« indietro Haris Vlavianos
La «difficoltà» della poesia
T.S. Eliot nel suo famoso saggio Poeti metafisici, del 1921, sosteneva che «i poeti moderni devono essere difficili da comprendere […] poiché la nostra cultura è varia e complessa. Una complessità che, esercitando la sua influenza sulla sensibilità affinata del poeta, deve produrre reazioni varie e complesse». La poesia che non è in grado di essere difficile, sostiene Eliot, o è frutto di una sensibilità scarsamente «affinata», o fallisce nel suo compito di esprimere nel modo più appropriato la vita contemporanea. Otto decenni dopo la riflessione di Eliot, la difficoltà rimane il problema centrale della poesia, almeno per quanto riguarda la sua ricezione da parte dei lettori. Tuttavia oggi la poesia si presenta, in molti casi, meno «oscura», meno allusiva e sviluppa sistemi di organizzazione testuale più vicini alla lingua quotidiana che non all’epoca del modernismo nei suoi momenti migliori.
L’amara riflessione di Walter Benjamin: «Solo in rare occasioni la forma lirica risponde all’esperienza dei lettori», sembra aver più che mai valore. Al giorno d’oggi la poesia è di difficile comprensione anche al lettore più competente, poiché il modo di pensare e comunicare nella società contemporanea sono diametralmente opposti a quelli richiesti per la lettura di una poesia.
Ma quali sono precisamente questi modi di pensare? A chi sostiene: «Non leggo poesia moderna, per ché manca di coerenza logica», ne sappiamo abba stanza per potergli rispondere, seppure non a voce alta: «Non è vero. E anche se fosse, non è questo il motivo per cui non leggi poesia». L’eredità dei poeti della mia generazione è la condizione di un generale disinteresse; ma – paradossalmente! – se da un lato nessuno prova interesse per i poeti, allo stesso tempo tutti si lamentano che i poeti sono invisibili: perché l’angolo dove non si guarda mai è sempre quello buio. Chi non è abituato a leggere poesia adduce a giustificazione la difficoltà di poesie che non ha mai letto. Se qualcuno dice in tono riprensivo di non riuscire a capire la poesia di Elitis o di Heaney, il tono della voce rivela che ha trascorso le ore più piacevoli accanto al camino in compagnia dell’Elettra di Sofocle o della Divina Commedia o di Macbeth, ed è triste scoprire che le sue preferenze nella lettura sono limitate alle pagine delle riviste di gossip, alle piccanti rivelazioni delle starlette e all’ultimo bestseller dell’emergente (ma anche dopo una ricerca affannosa) «fenomeno» letterario. Tuttavia, sebbene tutti parlino della difficile comprensione della poesia moderna, pochissimi sono interessati a esaminare un po’ più a fondo il problema. Le argomentazioni di Eliot sembrano alludere a come la difficoltà non sia una qualità innata dei testi, semmai è un tipo particolare di relazione tra il lettore e l’autore. Nessun testo è «facile» o «difficile» al di là di regole e dati della comunità che decide cosa rende un sapere necessario e sufficiente, e quale è il modo esteticamente più adatto di affrontare il testo. In altre parole, la difficoltà non è una particolarità del testo poetico: si correla direttamente al modo in cui il sistema educativo ci insegna a leggerlo.
Eliot, in tempi remoti, faceva circolare le sue poesie scritte a mano, come anche John Donne, per avere così l’opportunità di controllare e modificare le condizioni di lettura della sua opera. Oggi, però, in una società spiritualmente disgregata e volubile, dove mancano un sistema ampiamente riconosciuto di valori e criteri chiaramente stabiliti per dire cosa sia un’o pera d’arte, un individuo dotato di sensibilità è sempre più trascinato verso uno spazio interiore. Il poeta è condannato ad essere di ardua comprensione perché parla soprattutto a se stesso e ai suoi simili – in questa piccola «comunità» dove è ancora possibile comuni care, e nelle cui insenature alcune cose, per fortuna, sono evidenti.
Se dunque la poesia moderna è ardua da comprendere, ciò è dovuto alla scomparsa del lettore, e non è la sua causa. Non ha senso piangere per la sua perdita. L’unico dovere, in questa atmosfera di discorso decadente, disgregato, è di mantenere viva la lingua. Per noi e per i nostri simili.
[trad. it. di Gabriella Macrì]
Haris Vlavianòs (Roma 1957) vive ad Atene. Tra le raccolte più importanti: Acerrima confutazione (1989), La nostalgia dei cieli (1991), Adieu (1996), L’angelo della storia (1999), Dopo la fine della bellezza (2003). È direttore della rivista Piisi (Poesia).
¬ top of page |
|||||
Semicerchio, piazza Leopoldo 9, 50134 Firenze - tel./fax +39 055 495398 |