« indietro POESIA COREANA
a cura di Vincenza D’Urso*
KO UN, AVVENTURIERO DEL SILENZIO E DELLA LIBERTÀ
Se qualcuno, anni dopo la mia morte, aprirà la mia tomba, la troverà piena, non delle mie ossa, bensì di poesie scritte nel buio di quella cassa... Sono forse troppo attaccato alla poesia? I miei versi esistono accanto al mio addio alla poesia, per questo il mio attaccamento alla poesia diventa in sé allontanamento da essa.
(dalla Prefazione di Sea Diamond Mountain, 1991)
Ko Un (Ko Ŭn) nasce il 1 agosto del 1933, in pieno dominio coloniale giapponese, a Kunsan, una piccola città della regione Chŏlla settentrionale, primogenito di una famiglia povera e di modesto livello culturale, con la madre malata e taciturna di natura, e il padre affettuoso ma riservato. Il nonno è un ubriacone, noto a tutti per i suoi improvvisi scoppi di violenza, ma è anche un grande patriota che insegna al nipote la storia coreana e il significato della resistenza all’occupazione giapponese. La nonna materna nutre per il nipote una particolare predilezione, ma muore durante l’esodo seguito alla guerra di Corea (1950-53): il disordine in cui versa il paese in quegli anni è tale che, alla fine del conflitto, i familiari non riescono neanche più a individuare la sua tomba. Ko Un affermerà negli anni successivi di aver amato molto la nonna materna, ammettendo come lei sia stata l’unica persona della famiglia per cui il poeta abbia pianto. Alla nonna Ko Un dedica anche una poesia nella sua monumentale raccolta poetica intitolata Maninbo (Diecimila vite), ancora un work in progress che il poeta scrive da anni e che contiene poesie su tutte le persone che Ko Un ha incontrato durante la sua vita. Così ricorda il poeta le difficili condizioni che segnarono la sua quotidianità per lunghi anni:
L’origine del mio ricordo non è chiara. Potevo forse avere cinque anni: era di notte e mia zia mi portava sulla schiena. Si soffriva la fame e la nostra famiglia poteva sfamarsi mangiando solo orzo misto a alghe marine che mia madre raccoglieva durante la bassa marea. La costa era così lontana dalla nostra casa che ogni giorno lei doveva camminare per 10 chilometri per sfamarci. Un giorno mia madre era partita per andare a procurare qualcosa da mangiare e non era ancora tornata. Molta gente aveva seguito il suo esempio, raccogliendo le alghe delle zone più vicine, così lei era stata costretta ad allontanarsi di più, per raccogliere quanto bastava a sfamare temporaneamente la sua famiglia.
In coreano la parola «famiglia» si dice «sikku», che corrisponde alla lettura sino-coreana di due caratteri cinesi, il primo di ‘mangiare’ (sik) il secondo di ‘bocca’ (ku), ossia «bocche che mangiano».
Io avevo moltissima fame. Sulla schiena di mia zia, protestavo forte battendo i piedi e urlando che avevo fame e volevo qualcosa da mangiare. Fu allora che alzai gli occhi al cielo e lo vidi pieno di stelle. Quello fu il mio primo incontro con le stelle. Ma in quel momento le stelle non mi parvero tali, bensì pensai che fossero frutti del cielo, commestibili anche loro. Così ripresi a gridare e a chiedere a mia zia di cogliermi qualche stella da mangiare. Diedi fondo, urlando, alle ultime forze che mi restavano [1].
Ko Un va a scuola negli anni in cui l’uso della lingua coreana viene vietato nelle scuole, ad essa viene sostituita quella giapponese e persino per i caratteri dei nomi di persona viene imposta la lettura giapponese. Ricorda ancora Ko Un:
Al centro della loro politica coloniale in Corea i giapponesi avevano imposto l’obbligo di cambiare i nomi coreani pronunciandoli alla maniera giapponese. In prima elementare il mio nome non era più Ko Un. Ero stato ribattezzato con il nuovo nome di Dakkabayai Dorasuke [2].
All’età di otto anni Ko Un è già uno scolaro molto avanti negli studi, rispetto ai ragazzi più grandi di lui: conosce a memoria i testi classici cinesi, e quando in terza elementare la maestra gli chiede che cosa avrebbe voluto diventare da grande, lui risponde: «L’imperatore del Giappone!». In quegli anni di dura repressione quella risposta gli costa una severissima punizione.
Un episodio accaduto nel 1945, quando il poeta aveva solo 12 anni, determina la sua scelta di vita successiva: un giorno, di ritorno da scuola, il dodicenne Ko Un trova per strada un libro di poesie del famoso poeta lebbroso Han Haun. Rimane sveglio tutta la notte a leggere e negli anni successivi scriverà che quella notte «il petto sembrò scoppiargli dallo shock che quei versi gli procurarono».
Sulla scia di quella profonda impressione, Ko Un inizia a scrivere poesie e nel 1960, quando è ancora un monaco buddista, pubblica la sua prima raccolta di poesie, Sensibilità di altri mondi, che esce immediatamente dopo le proteste del 19 aprile 1960 (ricordato nella storia come il giorno sa (4 - aprile)-ilgu (19 - diciannove), ossia la data delle proteste che decretarono la caduta del governo dittatoriale di Synghman Rhee (Yi Sungman) . Di quei suoi primi scritti il poeta ricorda:
Ciò che possedevo allora era scarsa sensibilità e nessuna reale padronanza della lingua. L’ispirazione era soltanto un’idea vaga. Non ero nient’altro che un bimbo smarrito, un orfano che non era mai entrato nel mondo della poesia, né nel regno di uno scrittore [3].
Ma ritorniamo ancora una volta alla fine degli anni Quaranta, nella Corea del dopoguerra: il paese inizia a stento a rendersi conto che può percorrere un nuovo corso storico, libero dal giogo coloniale, che la guerra di Corea arriva improvvisamente la notte del 25 giugno 1950, a sconvolgere nuovamente le vite di milioni di coreani.
Sconfitto e affranto dalla crudeltà della guerra civile, Ko Un cerca in tutti modi di trovare scampo alle atrocità cui assiste giorno dopo giorno. Cerca persino di arruolarsi volontario, ma viene respinto a causa del suo scarso peso corporeo. Le esperienze della guerra segnano per sempre il suo sensibile animo di poeta: è testimone di violenze e uccisioni da parte dell’esercito nordcoreano, assiste a esecuzioni sommarie di collaborazionisti, inclusi membri della sua stessa famiglia, e persino all’uccisione della donna che era stata il suo primo amore. Viene costretto a trasportare i cadaveri di persone sommariamente giustiziate, cosa che lo porta sull’orlo del crollo psicologico. Tenta persino il suicidio, che per fortuna non gli riesce, ma che gli costa il corretto funzionamento di un orecchio. Neanche la poesia sembra essere più un rifugio per l’Uomo Ko Un, che ancora una volta scrive:
Alla fine della guerra di Corea, il paese aveva subito enormi perdite, tra cui tre milioni di morti. All’epoca avevo appena 20 anni, e divenni un «poeta tra le rovine». Dopo la fine della seconda guerra mondiale e Auschwitz il mondo si era chiesto se la poesia lirica avesse più ragione d’esistere. Dopo la guerra di Corea, che aveva visto lo scontro diretto e sanguinoso di ideologie di sinistra e di destra, ci chiedemmo tutti con dolore se la poesia potesse più avere senso [4].
Molti anni dopo, il Poeta Ko Un bene riuscirà a esprimere quell’incredibile senso di vuoto, quel senso di impotenza che un Essere Umano prova nei confronti dell’orrore della guerra, e che Ko Un magistralmente riassume in pochi versi:
Non ha bisogno di molte parole Ko Un per raccontare l’orrore dei campi di concentramento, per compenetrare il più profondo, sconvolgente, annichilente dolore umano. Come l’Urlo di Munch non ha bisogno di voce per stordire, così la poesia di Ko Un non ha quasi bisogno di parole per raccontare lo sgomento avvertito davanti alle pile di occhiali e di scarpe accatastati in uno dei simboli più atroci della follia della specie umana. Anzi, detto ciò che doveva dire, il poeta rimane in silenzio, non per scelta, bensì perché non trova più parole capaci di descrivere ciò che prova. Non le trova perché non esistono. E il poeta della parola diventa così poeta dei silenzi. Non silenzio di parole già dette. Silenzio dell’impronunciabile, indicibile, incredibile, impossibile. Resta così Ko Un. In silenzio, a fissare oltre il finestrino un panorama che, in assenza, Vuoto assoluto, è del tutto indifferente all’immane sconvolgimento interiore del poeta. L’amore per la poesia, questo «inarrestabile flusso che gli guida la mano quando scrive», riesce però a prevalere: è così che l’Uomo Ko Un del dopoguerra riesce nuovamente a trovare rifugio nella poesia. Scrive il poeta di quegli anni:
I miei sogni iniziarono a divenire realtà dopo che la Guerra ebbe portato immane devastazione. Più della metà dei monti e dei campi erano stati ridotti in cenere e nelle città non c’erano altro che rovine. Per i sopravvissuti non c’era futuro. Si ricominciò dal niente, e instabili baracche cominciarono a sorgere, dappertutto, una dopo l’altra. Un vento freddo soffiava senza interruzione. Ero un giovane poeta di poco più di vent’anni [6].
In quegli anni, oltre alla poesia, anche la religione viene in aiuto di Ko Un. Nel 1952, stanco dell’orrendo spetta colo di morte, Ko Un decide di farsi monaco buddista e si ritira nel silenzio del tempio, dedicandosi esclusivamente alle pratiche meditative Sŏn (Zen in giapponese) sotto la guida del grande Maestro Hyobong. Durante gli anni della sua conversione, riesce anche a raggiungere ranghi elevati del clero buddista, ma dopo dieci anni di vita monastica Ko Un conosce un altro periodo di crisi. Deluso dalla corruzione e dalle lotte di potere che dilaniano i ranghi clericali buddisti dell’epoca, il poeta ritorna nella società.
La sua decisione di smettere gli abiti monacali è un trauma per molti di coloro che lo conoscono e per il pubblico dei suoi lettori in generale, in quanto Ko Un rende pubbliche le sue ragioni in un «Manifesto di rinuncia» che appare su uno dei maggiori quotidiani nazionali, il quotidiano Hankook Ilbo, nel 1962.
Tra il 1966 e il 1967 escono altri due sue libri di poesie, At the Sea’s Edge (1966) e God, the Last villane of Language (1967), ma le sue condizioni psicologiche non sono migliorate e il poeta sprofonda nell’abisso dell’alcol e della crisi esistenziale, per ritentare ancora una volta il suicidio nell’autunno del 1970, che lo fa cadere in uno stato di coma per trenta ore.
Per la Corea quelli sono anni difficili: la dittatura del presidente Park Chung-hee (Pak Chŏnghui) ha adottato politiche dure nel tentativo di procedere alla rapida industrializzazione del paese: le condizioni di lavoro di milioni di operai sono segnate dal totale sfruttamento e dalla totale assenza di riconoscimento dei più elementari diritti umani.
Nei primi anni Settanta Ko Un legge quasi per caso, sulle pagine di un quotidiano gettato via in una taverna, la notizia del suicidio di Chŏn T’ae-il, un giovane operaio del settore tessile, che in segno di protesta contro impossibili condizioni di lavoro, si appicca fuoco immolandosi per la causa del neonato movimento operaio. Ko Un rimane col pito dalla vicenda e si appassiona alla lotta della dissidenza contro le riforme Yushin (riforme costituzionali miranti a trasformare in mandato a vita il mandato presidenziale del generale Park) annunciate dal presidente della repubblica. Ko Un si unisce alla protesta entrando nelle fila dell’Associazione degli Scrittori per la Libertà, di cui, nel 1974, di venta il primo segretario generale. Nello stesso anno diventa anche il portavoce dell’Associazione Nazionale per il Ripristino della Democrazia, cosa che lo porta in prigione per la prima volta.
Nonostante la sua intensa attività politica, Ko Un continua a scrivere, e in questi anni pubblica numerosi lavori: On the Way to Munui village (1977), Going into Mountains Seclutions (1977), Early Morning Road (1978). Pubblica anche sue traduzioni di poesie dal cinese classico: Selected Poems of the T’ang Dynasty e Selected Poems of Tu Fu, come pure biografie critiche di famosi scrittori e poeti: Critical Biography of Yi Joong-Sup, Han Yong-Un, Critical Biography of the Poet Yi Sang.
Nel 1978 viene anche eletto vice presidente dell’Associazione Coreana per i Diritti Umani.
Nell’ottobre del 1979 il presidente Park Chung-hee viene assassinato da uno dei suoi collaboratori più fidati, il capo dei servizi segreti addetti alla sicurezza presidenziale. Ko Un nel frattempo è diventato vice presidente dell’Associazione per l’Unità Nazionale. Questa carica gli costa un altro arresto e la perdita permanente dell’udito ad un orecchio, in seguito alle percosse subite sotto tortura. Un successivo intervento chirurgico riuscirà a ripristinare solo in parte le funzioni uditive.
In seguito all’assassinio del Presidente Park un altro generale, Chun Doo-hwan (Chon Tuhwan), sale al potere con un colpo di stato militare nel maggio del 1980, lo stesso anno della sanguinosa e brutale repressione degli incidenti di Kwangju, cittadina del sud-ovest del paese, durante la quale centinaia di persone rimangono uccise a causa del pesan te intervento militare per sedare la rivolta [7].
In concomitanza con il nuovo colpo di stato, i militari arrestano numerosi dissidenti, tra cui lo stesso Ko Un, che viene processato dalla corte marziale e condannato all’ergastolo. Viene arrestato anche Kim Dae Jung (Kim Taejung), altra grande figura – anche se su un versante più prettamente politico – della dissidenza coreana degli anni Settanta e Ottanta, che negli anni seguenti viene anche eletto presidente della repubblica. Il tribunale della corte marziale lo condanna alla pena capitale. Dopo qualche tempo le condanne vengono revocate e nel 1982 Ko Un è tra i prigionieri liberati grazie a un provvedimento di amnistia generale.
Durante il difficile periodo di prigionia il poeta trova rifugio nella meditazione Sŏn (il poeta spesso afferma che è stata proprio la meditazione Sŏn a salvargli la vita) e in quello stato di forzata solitudine concepisce il monumentale lavoro del Maninbo (Diecimila vite), una raccolta infinita, tuttora in corso, che comprende poesie dedicate a tutte le persone incontrate da Ko Un nel corso della sua vita. In Maninbo Ko Un è la voce narrante. Ma la voce narrante non deve necessariamente essere solista:
Il ruolo del narratore in una poesia può anche essere svolto da un coro di persone o da una voce scelta in rappresentanza del gruppo, ma non sempre è possibile separare le questioni personali da quelle pubbliche, né le cose pubbliche dovrebbero ostacolare quelle private. Una poesia può essere veramente chiamata tale quando gli affari personali e quelli pubblici coincidono. Ricordo ancora i giorni che precedettero la mia entrata nel mondo della letteratura: se non avessi deciso di percorrere il sentiero del mestiere di scrivere, ora quelle memorie non sarebbero che frammentati istanti del passato. Una volta vidi un incendio, avevo all’incirca cinque o sei anni. Nel forte vento di mezzanotte, la casa di campagna dov’ero nato bruciava, e bruciava anche la foresta di bambù sul retro della casa. A nulla valsero gli sforzi della gente del villaggio e dei miei genitori: vidi la nostra casa sparire tra le fiamme, ridotta in cenere. L’incendio e le sue rovine crearono uno spazio enorme nella mia coscienza. Spesso le rovine visibili in ogni angolo della peni sola coreana dopo la Guerra di Corea attraversano la mia mente: sono ricordi di quando ero ragazzo, e si accavallano alle rovine della mia stessa casa. La memoria di una persona non rimane soltanto con quella persona, ma va a collegarsi in maniera organica con i disastri della storia. Così le esperienze giovanili si combinano con i traumi mentali che giungono più tardi, e vengono successivamen te interiorizzate nel mondo mentale del poeta [8].
Finora Ko Un ha completato 25 volumi dell’immane impresa [9], ma il poeta è ancora, incessantemente, all’opera. Nel prendere la decisione di cimentarsi nel Maninbo, è come se Ko Un avesse deciso di ribellarsi alla sua prigionia, scegliendo l’unico modo per riuscirvi, la riscrittura dei suoi ricordi. In Corea, come nel resto del mondo, è dura la vita dei reclusi, soprattutto di quelli per ragioni politiche. Nella piccola cella ci si aggrappa a ogni piccolo pretesto per non impazzire, per continuare a vivere tra quelle quattro, strette pareti. Lì anche un debole raggio di sole, «più piccolo d’un foglietto più volte ripiegato», diventa qualcosa di raro da assaporare e di cui gioire:
Nel 1983 il poeta, uscito di prigione, sposa Lee Sang-hwa (Yi Sanghwa), docente di Letteratura Inglese in un’uni versità della capitale, con cui ha una figlia, Cha-Ryong (Charyong), nel 1985. La vita matrimoniale gli dona un periodo di grande serenità e di rinnovato vigore creativo, che lo portano a revisionare tutte le sue opere, in una raccolta completa pubblicata dalla Minumsa nel 1984. Nell’occasione Ko Un annuncia che a partire da quel momento la raccolta dovrà essere considerata l’unico punto di riferimento in assoluto, per il lavoro dei critici e di tutti quanti si riferiranno al corpus delle sue opere letterarie.
Questa decisione gli aliena il sostegno di numerosi suoi lettori, che lo rimproverano di essere sceso a compromessi con la dittatura militare, accettando di modificare i suoi scritti con un lavoro di censura e di omissioni inaccettabile ai loro occhi. Ma per Ko Un quello è l’unico modo per uscire vivo dalla prigione e il poeta non tornerà più sulla decisione presa.
Il poeta e la sua giovane famiglia si trasferiscono fuori dalla capitale, in una cittadina di nome Ansong, dove il poeta conosce una nuova stagione estremamente produttiva: in quegli anni Ko Un pubblica una lunga serie di raccolte di poesie, tra cui Homeland Stars (1984), Pastoral Poems (1986), Fly High, Poem! (1986), Your Eyes (1988), Morning Dew (1990), For Tears (1991), Sea Diamond Mountain (1991), What!—Zen Poems (1991), Song of Tomorrow (1992), The Road Not Yet Taken (1993), Songs for Cha-Ryong (1997).
Il suo primo viaggio all’estero giunge nel 1987, quando si reca in Giappone per parlare della sua poesia, ma fino al 1992 il nome di Ko Un fa parte di una lista «nera» di poeti le cui opere non possono essere tradotte. La prima raccolta di poesie in traduzione inglese appare nel 1992, The Sound of My Waves, lo stesso anno in cui al poeta viene consegnato un passaporto che gli permette di cominciare a viaggiare. Da allora Ko Un è stato in numerosissimi paesi di tutto il mondo e non c’è mese che non debba partire alla volta di qualche meta lontana per portare ovunque la sua voce di poeta impegnato nella difficile ricerca della libertà e della riunificazione per il suo Paese.
Uno dei momenti forse più appaganti della sua carriera giunge nel giugno del 2000, quando il poeta viene chiamato a far parte della delegazione sudcoreana che accompagna il presidente della Repubblica Kim Dae Jung nello storico incontro al vertice con il leader della Corea del Nord. Nello stesso anno, ad agosto, Ko Un è invitato a intervenire al Millennium Peace Summit delle Nazioni Unite, dove legge The Song of Peace davanti all’Assemblea Generale dell’ONU in sessione plenaria. È, questo, un riconoscimento dell’universalità della lotta di Ko Un, il riconoscimento in assoluto più importante, che consacra davanti a tutto il mondo l’impegno del poeta per la giustizia e la pace.
Il contributo del poeta allo sviluppo della storia letteraria, politica e democratica del suo Paese viene riconosciuto anche in patria, con il conferimento di numerosi prestigiosi premi letterari, tra cui il Korean Literature Prize nel 1974 e nel 1987, il Manhae Prize for Literature nel 1989, il Chungang Cultural Prize nel 1991, il Daesan Literary Prize nel 1994, il Manhae Grand Prize nel 1998 e il Manhae Buddhist Literature Prize nel 1999, il Danjae Prize nel 2004 e il Literary Award for Unification nel 2005. Per due volte, nel 2002 e nel 2004, Ko Un è candidato per il suo Paese al Premio Nobel per la Letteratura.
Di lui un critico letterario ha detto: «Forse egli respira le sue poesie prima di metterle su carta. Posso immaginare che le sue poesie scaturiscano dal suo incantevole respiro più che dalla sua penna» [11]. Lo stesso poeta dice di sé: «Cerco sempre di liberarmi dalle poesie che ho scritto». Per Ko Un, forte dell’esperienza meditativa del suo passato buddista, la poesia è anche un percorso di catarsi mentale:
Il risveglio giunge attraverso le difficoltà della scrittura poetica. Per me esso non arriva mai prima dell’esperienza di scrittura. Spero che l’esperienza di cui parlo in questa sede sia sinonimo di immaginazione. Sono un poeta, e per tutta la vita ho sfruttato parte della mia lingua madre. Ciò ha significato per me speranza, ma spesso anche disperazione.
La dimensione universale della sua poesia è ben descritta nelle riflessioni che seguono:
La mia poesia è una corrente. La corrente può infrangersi sulla costa o creare ritmi con l’aiuto del buio o della luce. Così le mie poesie diventano echi. [...] Sono un figlio ribelle, ostile ad ogni forma fissa di composizione poetica, come quelle che si trovano nella poesia cinese, così piena di regole e limitazioni, quasi quanto il sistema di governo di un tiranno. Il poeta sta, solo, nel sistema di vita di una poesia. Ora non credo più ai molti sentieri che le mie poesie hanno preso. Il verso libero richiede ancora più libertà. Ora che i versi hanno perso ogni forma, ciò che prima non era considerato poesia ora lo è.
Ecco il poeta ribelle a ogni costrizione, il poeta convinto che la poesia non debba essere sottoposta neanche alle restrizioni della punteggiatura: «nelle mie poesie non esiste fine, quindi non uso punteggiature», afferma, e in una delle sue gocce di luce della raccolta Fiori d’un istante confessa, quasi a scusarsi degli errori commessi:
Ciò fa di una poesia un sistema vivente che non può essere definito da nessuno e può essere definito da tutti. [...] È esattamente in questo contesto che rifiuto le mode recenti tendenti a interpretare una poesia considerandola un testo. Nessuna poesia può rimanere su una scrivania o su uno schermo di Internet. Le poesie non esistono in antologie materiali. L’universo, lo spazio, l’immensità del tempo sono il loro palcoscenico più consono. [...]
Eppure Ko Un non smette di scrivere. Finora ha pubblicato oltre 130 volumi e la sua penna non accenna a riposarsi. Ko Un non usa il computer, ma scrive di getto su fogli che portano la sua sigla, sui quali a volte dipinge anche. Per Ko Un il poeta è un fabbricatore di ponti, uno «sciamano, capace di costruire ponti tra gli spiriti di persone differen ti». Oltre al monumentale lavoro di Maninbo, Ko Un continua a pubblicare raccolte poetiche, saggi e racconti, conti nua a viaggiare per fare conoscere al mondo la sua poesia, le sue speranze di pace e il desiderio del suo popolo in una pacifica riunificazione delle due Coree. Dalle sue pagine più recenti Ko Un lancia anche un invito a gioire della poesia essenziale, quasi minimalista, quale quella che forma una delle sue ultime raccolte, Fiori d’un istante. Il testo, dice il poeta,
non è che una piccola parte della mia poesia, e non rappresenta il tutto. E questi piccoli istanti poetici non sono che gocce di luce che cercano di esprimere una parte del più ampio ciclo del vivere [12].
Ko Un «è un poeta magnifico, perfetta combinazione tra un edotto buddista, un appassionato politico libertario e uno storico naturalista» [13], dice di lui Allen Ginsberg. E il Maestro Zen vietnamita Thich Nhat Hanh, che ha scritto una seconda prefazione all’edizione inglese della raccolta, lo definisce «poeta, scrittore e ardente lavoratore per la pace». Nel leggere i versi di Ko Un «permettete al poeta che è in voi di udire la sua voce. Le sue poesie sono vivide, imma ginative, piene di luce. Penetrate nel profondo del momento presente, riflettete su ciascuna parola, e incontrate il poeta Ko Un faccia a faccia» [14]. L’incipit della raccolta Fiori d’un istante rivela un insolito Ko Un:
Ascoltiamolo diventare lupo, assistiamo incantati a questa sua trasformazione, e seguiamolo con lo sguardo lungo i sentieri della foresta, illuminati a giorno dai raggi della luna piena. Seguiamolo nella sua avventura, perché «i poeti sono avventurieri che descrivono il massimo dell’Universo con il minimo delle parole [15]».
NOTE 1 Dichiarazioni riprese da un suo intervento, ancora inedito, tenuto a Venezia, in occasione del 1° Forum di Poesia italo-coreano, organizzato dal Dipartimento di Studi sull’Asia Orientale e dal Dipartimento di Italianistica e Filologia Romanza dell’Università Ca’ Foscari in collaborazione con il Korea Literature Translation Institute, presso la Fondazione Giorgio Cini onlus, il 20 e il 21 ottobre del 2004.
2 Citazione ripresa dalla sezione Ko Un on Ko Un (Ko Un su Ko Un), contenuta nel sito web personale del poeta, aperto nel mese di aprile del 2005 (www.koun.co.kr).
5 Versi tratti da Sun’ganŭi kkot, Ko Un chagun si p’yŏn (Fiori d’un istante – Poesie brevi di Ko Un), Munhak Tongnae, Seoul 2001.
6 Altra citazione ripresa dalla sezione Ko Un on Ko Un (Ko Un su Ko Un) nel sito web personale del poeta.
7 Le fonti ufficiali parlano di circa 280 vittime, ma secondo stime non ufficiali i morti sono molti di più, alcune migliaia. Tra le fila delladissidenza si diceva al tempo che non ci fosse famiglia a Kwangju in quei giorni che non fosse stata toccata da un lutto.
9 Venti volumi sono già stati pubblicati, i volumi dal 21-25 sono in corso di pubblicazione per la Ch’angjakkwa pip’yŏng (Creation and Criticism).
13 Beyond Self – 108 Korean Zen Poems by Ko Un, Prefazioni di Allen Ginsberg e Thich Nhat Hanh, Parallax Press, Berkeley, California, 1997, p. XI.
* Collaborazione con il Centro di Studi Comparati “I Deug-Su” dell’Università degli studi di Siena-Arezzo. Per quanto riguarda i titoli delle opere di Ko Un, si è preferito fare riferimento a quelli in inglese, secondo la denominazione ufficiale stabilita dal poeta. Le opere di Ko Un sono state finora tradotte in bulgaro, ceco, cinese, danese, francese, inglese, italiano, spagnolo, svedese, tedesco, giapponese e vietnamita. Stanno per uscire per la prima volta tradotte in italiano tutte le 184 poesie brevi della raccolta Fiori d’un istante. Le traduzioni delle poesie citate nell’articolo sono dell’autrice.
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