, il linguaggio straniante della stampa al sussurro delle parole d’amore. Questa poesia spira la certezza che l’unico modo di uscire dal gioco di apparenze linguistiche è cercare una vicinanza, un’intimità non falsata dalle parole, trattare la poesia come «documentazione dei sentimenti» (definizione di Józef Baran):
Sono stati fatti svariati tentativi di descrizione della giovane poesia. Si sottolineava la sua immersione nei media e nella cultura di massa, la consapevolezza di vivere in un mondo diluito (Marian Stala), la vastità delle sue ispirazioni e la varietà delle convenzioni (Wojtek Wróbel). Igor Stokfiszewski ha proposto un approccio a questa poesia in base alle antinomie fra le tendenze moderniste (tecniche delle avanguardie irrazionali) e quelle postmoderniste (metate stualità, intertestualità, decostruzione d’ogni discorso ecc.). Penso che la caratteristica più rilevante della giovane poesia – mi permetto di ribadirlo – sia la consapevolezza della letterarietà e del carattere retorico implicito ai prodotti linguistici, il maggior interesse per la materia poetica insomma, la piena immersione nella lingua. Ecco il «grado zero» di questa poesia. Iniziando dal punto di partenza comune, ogni poeta prende la propria strada, cerca la «propria preghiera». Il proprio modo di uscire dalla parola.
Traduzione di Grzegorz Franczak
NOTE
1 Questo traspare dalle dichiarazioni degli stessi poeti. «La poesia sta nella lingua. È sulla lingua che c’è da lavorare» (Bartosz Muszyński); «Dapprima c’è l’inspirazione della lingua, poi l’espirazione della stessa sotto la forma d’una poesia» (Grzegorz Jankowicz); «e cominciò come al solito dalla lingua messa / lentamente in avanti / sulle posizioni del principio principale» (Jarosław Lipszyc); «ti sei lasciato provocare, ti coinvolge la scrittura» (Paweł Lekszycki); «soffro cronicamente di parola» (Agnieszka Wolny); «tutto è / come se fosse già scritto» (Klara Nowakowska); «nelle parole c’è tutto, perciò tutto quello che ho rendo nelle parole» (Leon Koperek); e in fine una ricetta ironica di Przemysław Rojek: «Prendi un brano del testo altrui, cancella ogni seconda parola, sostituisci le parole restanti con dei sinonimi lontani. Se te la senti, inserisci nel testo la cita zioncina da Borges o Nabokov. Distribuisci tutto in versi impari (...). Le librerie offrono cose ben peggiori».
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