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Guido Mazzoni
Semicerchio mi ha chiesto di concludere questa discussione con una breve replica. Innanzitutto sono sorpreso e lusingato che alcuni paragrafi di Sulla poesia moderna abbiano potuto suscitare un dibattito così ampio fra alcuni dei maggiori poeti contemporanei. I loro interventi sono molto più ricchi dello spunto iniziale e meriterebbero una riflessione approfondita che non ha senso aprire in queste poche righe. Mi limiterò a chiarire il mio pensiero su tre argomenti: il problema del pubblico, il rapporto con la canzone, il destino della poesia contemporanea.
In Sulla poesia moderna ho cercato di raccontare la metamorfosi che, fra la seconda metà del Settecento e la prima metà del Novecento, trasforma un’arte governata da solide norme pubbliche nel più individualistico dei generi letterari. Ho provato a mostrare come, al termine di un processo che distrugge convenzioni millenarie, i poeti conquistino una libertà senza precedenti: possono esibire senza pudore la propria biografia, scrivere in modo oscuro, rinnovare il vocabolario, sovvertire le regole del metro, della grammatica, della sintassi; possono, in altre parole, allentare il legame con la tradizione e col senso comune, indebolendo così i vincoli collettivi che ci per mettono di comunicare. Grazie a questo processo, la poesia degli ultimi secoli rinnova la nostra immagine del mondo ed esprime l’«inexpliqué besoin d’individualité» (Mallarmé) consustanziale alla nostra epoca, ma al tempo stesso moltiplica la quantità di presupposti che servono per capire le opere e diventa una tipica arte di ceto, di corporazione. Se per oltre un secolo il gruppo sociale che apprezzava la poesia moderna, che si riconosceva nei suoi temi e nei suoi stili, ha avuto un’egemonia sulla cultura e sui canoni tramandati, da alcuni decenni non è più così. In questa metamorfosi leggo il sintomo di un cambia mento più vasto.
Alcuni dei brani citati possono far pensare che io sostenga la superiorità estetica della musica rock e pop sulla poesia contemporanea, mentre in realtà ho solo cercato di descrivere una trasformazione storica. Si potrebbe ribattere che l’assenza di giudizio implica pur sempre una forma di giudizio. Sono consapevole che in quel paragrafo c’è qualcosa di provocatorio. L’ho scritto contro la tradizione adorniana nella quale mi sono formato e contro la miopia corporativa di molti poeti. Non mi interessava in alcun modo rivalutare la canzone; mi interessava invece riflettere sullo scontro, che attraversa l’Occidente, fra la cultura umanistica tradizionale e la cultura della comunicazione di massa. Perché non c’è dubbio che la società dello spettacolo abbia creato, soprattutto negli ultimi quarant’anni, un sistema di racconti, mitologie, discorsi, teorie, immagini del mondo che si comporta, nella pratica, come una nuova cultura umanistica, diversa da quella che abbiamo ereditato dal passato e che i canoni scolastici difendono, almeno in Europa. Questo conflitto e questa ibridazione hanno luogo ogni giorno: chi ha meno di quarant’anni e si è formato in un regime di bilinguismo culturale lo sa benissimo. I rapporti fra poesia moderna e canzone sono la parte di un intero più ampio di cui volevo discutere togliendomi gli occhiali francofortesi, abbandonando il repertorio di luoghi comuni sull’abbacinamento delle masse generato dai media e rinunciando all’idea che l’umanità abbia un’integrità da restaurare, un’essenza da realizzare. Volevo uscire dal mio canone e pensare la storia della cultura come un mutamento senza telos, una trasformazione continua di idee, di gusti, di stili, di generi, di mode.
Io non credo che la poesia sia destinata a sparire; credo però che stia vivendo un lungo, lunghissimo crepuscolo della propria rilevanza pubblica, e che non si possa liquidare questo evento come un fenomeno di superficie, ogni nostro valore, pensiero, opera essendo soltanto, in ultima analisi, una costruzione sociale. Occorre aggiungere che la poesia moderna dispone di molte risorse per lenire gli effetti di un simile declino. Può gestire un enorme capitale simbolico accumulato nei secoli e custodito dalle istituzioni. È diventata l’arte dell’intellettualità di massa, quella che permette a decine di migliaia di letterati più o meno proletarizzati (studenti e dottorandi di materie umanistiche, professori di liceo, professori universitari) di continuare a coltivare il sogno estetico che li ha indotti a fuggire dalla vita attiva e a rischiare la precarietà. Infine è l’arte che, incoraggiando l’autobiografismo e non richiedendo il possesso di uno strumento o di una tecnica, incarna l’ansia moderna di autoespressione. Per tutti questi motivi, la poesia non sparirà. Occuperà piuttosto un ruolo simile a quello che il teatro ha occupato nel secolo del cinema: avrà i suoi Beckett e i suoi Heiner Müller, i suoi scrittori capaci di trascendere i limiti di un genere sempre più chiuso in se stesso e di parlare ai lettori colti ma non specialisti. Continuerà a produrre opere che, agli occhi delle persone educate ad apprezzare un certo gioco linguistico, avranno un contenuto di verità profondissimo. Io sono una di queste persone. Ma accanto a me, altri gruppi sociali, probabilmente egemoni rispetto al mio, avranno altri gusti, venereranno altre opere e ignoreranno l’esistenza dei testi che io ammiro fino a quando una rotazione del tempo storico, ibridando o trasformando le cose di cui parliamo, renderà incomprensibili questi nostri discorsi.
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