« indietro Antonis Fostieris
1. La parola greca antica ποίησις deriva dal verbo ποιέω che significa «costruire», mentre la parola (di derivazione simile) δημιουργία (= creazione, ndt) sembra sollevare per sua stessa natura il famoso interrogativo sul «mandato sociale» di cui parliamo, poiché si riferisce all’opera (ἔργον) per il popolo (δῆμος). Il poeta-creatore sarebbe dunque un costruttore che crea un’opera per il popolo, cioè per la società da cui è attorniato? Se dovessimo ricorrere all’etimologia e al senso proprio delle stesse parole, la risposta sarebbe affermativa. Ma la relazione tra poeta e società (e, quindi, con il pubblico a cui è indirizzata la sua opera nel tempo e nello spazio) è fantasiosa per eccellenza, quasi metafisica, dato che l’unico contatto immediato del poeta è con lo stesso testo; ubbidisce alle sue direttive e ne applica i canoni. Il lettore con cui instaura un dialogo non è, in realtà, l’estraneo ricettivo di un messaggio o di un insegnamento, ma l’ideale alter ego dello stesso poeta che scrive ed è chiamato, oltre lo specchio del foglio scritto, a sostituirlo e interpretarne il ruolo. Che cosa significa tutto questo? Significa che, parallelamente al presunto mandato sociale, ovvero a una delega confusa della società all’individuo solitario che lotta per la sua arte, possiamo distinguere un corrispondente – ma con direzione e sviluppo diversi – mandato del poeta al suo pubblico: quest’ultimo deve acuire la sua ricettività emotiva, approfondire gli aspetti della riflessione, esercitare l’udito alla voce della poesia e sintonizzarsi con la lunghezza d’onda della sua sensibilità. Del resto, i tempi si sono evoluti, le richieste si sono diversificate, i ruoli sono cambiati. Non credo che nessuno ormai si aspetti di ricevere direttive politiche da parte dei poeti e, per contro, che nessuno aspetti di sentire il brivido della creazione poetica nei discorsi uniformati dei politici. Se, e quando, la società biasima il poeta per la distanza che mantiene dai conflitti sociali, ideologici (vale a dire politici e di partito) e dalle richieste dell’attualità di quel particolare momento, nella realtà dei fatti essa cerca di difendersi aggredendo: per nascondere la sua ignoranza, il profondo e ampio disinteresse per la poesia, per l’Arte e la cultura.
2. Per poter parlare una lingua ed esprimersi con essa occorre, prima di tutto, capirla come ascoltatore. Per la maggior parte dei sordomuti l’incapacità ad articolare le parole è causata non dal danneggiamento degli organi fonetici bensì dalla perdita dell’udito: l’udito non esercita le sue funzioni e, di conseguenza, la lingua non può riprodurre la parola. Qualcosa di simile avviene con il codice della poesia (in modo particolare della poesia moderna), con quello che definite «linguaggio poetico». L’assuefazione sempre maggiore del pubblico, che accetta passivamente qualsiasi cosa (lo dimostra il trionfo della televisione), l’affievolirsi della sua sensibilità e la mancanza di una cultura sostanziale hanno pericolosamente indebolito il suo udito e reso difficile, entro certi limiti, il contatto con il discorso poetico. Tuttavia, se esiste effettivamente (di questo non sono affatto sicuro) un problema di sintonia tra l’emittente e il destinatario del discorso poetico, credo che la responsabilità assoluta gravi sul destinatario. Non credo che il linguaggio poetico si sia sviluppato con difficoltà maggiori rispetto agli enormi balzi in avanti fatti dal linguaggio tecnologico che, però, il mondo intero segue e apprende con facilità in infinite applicazioni quotidiane.
3. La poesia è una lingua dentro la lingua, o, se preferite, un metalinguaggio, cioè una lingua fuori dalla lingua corrente di uso quotidiano. Tuttavia, in nessun caso s’identifica con la lingua comune e perciò, nel suo percorso storico, non si è mai identificata con il linguaggio comune e non l’ha mai «rinnovato» clamorosamente: quello che propone la poesia non riguarda il materiale linguistico di per se stesso ma l’uso che se ne fa, con modalità che suscitano emozioni. Sulla base di questo concetto la poesia continua a dialogare con il pubblico (sempre numericamente ridotto, sia in passato che oggi), in una maniera essenziale e quasi nascosta o marginale, senza ambire a una «rappresentatività sociale» o al consumo di massa. La canzone sì, oggi costituisce realmente una merce di consumo accettata largamente (direi con maggiore precisione: usata largamente), ma senza che ciò significhi, per la poesia, di poter essere sostituita nella sua funzione più profonda, anche quando (spesso, molto spesso) viene interpretata.
[trad. it. di Gabriella Macrì]
Antonis Fostieris (Atene, 1953) ha pubblicato le raccolte Il grande viaggio (1971), Spazi interni (1973), Poesia nella poesia (1977), Amore oscuro (1977), Il diavolo ha cantato a tempo (1981), Il futuro e l’imperativo della morte (1987), Il pensiero appartiene al dolore (1996), Prezioso oblio (2003). Dal 1981 è condirettore della rivista letteraria I Lexi (La parola). In italiano è stata pubblicata l’antologia Nostalgia del presente (Crocetti 2000). Vive ad Atene.
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