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« indietro Spazi di traduzione Camilla Miglio
1. Radici: tradurre spazi Il tradurre, atto e figura di pensiero dello sposta mento, segna con la sua presenza i grandi passaggi culturali. La vicenda di Babele, intesa canonica mente come maledizione e perdita dell’unità o, nelle interpretazioni più moderne, come benedizione e accesso alla storia della diversificazione cioè alla libertà, fissa in entrambe le accezioni del mito un sostrato linguistico assodato. Si tratta della lingua di Adamo, di cui sentire nostalgia per recuperare l’antica innocenza, o da cui staccarsi per accedere all’esperienza del nuovo. In entrambe, la percezione dello spazio è determinante. Gli uomini di Babele si disperdono per tutta la terra. Allo stesso modo sono mandati in ogni dove, nell’episodio che nel Nuovo Testamento proprio a Babele risponde: Pentecoste. I soggetti parlanti – dopo Babele o dopo Pentecoste – ‘trasportano’ una o più lingue e con esse occupano porzioni di mondo.
Tradurre apre sin dall’etimologia la questione dello spazio. La radice della parola risale al latino traducere, trasferire ‘al di là’, usata tuttavia solo a partire dal 1520 circa nel senso di trasferire da una lingua all’altra, da cui translate, übersetzen, übertragen, traduire, tradurre. Secondo diverse gradazioni semantiche, nel lemma è intrinseco lo spostamento, il trasporto di un oggetto che si suppone stabile e persistente in sé. Questa concezione antica, linguisticamente fondata nel suo essenzialismo, possiede un’evidenza che ci porta a immaginare la traduzione come dislocamento e deterritorializzazione, ma anche adattamento di un oggetto-testo. Quindi: come traduzione culturale. Tale adattamento comprende, è ovvio, una modificazione necessaria per innestare l’oggetto da un luogo all’altro, da una lingua all’altra, ma resta stabile un nucleo di significato ‘trasportato’.
Eppure l’idea di trasporto nello spazio, quando si parla di poesia, mostra tutti i suoi limiti. Tradurre poesia non è trasferirla, ma ri-produrla altrove. Più che di traduzione si può forse parlare di produzione di spazi. La produzione di spazi implica la presenza attiva di uno o più soggetti dentro l’azione, e non di un oggetto che subisce l’azione, in questo caso il trasporto. Il protagonista dell’azione sarà un soggetto interpretante. I greci lo chiamavano hermeneus.
2. Radici: produrre spazi Torniamo alla Scrittura con un testo inaugurale del passaggio dall’evo antico a quello cristiano, scritto in greco, in cui compare in primo piano la figura dell’hermeneus. Nel prologo al Vangelo di Giovanni, un canto scritto in greco, composto a più mani ma forse ricucito da dita di poeta, l’evangelista veste i panni dell’hermeneus, esplicitamente indicando le parole aramaiche corrispondenti a ‘Maestro’, ‘Messia’, ‘Pietro’, tracce dell’originario contesto aramaico dei fatti narrati. Ragioniamo su tre citazioni ben note, ma forse non abbastanza considerate secondo una teoria della traduzione come spostamento culturale fondante:
Giov 1, 38 Rabbì, (o lèghethai hermeneuòmenon, didàskale)
Interlineare: Rabbì, che si dice tradotto maestro
Vulgata: Rabbi (quod dicitur interpretàtum, Magister)
Lutero: Rabbi (das ist verdolmetscht, Meister)
Concordata: ‘Rabbi’, che tradotto significa Maestro
Società biblica di Ginevra: Rabbì (che, tradotto, vuol dire Maestro)
Giov, 1, 41: Messìas, o estì metermeneuòmenon o Christòs Interlineare: Messia, che è tradotto Cristo
Vulgata: Messiam (quod est interpretatum Christus)
Lutero: Wir haben den Messias funden (welches ist verdolmetscht: der Gesalbte).
Concordata: Messia che tradotto significa il Cristo
Società biblica di Ginevra: ‘Messia’ (che, tradotto, vuol dire Cristo)
Giov, 1, 42
Kùphas, o hermenèuethai Pètros
Cefa, che si traduce Pietro.
Interlineare: Cefa, che si traduce Pietro.
Vulgata: Cephas (quod interpretatur Petrus).
Lutero: Kephas heißen (das wird verdolmetscht: ein Fels).
Concordata: Cefa, che vuol dire pietra
Società biblica di Ginevra: Cefa (che si traduce ‘Pietro’).
Occorre tre volte il verbo hermeneuein, tradurre, inteso come come ‘interpretare’, spiegare, mediare ad altri. Nell’hermeneuein è compresa l’idea di un destinatario. Giovanni determina così il suo compito di traduttore. Rende interdiscorsivo il suo messaggio, dona a parole come Maestro, Messia, Pietro, una plasticità linguistica. Didaskalos, Christòs, Pètros sono corpi che gettano sulla pagina la loro ombra antica, la loro voce aramaica: Rabbì, Messias, Cuphas. Questo testo si pone così tra i momenti culturali fondativi del tradurre: contro-narrazione del babelico disperdersi della lingua unica in idiomi incomunicanti, proclama la possibilità, tutta umana ancorché divinamente ispirata, di comunicare tra lingue e spazi diversi.
La radice greca vive nelle accezioni tedesche e romanze di interpretare e dolmetschen. Porta con sé un ruolo attivo, performativo, interpersonale. Dolmetschen in tedesco è un forestierismo derivato dall’ungherese tolmács, derivato a sua volta dall’ottomano dilmaç. Non è difficile riconoscere in queste matrici la traccia di relazioni transnazionali: l’attività degli interpreti che accompagnavano i commerci economici e politici nell’area centro orientale d’Europa, dall’Eufrate al Danubio, seguendone l’innesto nell’ungherese e nelle lingue slave (serbo тумач/ tumač, polacco tłumacz, ceco tlumočník, russo толмач). Da Lutero in poi dolmetschen sarà un lavoro di continuo chiarimento, creazione di una lingua di una lingua atta non a trasportare le parole ma a creare una fede consapevole della Parola, una lingua che sia in sé Parola sacra. Resta centrale la figura del mediatore. Non il mercante né il diplomatico ottomano, ma il pastore-predicatore-interprete della parola, come soggetto creatore di chiarezza e logos. Forse proprio per questo l’evangelista preferito da Lutero era Giovanni.
La presenza umana, del soggetto parlante e atti vo, è più evidente nell’accezione del tradurre compresa in hermeneuein. Il destino ha voluto che l’uso corrente ne avesse rovesciato i valori. Interprete è oggi il mediatore delle relazioni e delle comunicazioni immediate, colui che deve far passare nel più breve tempo possibile il messaggio. È un ‘trasportatore’ molto veloce, tanto più bravo quanto meno meccanico sarà il suo trasporto quanto più intelligente sarà il suo adattamento. Il patto è però quello di non ‘creare’ nulla nuovo.
3. Gli spazi interlineari della poesia Con in mente le radici del discorso sul e del tradurre volgiamoci ora alla poesia, pensandola come una forma estrema di traduzione che mette a testa in giù tutte le nostre categorie d’orientamento. Pensiamo il traduttore-poeta come qualcuno che non guarda alle radici, quanto piuttosto ai rami di un grande albero. Lo suggerisce un poeta traduttore, Paul Celan, nei suoi scritti inediti, in gran parte disponibili in italiano nella bella scelta di Dario Borso (Trento 2010). In un appunto del 1959 leggiamo: «Non dalla radice, che non possiamo più percepire, ma dai rami protesi nel tempo – lontani dalla radice […] ricaviamo il vero fondamento» (Celan, Der Meridian, Frankfurt am Main 1999, p. 106. Trad. C. M.).
Tra ramo e ramo, gli spazi. I versi, come gli spazi bianchi, hanno una loro ‘occupabilità’ (Besetzbarkeit) . Dalla possibilità di ‘occupare’ gli spazi bianchi (ecco lo spazio) e ‘riattualizzare’ la scrittura (ecco il tempo), Celan deriva un nuovo concetto della poesia come versione interlineare:
La poesia, come già detto, vuole essere compresa, si offre come versione interlineare. [...] La poesia in quanto poesia porta con sé la possibilità della versione interlineare, realiter e virtualiter; in altre parole: la poesia è, in un modo tutto suo, occupabile. […] Non intendo gli spazi bianchi tra verso e verso; vi prego di rappresentarvi questi spazi bianchi nello spazio – nello spazio e nel tempo. Nello spazio e nel tempo dunque, e, vi prego, sempre in relazione con quella poesia (Celan, Microlithen, Frankfurt am Main 2005, p. 132. Trad. C. M.).
Ci sono opere che non ‘raffigurano’ spazi ma li creano, spazi non esistenti prima, spazi bianchi. In questo senso la poesia è dicibile come traduzione interpretazione, come dinamica ripetizione e rilettu ra del testo, nello spazio e nel tempo. Le parole di Paul Celan ci faranno da viatico tra le letture e tra duzioni proposte in questa sezione.
4. Rami Nella prima serie di testi, Canti di un’isola dell’austriaca Bachmann, un’isola con i tratti di Ischia, luogo chiuso circondato da un grande e mobile spazio aperto, produce il proprio canto profondo, così pro fondo da diventare terra liquida, lava. Li ho ritradotti per rileggerne la partitura musicale, a volte coreutica, tradizionale, arcaica, sottesa alla scrittura. La poesia è un paesaggio ritmico, verbale, fonico e mnestico. A partire da un paesaggio, ne riempie gli ‘spazi bianchi’ di memoria e di possibilità.
Il tedesco Marcel Beyer, qui presentato nelle versioni dell’officina di traduzione dell’‘Orientale’, scende negli interstizi del minimale, nella terra, nella zolla, nella cellula, nella spora, nella pelle e dell’osso scavato sottoterra. Nelle porosità stratificate di un toponimo si può aprire lo spazio della storia rimossa, di un passato inquieto.
Il siriano Adonis dilata dai dettagli una grande e nuova mappa segnata da nomi di poeti ed elementi architettonici, da toponimi orografici e costruzioni di città. Dodici «nicchie d’infinito» sono gli spazi illumi nati da queste Dodici lampade per Granada tradotte da Francesca Maria Corrao.
Il palestinese Mahmud Darwish, nella traduzione di Simone Sibilio, leva un canto a luoghi e nomi perduti, in cui riconfigura non solo gli spazi di una Palestina immaginata, ma i punti cardinali di una sincretica tradizione occidentale-orientale.
Il cipriota Michalis Pierìs legge tra le linee della sua terra divisa e dilaniata ancora oggi da lotte sanguinose. Osserva la traduttrice Paola Maria Minucci: «Pierìs attraversa con la rapidità propria del sogno luoghi e tempi, lingue e dialetti; nel presente della scrittura contrae passato e futuro, memorie e visioni».
Emily Dickinson è in grado di creare spazi del tutto fuori-luogo, eppure radicati nella mano di chi scrive. Dal chiuso di un «cuore in porto», all’aperto della passione in cui l’amato si dilata in un Eden da solcare come distesa marina. Gli spazi metafisici anche in Dickinson – non ci sorprenderà in una mistica – sono loci bianchi da risvegliare, spazi e tempi «dove il senso giace». Accediamo a questi spazi nella traduzione di un poeta, Marco Giovenale.
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